Addio a Fidel Castro, il comunista che non fu comunista

“Presto compirò i 90 anni, mai avevo pensato di arrivarci e mai mi sono sforzato di arrivarci. È stato un capriccio del destino. Presto toccherà anche a me, il turno arriva per tutti”. Questo disse Fidel Castro Ruz lo scorso aprile, nel Palacio de Convenciones dell’Avana, rivolgendosi – “forse per l’ultima volta”, come precisò – ai delegati riuniti per l’assemblea di chiusura del VII Congresso del Partido Comunista de Cuba.

E fu, il suo, un discorso assai breve. Il più breve, probabilmente, tra gli innumerevoli da lui tenuti nel corso d’almeno sessant’anni, tutti immancabilmente passati agli archivi come esempi d’una oratoria debordante, entrata nella leggenda per la sua verbosa, teatrale ed ammaliante estensione temporale. Breve e, a suo modo, anche triste e definitivo. Come un addio.

Quel “presto” è, in realtà, oggi. Perché proprio oggi, nella notte tra il 25 ed il 26 novembre 2016, quell’inevitabile, biologico “turno” è infine arrivato. Fidel Castro Ruz è morto. Il comandante en jefe, il líder máximo, el caballo, Fifo, è morto davvero – “ei fu”, verrebbe da dire con un’eco manzonian-napoleonica che a lui, di certo, non sarebbe dispiaciuta – al termine d’una vita che, ben al di là d’ogni scontata considerazione sulla caducità dell’umana esistenza, proprio con la morte è vissuta in una molto peculiare e perenne simbiosi.

Perché, in effetti, proprio la morte – la sua morte, la morte di tutti, la morte, esaltante e macabra, di “patria o muerte” – è sempre stata da Fidel Castro considerata come l’unica possibile alternativa a se stesso e al suo personale trionfo. E, ancor più, perché la sua morte – una morte che appariva “nell’ordine delle cose”, una morte dai suoi nemici cento volte annunciata e da lui, fino a ieri, ogni volta spettacolarmente smentita – è sempre stata parte d’un mito che, costruito con geniale sapienza, è, in ultima analisi, soprattutto un mito di perpetua resurrezione, col tempo trasformatosi in un molto meno mitico, ma egualmente straordinario, monumento alla sopravvivenza.

La morte è infine arrivata. Ed è stata davvero, come Fidel Castro aveva forse involontariamente previsto, la morte che “arriva per tutti”. Terribile, misteriosa e banale. Priva, nella sua ovvietà, d’ogni eroico risvolto. Una morte senza “resurrezione” e molto lontana – paragone, questo anch’esso banale, ma inevitabile – da quella, entrata nel mito, di Ernesto “Che” Guevara.

Fidel Castro è morto. E vale forse la pena partire proprio da qui, da quel suo ultimo e inusualmente sintetico sermone – celebrato di fronte a un Congresso che, secondo alcuni, era chiamato a “superare” la sua eredità, o a più eufemisticamente “attualizzarla”, come suggerivano i documenti congressuali – per cercare di capire che cosa in effetti ci lascia un uomo che tutti, amici e nemici, all’unisono collocano tra i più rilevanti leader politici del XX secolo.

Su questo punto Fidel era stato, in quel suo intervento, molto enfaticamente chiaro e, nel contempo, estremamente generico. Ed era partito da una domanda, la stessa che negli ultimi 60 anni si sono posti, invano, tutti i suoi biografi: “Perché – si era chiesto- sono diventato socialista o, più chiaramente, perché mi sono convertito al comunismo?”. E, curiosamente, aveva poi aggiunto senza rispondere alla domanda: “Parlo perché si comprenda meglio che non sono né un ignorante, né un estremista né un cieco, che non ho acquisito la mia ideologia studiando economia per conto mio”.

Più che parlare del perché della sua conversione, Fidel ne aveva, in quel discorso, precisato il quando e come: “Avevo all’incirca 20 anni ed ero appassionato di sport e di alpinismo. Senza alcun precettore che mi aiutasse nello studio del marxismo-leninismo (poco prima era parso dire l’esatto contrario n.d.r.); non ero che un teorico e, naturalmente, avevo una fede totale nella Unione Sovietica”.

Comunista da sempre, dunque. E comunista nel più ortodosso dei termini. Fidel era un comunista con una “fede totale nella Unione Sovietica”, quando, negli anni ’40, nelle fila del Partido Ortodoxo, partecipava alle vicende politiche della Università dell’Avana (nel periodo del cosiddetto “gangsterismo” quando le differenze politiche si risolvevano a colpi di pistola).

Era comunista quando nel luglio del 1953 in una azione definita “avventurista” dal Psp, il partito dei comunisti filo-sovietici cubani, assaltava il Cuartel Moncada. Fidel era comunista – come lui stesso ricorda nella “biografia a quattro mani” scritta con Ignacio Ramonet – anche quando, ancora adolescente nel collegio Belén (e su questo concordano le testimonianze dei suoi compagni di corso e del suo professore e mentore, il gesuita padre Amado Llorente) orgogliosamente cantava “De cara al sol”, l’inno dei franchisti spagnoli.

E da comunista – comunista da sempre, al termine d’una dittatura durata più d’ogni altra nel ventesimo secolo – Fidel verrà ora cremato e sepolto, come da suo espresso desiderio, in quel di Santiago, accanto alla tomba di José Martí, l’“apostolo” del cui pensiero e della cui battaglia per l’indipendenza cubana, Fidel s’era proclamato (in quello che i suoi nemici definiscono un “sequestro”) unico ed autentico erede.

Nato comunista, vissuto da comunista e da comunista sepolto, Fidel Castro, in realtà, comunista non fu. Perché il suo comunismo non è stato, a conti fatti, che il vestito da lui indossato per coprire le brutali nudità di quello che sarebbe passato alla storia come “castrismo”. Ovvero la totale identificazione tra il suo personale potere ed il concetto d’una patria che voleva libera. Libera perché liberata dal peso del neocolonialismo statunitense e libera, anche, anzi, soprattutto, perché “sua”, libera perché pienamente identificata con il suo potere assoluto.

 

Fonte: Il Fattoquotidiano

 

 

Italo Calvino: realista visionario?

Il barone rampante

Italo Calvino nasce nel 1923 a Santiago de Las VegasCuba, dove i genitori, una naturalista e un agronomo, dirigono una scuola di agraria e un centro sperimentale di agricoltura. Nel 1925 la famiglia Calvino si trasferisce a Sanremo, dove lo scrittore trascorrerà l’infanzia e l’adolescenza. Nel 1941 poi avviene lo spostameno a Torino, dove decide di  iscriversi alla Facoltà di Agraria: in questo periodo inizia a comporre i primi racconti, poesie e testi teatrali.

Nel 1943, per evitare di essere arruolato nell’esercito di Salò dopo l’8 settembre, decide di entrare nella brigata comunista Garibaldi. Da quel momento inizia la sua gioventù nella Resistenza. L’ambiente culturale di Torino, che Calvino frequenta assiduamente, ed i fermenti politici di contrapposizione al regime, fondono in lui letteratura e politica. Grazie all’amicizia ed ai suggerimenti di Eugenio Scalfari (già suo compagno al liceo), focalizza i suoi interessi sugli aspetti etici e sociali che coltiva nelle letture di Montale, Vittorini, Pisacane. Nel 1943 si trasferisce alla facoltà di Agraria e Forestale di Firenze, dove sostiene pochi esami. Calvino aderisce assieme al fratello Floriano alla seconda divisione d’assalto partigiana “Garibaldi”:   si definirà un anarchico, ma in quegli anni di clandestinità impara ad ammirare gli esiti positivi dell’organizzazione partigiana comunista. Il 17 marzo 1945, quando ormai gli alleati sono in Italia, Calvino è protagonista attivo nella battaglia di Baiardo, una delle ultime battaglie partigiane. Ricorderà l’evento nel racconto “Ricordo di una battaglia”, scritto nel 1974. L’esperienza partigiana sarà alla base del suo primo romanzo, “Il sentiero dei nidi di ragno” e della raccolta di racconti “Ultimo viene il corvo”.

Nel 1945, dopo la guerra, Calvino lascia la Facoltà di Agraria e si iscrive a Lettere. Nello stesso anno aderisce al PCI.IN questi anni inizia a collaborare con il quotidiano “l’Unità” e con la rivista“Il Politecnico” di Elio Vittorini. Nello stesso periodo  si afferma la casa editrice torinese Einaudi(fondata nel ‘33 da Giulio Einaudi) con famosi collaboratori e consulenti, tra cui Pavese eVittorini.
Su suggerimento di Cesare Pavese, conosciuto ormai già diversi anni prima, viene pubblicato nel 1947 il suo  primo romanzo , “Il  Sentiero dei nidi di ragno” e la successiva raccolta di racconti “Ultimo viene il corvo” (1949).

In questo periodo la vita dello scrittore cubano viene scossa profondamente dal dramma del suicidio dell’amico Cesare Pavese, nell’agosto del 1950: in varie lettere e scritti, Calvino mostrerà di non sapersi mai dar pace per non aver intuito il profondo disagio di uno dei suoi primi e più cari amici.

Nel 1952 viene pubblicato “Il visconte dimezzato” – il primo della trilogia “I nostri antenati” –  nella collana Einaudi “I gettoni”, diretta da Vittorini. Si assiste ora al diverso stile di Calvino, che si fa più fiabesco e allegorico, confrontandolo con il precedente stampo neo realista.
Nel 1956 vengono pubblicate le “Fiabe italiane”, un progetto di raccolta, sistemazione e traduzione di racconti della tradizione italiana popolare. Nel ‘57 lascia il PCI, dopo l’invasione da parte sovietica dell’Ungheria.

In questi anni scrive diversi saggi, tra i più importanti “Il midollo del leone” (1955), sul rapporto tra letteratura e realtà. Collabora con diverse riviste, tra cui “Officina”, la rivista fondata da Pier Paolo Pasolini, e dirige con Vittorini la rivista “Menabò”. Il suo nuovo stile, quasi visionario, che sarà destinato ad aprire altre nuove strade nella letteratura italiana, vede la luce anche con i suoi più celebri romanzi, scritti in questo periodo:”Il  Barone rampante” (1957), “Il Cavaliere inesistente” (1959), che completano la trilogia cominciata nel ’52 con “Il visconte dimezzato”.

Nel 1962 conosce una traduttrice argentina Esther Judith Singer con cui si sposa nel 1964 e con la quale si trasferisce a Parigi nello stesso anno. Nel 1963 pubblica “La giornata di uno scrutatore”, romanzo che lo riporterà a scenari neo realisti. In questi anni Calvino mostra interesse per il neo nato gruppo di Intellettuali “Officina 63”, ma non ne aderisce, non condividendone infatti l’impostazione di fondo.
Sempre nel 1963 esce, nella collana einaudiana “Libri per ragazzi”, “Marcovaldo ovvero le stagioni in città”, una serie di racconti incentrati sulla figura di Marcovaldo: qui si instaura la più importante riflessione che Calvino opera sui rapporti tra uomo e tempi moderni.
Nel 1966 perde  un altro amico, nonché figura determinante per la sua formazione: Elio Vittorini. Gli dedicherà il saggio “Vittorini: progettazione e letteratura”, in cui traccia nel saggio il pensiero d’un intellettuale aperto e fiducioso, in dissonanza col pessimismo letterario di quegli anni, della decadenza e della crisi.

A Parigi entra in contatto con lo strutturalismo e la semiologia di Roland Barthes: l’attenzione che questa scuola critica rivolge a come sono strutturati e “costruiti” tutti i testi letterari si rivelerà decisiva decisivi per lo sviluppo della narrativa calviniana, soprattutto negli anni Settanta.
Calvino in questo periodo costruisce il suo apparato “filosofico”, anche grazie alle frequentazioni con movimento OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle, Laboratorio di letteratura potenziale), in cui è presente anche Raymond Queneau, autore de “I fiori blu” e degli “Esercizi di stile”.

Questi incontri e influenze propizieranno il “periodo combinatorio” dell’autore, in cui si mostrerà strettamente dipendente dalla riflessione strutturalista sulle forme e le finalità della narrazione. Infatti da questo periodo escono fuori,  nel 1965 “Le cosmicomiche” e nel 1967 “Ti con zero”, una serie di racconti “fantascientifici” e paradossali sull’universo; nel 1972 pubblica poi uno dei suoi romanzi più celebri,  “Le città invisibili” e nel 1973 “Il castello dei destini incrociati”, racconti basati appunto sul gioco combinatorio e sulla sperimentazione linguistica, aprendo cosi nuovi e inesplorati campi.

Nel 1979 è la volta di “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, un metaromanzo (e cioè un romanzo sul romanzo stesso): nessuno mai aveva realizzato una cosa del genere, almeno non in Italia e non nel modo in cui lo fa Calvino.

. Nel 1983 pubblica i racconti di “Palomar”, che altro non sono che una rielaborazione narrativa di alcuni suoi articoli pubblicati in quegli anni su “Repubblica” e il “Corriere”, in cui il protagonista, un uomo di nome Palomar, con le osservazioni sul mondo porta il lettore a riflettere sull’esistenza umana e sul valore della parola. Nel 1984 lascia, dopo quasi quarant’anni,  la Einaudi e passa a Garzanti, presso cui pubblica “Collezione di sabbia”.

Nel 1985 viene invitato dall’università di Harvard a tenere una serie di conferenze. Inizia così a preparare le sue lezioni, ma viene colto da un ictus nella sua casa a Roccamare,presso Castiglione della Pescaia. Muore pochi giorni dopo a Siena. I testi vengono pubblicati postumi nel 1988 con il titolo “Lezioni americane: sei proposte per il prossimo millennio”. In ogni lezione Calvino riflette sui valori programmatici della letteratura futura partendo da quelli per lui cruciali e determinanti: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità e l’ultima, solo progettata, Consistenza.

Oltre alle “Lezioni americane” escono postumi anche i seguenti tre volumi “Sotto il sole giaguaro”, “La strada di San Giovanni”, “Prima che tu dica pronto”.

 Il contributo di  Italo Calvino alla letteratura italiana, e forse mondiale, risulta innegabile: da molti è stato riconosciuto infatti come uno dei grandi innovatori, capace di combinare influenze, trame, visioni, per giungere a nuove concezioni della letteratura, soprattutto per quanto riguarda il rapporto dell’uomo alla luce dei tempi in cui vive, evidenziandone disagi, drammi, a volte anche felicità e comportamenti visionari.

Quello che colpisce maggiormente  della sua  vita letteraria, è la straordinaria  abilità di essersi espresso sia in termini strettamente legati all’uomo, sia  alle sperimentazioni sulla narrazione,  a vere e proprie “visioni” sull’universo e sulla nascita della vita, al limite tra il metaforico, il fantastico e l’ironico.

Alcuni definiscono i suoi romanzi come i primi romanzi “d’avanguardia”: dare questo tipo di etichette, soprattutto quando ci si riferisce a certi pilastri del pensiero letterario, può essere, oltre che riduttivo, anche poco pertinente. Meglio, forse, considerare Calvino soprattutto per quello che ha rappresentato nelle generazioni di scrittori successivi, le influenze che oggi risultano a lui innegabilmente riconducibili: in questo modo non si correrà il rischio di restringere il campo dell’esistenza di un autore, che, probabilmente è e sarà, senza tempo.

  

 

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