‘A star is born’ di Bradley Cooper: la quarta versione di una fiaba senza tempo

Un bancomat per la gloria del cinema. Oppure, il parere di Barbra Streisand, una storia fatta per essere riraccontata ogni vent’anni. C’è poco da fare, l’attuale A Star Is Born, “E’ nata una stella” non a caso è la quarta versione (sarebbero cinque contando il prototipo del ‘32 A che prezzo Hollywood? di Cukor, di cui E’ nata una stella di Wellman del ‘37 fu il primo remake) di una fiaba perenne che, nella sua perfetta parabola hollywoodiana, incarna una delle mitografie schermiche più irresistibili. Da qui la necessità di un giudizio critico che cammini sul filo dell’acrobazia: approvare gli spettatori che andranno a vederlo anche più di una volta e nello stesso tempo prenderne le distanze.

In quest’ottica squisitamente cinefila, diremmo che è senza cuore chi non si commuoverà o compiacerà dei suoi diapason spudorati: per esempio quando lei, struccata e col nasone ma molto femmina, prende coraggio e raggiunge sul palco lui, macho Marlboro idolo delle folle, per cantare insieme meravigliosamente Shallow oppure quando lui, bello e perduto, chiama lei, sempre bruttina e sempre molto femmina, dicendole mentre si gira “volevo guardarti ancora una volta”. Ma anche che è senza cervello chi non s’accorgerà quanto il taglio, lo svolgimento e il fuoco emotivo dei prototipi (specie quello sublime con la Garland e Mason) siano stati per l’occasione standardizzati, espurgati e sbiaditi.

C’era una volta un rocker alcolizzato che scopre un’anonima ma promettente cantante: dopo essersi follemente innamorati, Jackson spinge Ally a sconfiggere i numerosi complessi, dare tutta se stessa e trasformarsi in un’icona del palcoscenico. Peccato che il pigmalionico protagonista, oscurato dai trionfi dell’amante/allieva, sia destinato a precipitare in una deriva personale e professionale funesta. Di fatto A Star Is Born, sia pure coerente alla sua logica di melò senza tempo, patisce il peccato originale di una sceneggiatura in stand by, sempre in attesa dei numeri musicali su cui esclusivamente si basano sia i fulcri delle emozioni, sia quelli della messinscena: se però, come abbiamo premesso, le situazioni e gli snodi kitsch non danneggiano il film ma, anzi, in qualche modo lo blindano, i dialoghi modello format tv della De Filippi inceppano il crescendo a tutto volume così strenuamente perseguito dalla regia.

Il remake, inoltre, non coglie la chance dei possibili aggiornamenti della nozione di celebrities nel secolo dei social e dei selfie accontentandosi di qualche vezzo modaiolo come la cruciale sequenza iniziale ambientata nel locale dei travestiti; mentre l’ideale simbiosi della coppia, che all’inizio si configura come una sorta di patto d’integrità musicale, viene sminuita dalla giravolta di Ally al momento dell’ascesa al successo che la trasforma da talentuosa cantante country in una sorta di starlette pop, appunto, “gagalizzata”, mascherata, robotizzata e ridotta a prodotto di consumo corrente. In ogni caso Cooper non lesina sforzi per avere il controllo totale del film, riuscendoci a costo d’assumere il ruolo di agiografo di Lady Gaga; la quale, per suo conto, nonostante sia favorita dal fatto di dovere giocare con le furbe contraddizioni che la contraddistinguono nella realtà, perde l’inevitabile confronto con Madonna solo per quanto riguarda il primato epocale di trasgressività, sex appeal e grinta eversiva, ma in compenso dimostra di sapere recitare almeno come lei e di poterla agevolmente battere nella capacità di trascinare il pubblico quando è il momento di sfoderare le sue eccezionali qualità di cantante.

 

A Star Is Born

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