Chi conosce Anas K.? Il nuovo Jan Palach eclissato dai media

Mezzo secolo dopo il sacrificio di Jan Palach, un’altra torcia umana ha trasformato il settimo arrondissement di Lione in una nuova Piazza San Venceslao. Venerdì 8 Novembre Anas K., studente di Scienze Politiche dell’Università di Lione, ha deciso di cospargersi di benzina ed incendiarsi davanti alla mensa del campus universitario, riportando il 90% di ustioni sul corpo. La sua vita è appesa a un filo.

Ne avete sentito parlare? Prima di compiere l’estremo gesto, lo studente originario della vicina Saint-Étienne – della quale andava orgoglioso per via della sua vocazione operaia e popolare – ha lasciato un testamento virtuale sul suo profilo facebook, un durissimo J’accuse contro Macron, Hollande, Sarkozy e l’Unione Europea, colpevoli di aver ucciso il futuro degli studenti con le loro politiche, senza peraltro risparmiare la Le Pen e i giornalisti, definiti creatori di paure ingiustificate. L’attacco alla classe politica europeista, corollario del suo gesto, si chiude con l’invito rivolto ai suoi colleghi di combattere la crescita del fascismo e quella del liberismo, portatori di divisioni e disuguaglianze nel mondo.

Anas non soffriva di depressione ed isolamento come molti millennials, piuttosto era molto impegnato nel sociale, tanto da ricoprire l’incarico di segretario federale per il sindacato studentesco Solidaires Étudiant-e-s. Il suo straziante gesto, eclissato dai media che fungono da megafono della tribuna neoliberista, è un anelito di giustizia sociale, legato ai problemi economici di una generazione universitaria che in Francia riceve il ridicolo sussidio di 450 euro mensili per una borsa di studio.

Per Anas non erano abbastanza per vivere e garantirsi un futuro. E come dargli torto. I tagli all’istruzione pubblica e il rovesciamento delle risorse su quella privata stanno, riforma dopo riforma, corrodendo le speranze degli studenti ed il loro diritto allo studio. Il costo della vita, dalla criminale introduzione della moneta unica, si è impennato vertiginosamente tanto da costringere gli studenti a divenire lavoratori prima del tempo, allontanandoli giocoforza dall’impegno formativo, nonché da quello politico e sociale, autentico spauracchio per le classi dominanti e i loro valvassori all’Eliseo.

Non lascia sorpresi, difatti, la pronta reazione dei portavoce governativi d’oltralpe che hanno minimizzato la portata politica del martirio del ragazzo, invitando a ricercare le ragioni nel suo profilo psicologico. Nonostante i goffi tentativi di mascherare la realtà, fatta di precariato e classismo, di servizi accademici scadenti e studentati pieni di scarafaggi, la protesta suicida di Anas K. è un tragico bagliore di speranza affinché la generazione studentesca possa far luce sul proprio futuro, che non può e non deve passare solo attraverso gli scioperi e le parate ambientaliste del Venerdì.

Cinquant’anni prima di lui Jan Palach e Jan Zajíc si arsero a Praga in difesa della loro gente, per difendere la loro dignità di studenti oscurata dai mezzi di informazione e collocata nello scacchiere di un mondo che non gli apparteneva. Se dovessimo traslare da ieri ad oggi gli obiettivi politici di questi giovani martiri potremmo facilmente osservare che, pur cambiando il nome e l’ordine dei fattori coinvolti, il risultato non cambia. L’Unione Sovietica nella fase sua fase di decadenza, nelle sue politiche centripete, nei suoi picchi di ingerenze ed interessi sovranazionali, era così diversa da ciò che è “nato” dal Trattato di Maastricht? Brežnev era davvero più spietato di Macron?

La risposta è adagiata ben visibile sul pavimento di quel laboratorio di censura e repressione che è divenuta la Francia odierna, laddove i Gilets Jaunes sono stati lentamente infiacchiti e stroncati attraverso un lavoro certosino di sovraesposizione e distorsione mediatica, dopo essersi duramente insanguinati sul campo con le forze dell’Armata Bleus.

Se i media globalisti hanno avuto gioco facile nel diffamare un movimento così composito e numeroso, con il gesto di un singolo come lo studente dell’Università di Lione questa via non era percorribile. Meglio virare sulla rotta della censura preventiva, in stile totalitarismo, o sulla via dell’eresia del soggetto, stile Inquisizione, materia cara a chi considera insani tutti coloro che non si piegano all’ideologia dominante. All’epoca quello di Jan Palach fu probamente considerato un atto politico, un desiderio di morire libero in un mondo di oppressi, un tentativo disperato di scuotere le coscienze del proprio popolo.

Oggi invece la fiamma di Anas vuole essere dolosamente spenta, sommersa da altre notizie spazzatura nella discarica mainstream. Nel frattempo la mobilitazione dei suoi compagni universitari a Lione continua, poiché anche se sono trascorsi cinquant’anni da Palach, “i nostri popoli sono – ancora e di più – sull’orlo della disperazione e della rassegnazione”.

 

Andrea Angelini

Il cane ai tempi dell’umanizzazione

Umanizzazione degli animali- Tre giorni fa, nel catanese un bambino di diciotto mesi è morto azzannato da uno dei Dogo argentini di famiglia e l’opinione pubblica continua a dividersi. Risulta sempre particolarmente interessante leggere i commenti degli utenti dei social network sotto gli articoli postati dalle principali testate giornalistiche. Nella maggior parte dei casi, emergono (almeno) due posizioni che non dialogano affatto tra di loro, bensì si polarizzano e procedono su binari paralleli. D’altronde, ogni singolo commento sembra un monologo, un contributo a sé stante. Il confronto è ben altra cosa.

Nel caso del povero bambino, almeno inizialmente i due binari paralleli si sono diretti rispettivamente verso il processo alla mamma, con annesse giustificazione e comprensione del comportamento del cane, e il processo al cane, con annesse invettive contro i cani in generale. Da una parte, quindi: “La mamma deve essere arrestata per negligenza”, “La mamma deve essere arrestata per maltrattamento di animali”, “I due cani era tenuti in pessime condizioni”, “Se il cane ha azzannato il bambino, un motivo ci sarà”, “I cani, se bene integrati nella famiglia, non azzannano”, “I cani non sono mai aggressivi”. Dall’altra parte: “Certe razze andrebbero abbattute”, “I cani sono sempre aggressivi”, “I cani non possono stare in famiglia”, “Adesso abbattete quei cani!”, e simili. Solo timidamente e faticosamente si è fatta strada qualche ipotesi più articolata, qualche visione più complessa, e il tenore generale dei commenti, sulla scia degli articoli proposti dai media, con il passare delle ore si è leggermente modificato, lasciando spazio (anche) a letture di tipo diverso.

C’è un aspetto in particolare, delle due agguerrite posizioni originarie, che colpisce, oltre alla certezza inoppugnabile con cui sono state portate avanti e alla consultazione di fonti non verificabili, caratteristiche distintive delle piazze virtuali. Un aspetto che accomuna sia chi si scaglia contro gli umani che non sanno educare adeguatamente i propri cani, sia chi sembrerebbe volersi vendicare dei cani “assassini”, ovvero l’umanizzazione sempre più massiccia del mondo animale.

Sia che si tratti di voler comprendere a ogni costo un comportamento animale, sia che si tratti di voler punire un cane per “dargli una lezione”, ciò che sembra spuntare tra le righe è l’attribuzione all’animale, soprattutto se domestico, di intenzioni, reazioni, sentimenti umani. In poche parole, è sempre l’uomo con i suoi criteri, i suoi filtri, la sua ottica, a inquadrare, classificare, categorizzare un cane, un gatto, persino una tartaruga o un coniglio, anche quando è convinto di dar voce alla natura, di lasciarla esprimere.

La natura (sbagliata) che attribuiamo agli animali

Ma è davvero in questo modo che si dà voce alla natura? Al di là di qualsiasi tipo di giudizio o pregiudizio, è abbastanza evidente che in questi anni si stiano ponendo le basi per una riflessione molto interessante, che episodi di cronaca di questo genere non fanno che rendere più urgente. Quanto dietro questo bisogno di rendere familiari anche gli animali più difficilmente addomesticabili si nasconda, in realtà, il sempreverde antropocentrismo, lo stesso che gli animalisti si prefiggono di combattere?

Gli addestratori comportamentali, gli psicologi canini, i vestiti per cani e gatti, le affermazioni sempre più diffuse come “il mio cane è come un figlio”, e altro ancora. Tutto ciò non rischia di schiacciare l’animale, solitamente il cane, entro categorie affettive che sono soltanto umane? Non è anche questa una forma di specismo, seppure blanda e mascherata?

Sempre più frequentemente, capita di ascoltare o leggere affermazioni assolutistiche su quanto gli animali siano in grado di dare amore e sollievo più degli esseri umani, sull’altruismo che riescono a dimostrare a differenza delle persone, su quanto nelle nostre relazioni e nei nostri affetti avremmo da imparare dai nostri amici a quattro zampe. O capita di assistere a una scissione totale operata tra distruttività e amorevolezza, con la prima che apparterebbe solo e soltanto all’umanità, che di conseguenza meriterebbe di scomparire, e la seconda che sarebbe appannaggio esclusivo del mondo animale. O, ancora, ci si imbatte in racconti e descrizioni di relazioni uomo-cane in cui l’animale appare come colui che ha riempito una frustrazione o un vuoto tutto umano, quindi come qualcuno su cui riversare aspettative immancabilmente umane.

È noto quanto l’affetto di un cane sia terapeutico, quanto il suo attaccamento sia commovente, quanto il suo contatto fisico faccia bene allo spirito, quanto sia difficile separarsi da lui. A volte viene, però, il sospetto che si stia andando oltre, che ci si aspetti dagli animali domestici, e persino non domestici, qualcosa che bisognerebbe richiedere a se stessi e ai propri simili, e che si proietti su di loro tutta la gamma dei sentimenti umani e delle motivazioni umane, dimenticando e ingabbiando quella che è la loro natura, in ogni caso diversa dalla nostra.

Che fine fa la natura di un cane quando lo trattiamo come un bambino? O quando lo addestriamo affinché sia più gestibile in un piccolo appartamento di città? O quando lo facciamo “sedere” a tavola, lo vestiamo, festeggiamo il suo compleanno, lo additiamo ai nostri figli come un fratellino? Non prevale, ancora una volta, un bisogno tutto umano di ricevere amore e considerazione? Non gli stiamo attribuendo un ruolo che non ha scelto?

Un cane non è un uomo, un bambino, un figlio. Un cane non può subire un processo di umanizzazione. La sua natura, la sua diversità, i suoi istinti, il suo carattere, andrebbero visti e riconosciuti. La relazione che ci permette di sperimentare con lui, così gratificante e unica, andrebbe considerata in ogni caso come un qualcosa di diverso dalle relazioni che abbiamo con familiari, partner e amici, di non assimilabile a quelle. Il rischio dell’umanizzazione è quello di non rispettare la natura dell’animale, di sottovalutare – in alcuni casi – una pericolosità, di non prendersi carico di un proprio bisogno relazionale.

No, un cane non è un figlio. E alla mamma di Mascalucia, a cui è toccato il dolore più grande, vanno soltanto tanto calore e tanto sostegno.

 

 

 

Exit mobile version