Mentre gli uomini amano svestire le donne, lo stilista Reynolds Woodcock, fulcro della moda britannica, che abbaglia anche la famiglia reale, ama vestirle per trasformarle in feticci privati di una volontà di dominio che le sublima nel momento in cui le imprigiona. Se Day-Lewis con il suo sguardo sfuggente ed enigmatico giganteggia –ancorché non gli giovi l’eccessiva affettazione del doppiaggio italiano- nel ruolo inventato a partire da figure storiche del cinico e anaffettivo protagonista di Il filo nascosto è perché P. T. Anderson gli costruisce attorno, appunto, come con l’ago, il filo e il centimetro, una tela di comportamenti, gerarchie, nevrosi e rituali su cui la cinepresa indaga cercando di scioglierne l’intrinseco rebus. Quasi sempre serrato nelle stanze del lussuoso edificio che riunisce abitazione e atelier del sarto più venerato della Londra anni 50, il film candidato a sei Oscar, ma in ogni caso già iscritto al novero dei cult-movie, utilizza il tema della moda come un mezzo anziché un fine, riuscendo ad avvicinare con una rigorosa strategia narrativa (sino a correre il rischio di estenuare gli spettatori) i misteri della creazione artigianale/artistica a quelli dei rapporti amorosi/morbosi di coppia.
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