Ettore Cozzani, quando letteratura, editoria ed eroismo si incontrano

Ettore Cozzani, scrittore, saggista ed editore italiano, riuscì a coniugare arte e letteratura, poesia ed eroismo, rifacendosi agli ideali risorgimentali e alla triade dei grandi poeti italiani Carducci, Pascoli e D’Annunzio. Ettore Cozzani nacque a La Spezia il 3 gennaio 1884. Il giovane ligure intraprese i suoi studi universitari a Pisa, dove ebbe la fortuna di avere tra i suoi insegnanti Giovanni Pascoli. L’incontro con il Poeta del fanciullino ebbe un ruolo decisivo nella sua formazione; egli lo descrisse come “il più caro” dei Maestri, la cui vita era “tutta e solo lavoro per conquistarsi il silenzio e la libertà della solitudine”. Cozzani si ritenne per tutta la vita un discepolo del romagnolo e dedicò alla sua figura una delle sue più impegnative opere letterarie, uno studio in cinque volumi pubblicato tra il 1937 e il 1955. Nell’introduzione al primo volume egli scriverà:

“I giovani devono avere accanto questo maestro di modernità e di audacia creativa, di onestà spirituale, di energia, di entusiasmo, di maschia fede in sé stessi e nella loro razza”.

La raccolta di Odi e Inni (1906) sarà l’opera pascoliana più amata dal Nostro, quella in cui “le aquilari strofe interpretano il palpito terribile del cuore stesso d’Italia”. Formatosi dunque agli ideali della triade Carducci-Pascoli-D’Annunzio, Ettore Cozzani fece parte della generazione colta che entrò nella maturità nei primi anni del Novecento; fu la sua una nuova leva che si definì e stabilì le proprie coordinate culturali, ideali, politiche ed esistenziali misurandosi con l’Italia giolittiana, adottata a paradigma negativo, nemico da combattere, simbolo riassuntivo di tutti i mali, lontani e recenti, che affliggevano il nostro Paese. Fenomeno composito, di non univoca genesi e di non univoca direzione, l’antigiolittismo prima ancora che un programma politico fu uno stato d’animo che si esprimeva appropriandosi di un complesso di valori, vissuti in funzione antagonistica agli orientamenti e agli indirizzi della classe dirigente.

Questo stato d’animo era carico di aspettazione, di inquietudini ed angosce: prima di ogni altra l’insoddisfazione per il presente e l’ansia di rigenerazione. Ma molte cose esso portava con sé, al pari di un pesante fardello: dal senso di mortificazione per il tedio di vivere un tempo privo di ideali dominato dai mediocri, per passare alla celebrazione del ritorno e del culto degli Eroi, alla deprecazione per le tristi condizioni delle masse popolari costrette all’emigrazione in terra straniera, all’esaltazione dei sistemi sociali forti e coesi, alla richiesta e all’offerta di una più alta moralità civica e patriottica. Quella generazione infine si determinò all’invocazione della guerra, quale presupposto e rivelazione della finalmente realizzata congiunzione di masse e nazione. Da quell’evento sarebbe nata la Nuova Italia che già era nel grembo dell’antigiolittismo stesso, nutrito da suggestioni, motivi, convinzioni, emozioni che riuscivano ad influenzare lo spirito pubblico.

Gioacchino Volpe, uno dei maestri di Cozzani all’Università di Pisa, che parteggiava apertamente per gli antigiolittiani, ha così dipinto la situazione di quegli anni:

“L’Italia di allora si divideva fra giolittiani, che erano i più, e antigiolittiani che erano i meno ma costituiti da una specie di aristocrazia intellettuale anelante a più alta moralità pubblica, a più fecondi contrasti, a più energici atteggiamenti di politica estera, rispondenti alle cresciute energie e possibilità della nazione”.

Ettore Cozzani diede un preciso ed importante contributo alla causa dell’antigiolittismo. Egli rammentò in “Alcuni dei miei ricordi” (1978, opera postuma) che tutta la sua vicenda, sin dalla formazione giovanile, si era svolta sotto il segno dell’Italianismo, che dell’antigiolittismo era a suo avviso la conseguenza necessaria e la soluzione programmatica. “Far grande l’Italia: obbligare il mondo a riconoscerci uguali se non superiori ai popoli più ardimentosi e proprio per questo grandi”: erano queste le sue aspirazioni in quel tempo nonché in seguito. Per Cozzani, nella sua giovinezza, questi sogni di grandezza nazionale andarono di pari passo con la scoperta dell’anarchia:

“D’improvviso mi si rivelava una spaventosa ingiustizia da cui nasceva identicamente in tutto il mondo la fame, la miseria, l’ignoranza, e di cui ognuno si rendeva responsabile se non cercava di contribuire alla liberazione della parte sacrificale dell’umanità. La mia innocenza, la purezza dei miei ideali, la sete di giustizia, il bisogno di dedizione e persino l’ansia di sacrificio che avevano alimentato il mio misticismo di fanciullo, divamparono in me in infinite fiamme, illuminando l’abisso verso cui mi sentivo trascinato: mi straziavano, ma, al tempo stesso, mi davano un senso quasi di esaltazione”.

La Spezia all’inizio del Ventesimo Secolo era una delle basi più attive del movimento anarchico in Italia. La sua caratteristica di “città nuova”, cresciuta in fretta, con una folta massa di lavoratori concentrata nei cantieri e all’Arsenale, la predisponeva ad un’aspra conflittualità sociale che spingeva alla radicalizzazione le formazioni operaie. Assieme ai repubblicani, gli anarchici vi avevano un forte seguito, grazie soprattutto all’opera di Pasquale Binazzi (1873-1944), uno dei più intelligenti e più equilibrati esponenti del movimento. Binazzi fu lo stimato direttore del settimanale spezzino “Il Libertario” (1903-1922), che Cozzani rievocò così:

“Dal giornale vaporava, come fosse un respiro, una specie di fervido calore che mi trovava preparato a raccoglierlo per quel mio bisogno, ancora indistinto ma già prepotente, di sentirmi io, con la mia interpretazione delle cose, con le mie idee, i miei sogni, le mie iniziative, i miei atti”.

De “Il Libertario” Cozzani divenne presto uno dei collaboratori più impegnati e i suoi articoli vennero firmati con gli pseudonimi di Vito Vita e Marco Stasiota e comparvero sulle colonne del foglio sovversivo dal luglio 1903 al 21 febbraio 1907, data del suo ultimo articolo su quella testata; il suo congedo dal giornale fu una commemorazione della figura di Giosuè Carducci, scomparso il 16 febbraio: “Invero egli non è morto, poiché la sua è un’ascensione ai più alti cieli che splendono sull’umanità intera, poiché noi tutti, cresciuti al fuoco del suo gran cuore, lo sentiamo oggi più che mai presente, oggi più che mai fuso in noi stessi con tutta la sua potenza di agitatore e di propulsore”.

Cozzani conseguì la laurea in Lettere proprio nel 1907; l’anarchia non fu dunque una passeggera esaltazione adolescenziale, bensì per lo spezzino fu un’esperienza che appartenne già alla maturità. Su “Il Libertario”, permeato dagli umori antigiolittiani più forti e netti, non solo si celebrava come abbiamo visto Carducci “rivoluzionario, agitatore e propulsore”, ma si proponeva la poesia “La Nave” di Gabriele D’Annunzio come la più affascinante e convincente rappresentazione delle finalità perseguite dall’anarchia. Era lo stesso direttore Pasquale Binazzi a scrivere nel settembre 1904:

“Il poeta parla ad una nave immensa e forte, sventolante ai liberi venti dell’oceano le bandiere di tutte le glorie umane, che potrà simboleggiare per noi la rivoluzione; e la persuade a superare tutti gli ostacoli (le sirti) del viaggio, per giungere alla terra (l’Atlantide) che noi tutti sogniamo. Il sogno apparve così puro e distinto alla mente del poeta, che egli lo espresse con una semplicità di parole primitive. Quando il pensatore pensa così e il poeta così canta, il sogno non può tardare molto a convertirsi in realtà”.

A scanso di equivoci, preciseremo che qui si parla della poesia “La Nave”, presente nella raccolta Odi Navali (1893), e non dell’omonima e pur splendida tragedia dannunziana del 1908. Ma quel foglio si spinse molto più in là e arrivò a negare una delle verità di fede del movimento libertario indicando nella guerra “la via più breve” per giungere alla rivoluzione. “La via più breve” era proprio il titolo di un articolo apparso su “Il Libertario” del 25 agosto 1904 e redatto da Federico Uccelli, un giovane della stessa età di Cozzani, che si esprimeva in questi termini:

“E io sono quindi per la guerra: e noi dobbiamo esser per la guerra. Colla panacea delle riforme e dell’evoluzione non ridurremo mai la nostra gioventù a prepararsi per la vigilia delle armi. Ci vuole l’eccitamento che le sferzi le reni, poiché la fame non è bastata; o meglio l’odore della polvere che la tolga dal letargo e la faccia assai, assai starnutire tutta quell’infreddatura presa a godere bagasce nelle notti rabbiose. E l’odore della polvere i giovani italiani cominciano a sentirlo. Non cerchiamo che si disperda: ventiliamolo invece se è possibile sotto le narici che lo devono aspirare. Il popolo d’Italia ha necessità di rinnovarsi e non può farlo cantarellando l’inno dei lavoratori”.

Era questo il fervente clima nel quale si fece le ossa Ettore Cozzani. Non ci dobbiamo sorprendere di trovarlo quindi nell’aprile 1907 tra i curatori del numero unico pubblicato in occasione del varo della corazzata “Roma”, febbricitante di gioia impaziente nell’auspicare la grandezza nazionale e il risveglio militare dell’Italia. Per Pasquale Binazzi ciò equivalse ad un tradimento dell’anarchismo, per Cozzani invece si trattò di un riposizionamento all’interno della galassia antigiolittiana da mettere in stretta dipendenza con la ripresa di attrazione dell’Italianismo. Cozzani dell’Italianismo fece il suo programma d’azione, il metro del suo giudizio, il suo connotato identitario, infine una professione di fede religiosa che richiamava vagamente a Giuseppe Mazzini. A partire da quel momento Ettore Cozzani profuse tutto il suo impegno nelle attività di scrittore, di editore e di saggista animato dalla finalità di “risollevare la decadutissima arte del libro e difendere ed esaltare le forze della Poesia”.

Attraverso lo studio della letteratura si ripromise di diffondere un messaggio etico ed estetico che trasmettesse la coscienza del valore della tradizione ed educasse alla passione patriottica. E dell’amor patrio il concetto dell’Eroismo, centrale nel pensiero cozzaniano, è di certo l’espressione più alta, celebrata dalle arti di ogni tempo.
Il riconoscimento del valore e l’affermazione della giustizia furono i temi forti della poetica di Cozzani; il desiderio di giustizia era per lo spezzino la connotazione fondamentale dell’eroismo. E proprio da queste concezioni appena abbozzate germinò il nome che il ligure attribuì alla propria rivista di arte e letteratura; essa si appellò “L’Eroica”. Il suo fondatore la eternò con queste parole:

“S’era nel 1911 e alla Spezia, sul Golfo dei Poeti, nasceva, come Venere dalle schiume del mare, l’Eroica; nuda, vergine, ardente: chiamava con una sua voce di onde tra scogli i giovani poeti. Non se ne vedevano; eppure dovevano ben essercene per le terre d’Italia: essa li cercava affannata d’amore”.

“L’Eroica” poté vantare due serie: dal 1911 al 1917 e successivamente, con il trasferimento della sede della rivista a Milano, dal 1919 al 1943. La rassegna mensile contò complessivamente 310 numeri e fu senza dubbio una delle riviste artistico-letterarie più innovative della prima metà del Novecento, molto nota per l’utilizzo della tecnica xilografica che rendeva ogni numero un prezioso reperto d’arte dal pregio e dalla ricercatezza formidabile. Oggi la rivista è quasi introvabile e sono pochissime le biblioteche italiane che conservano l’intera collezione. Essa ebbe tra i suoi collaboratori Adolfo De Carolis e Franco Oliva, Eugenio Baroni e Adolf Wildt, Emilio Mantelli e Giovanni Governato, Primo Conti e Francesco Gamba insieme a molti altri. Parallelamente alla rivista, Cozzani diede vita ad una casa editrice omonima ispirata ai suoi principi etico-politici ed artistici che pubblicò molti volumi.

In una calda domenica estiva, il 30 luglio 1911, il primo numero venne distribuito in edicola; alcuni giorni prima Ettore Cozzani e Franco Oliva ne preannunciarono l’uscita con una lettera alla stampa:

“Si afferma da ogni parte che l’Italia non ha più poesia, che povera di poesia è la vita, poverissima l’arte: l’età nostra è della critica. I nostri artisti maggiori sono sfibrati; non appaiono ancora i nuovi o già traviano per imitazioni, flaccidezze, falsità: non ci resta che chiedere consolazione alla filosofia. Noi crediamo invece che la poesia viva in Italia la sua vita perenne: gli artisti maggiori non sono decaduti nella nostra venerazione, i nuovi preparano e lavorano. E’ bene cercare con un’ardente aspettativa, che sia amore per gli artisti esemplari, simpatia per le aspirazioni dei giovani: e frattanto operare noi stessi. Se la critica pur avesse sincera coscienza d’un temporaneo decadimento della poesia nella nostra vita e nella nostra arte, dovrebbe provocare la rinascita con il rispetto per chi fa e non con l’astio, con la fiducia verso chi tenta e non con il dileggio. La nostra rivista si occuperà quindi con uguale ardore di letteratura, pittura, scultura, architettura, musica: ma soltanto in quanto siano espressioni dell’unica poesia. Avrà una parte creativa e una parte critica: nella critica si studierà di costruire piuttosto che di distruggere, di comprendere piuttosto che di limitare; nella creativa, pur non costringendosi nell’ambito di speciali scuole, tendenze, tecniche, seguirà tutti i più arditi e seri movimenti moderni. Il titolo sarà L’Eroica. Eroica è invero la Poesia: unica espressione del divino nella vita umana”.

Il 27 giugno 1911 Ettore Cozzani si era premurato di scrivere a Gabriele D’Annunzio comunicandogli la novità:

“Maestro! Contro l’indegna baraonda di critici che hanno invasi i predii della poesia, spargendo per ogni dove la loro sozzura, si leva una rivista, L’Eroica, che si propone di annunciare, divulgare, esaltare la Poesia, comunque e dovunque essa nobilmente si manifesti, nelle cinque belle arti cioè, e nella vita. L’edizione sarà magnifica: ogni scritto ed ogni riproduzione o gruppo di riproduzioni avrà il suo frontespizio decorato di xilografie originali; il formato sarà molto grande, le tavole fuori testo d’una delicatezza unica: ovunque il respiro e il sospiro della Poesia. Vuole esser con noi, Ella che sa bene apprezzare il valor dell’entusiasmo e della fede nella gioventù nuova, che non è tutta inaridita e inebetita, e spersa per gli sterpeti della critica? Noi lo speriamo”.

E il venerato pontefice dei culti dell’Eroico Inimitabile dal volontario esilio di Francia rispose a Ettore Cozzani, inviando un messaggio di consentimento e di simpatia ai giovani “compagni di volontà e di speranza”. Nel suo libro Come giungemmo alla Sagra dei Mille, pubblicato soltanto nel 1963, l’intellettuale spezzino descrisse gli avvenimenti che portarono all’erezione del celebre monumento in bronzo sullo scoglio di Quarto, opera dello scultore Eugenio Baroni (1888-1935) e voluto dal Comune di Genova per il cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Il contributo di Ettore Cozzani per rinverdire l’Epopea dei Mille fu notevole: egli si occupò in prima persona della cerimonia di inaugurazione del monumento e riuscì a convincere D’Annunzio a lasciare il suo esilio francese per pronunciare il 5 maggio 1915 uno dei suoi più memorabili discorsi, l’Orazione per la Sagra dei Mille, connotata da un tenacissimo ed incalzante richiamo rituale-ben note sono le vibranti e blasfeme beatitudini dannunziane ivi presenti di evangelica memoria, rovesciate in chiave interventistica-e da una commossa tensione patetica, che spingeranno lo scrittore francese Romain Rolland (1866-1944) a definire D’Annunzio dopo quella giornata, con l’intento di insolentirlo ma porgendogli invece un grande encomio, “un incrocio tra Robespierre e Tallien”.

Pochi giorni dopo, il 24 maggio, la nostra Nazione entrò in guerra e Cozzani scelse evidentemente di schierarsi dalla parte della barricata occupata dagli interventisti, “per la più Grande Italia”. Egli tenne discorsi e conferenze a sostegno della guerra molto efficaci e penetranti, caratterizzati da una oratoria travolgente e trascinante, talora indulgente ad una ingenua retorica, ma sempre sincera, pura ed appassionata, come ebbe a riconoscere Giuseppe Prezzolini. Nel 1916 Cozzani fondò “La Giovane Italia”, associazione nazionale di temperamento mazziniano con fini puramente patriottici, avulsa da qualsiasi legame con i partiti; il 10 giugno 1917 uscì un numero unico di saggio dallo stesso titolo, dedicato alla propaganda degli scopi dell’associazione, in un periodo molto difficile, mentre gli attacchi delle truppe italiane agli ordini di Luigi Cadorna sull’Isonzo provocavano gravi perdite umane e preludevano alla futura disfatta di Caporetto (ottobre-novembre 1917).
“La Giovane Italia”, ricordava Cozzani, “era sorta per rafforzare nell’animo del popolo la virtù della resistenza, poiché è nella resistenza l’anima della Vittoria”. Sempre del 1917 è l’orazione più famosa declamata dal ligure, che venne anche pubblicata dall’Editrice “L’Eroica”: il volumetto Orazione ai giovani sul Golfo dei Poeti riprendeva per l’appunto il testo di un discorso letto agli studenti delle scuole medie di La Spezia per la commemorazione del martirio di Guglielmo Oberdan. L’invocazione intensa ed accalorata alle giovani generazioni nella quale l’oratore sottolineava l’importanza del fronte interno così principiava:

“Io non vi dico parole sonanti per amor d’un bello stile. Io vi rammento un preciso dovere. Di quanti restano in patria, in quest’ora tragica che le sorti delle nazioni liberatrici pendono in bilico sulle bilance del destino con le forze del nemico usurpatore, e che sebbene il sacrifizio fosse voluto, sebbene l’ardore sia intenso, sebbene la fede rimanga intatta, non si può resistere a un brivido che di quando in quando ci coglie, voi siete della vita civica la parte più fresca, più sana, più ardita. Tocca a voi formare la colonna vertebrale della resistenza interna: voi siete i giovani sottotenenti di questa milizia che combatte sulla fronte meno curata, meno studiata e pur come l’altra lassù pericolosa ed importante. I guerrieri adolescenti, gli imberbi dalla voce non ancora virile, comandano lassù l’attacco alle schiere dei veterani e le portano alla vittoria; voi imponete qui la chiara vostra volontà e la vostra conscia certezza a queste altre schiere domestiche, che guai a noi tutti se titubassero, se si sbandassero, se si accasciassero un’ora sola!”

Dopo la Vittoria, nel primo dopoguerra Ettore Cozzani ritornò alla propria attività intellettuale ed editoriale; relativamente alla sua produzione, lo spezzino non verrà mai meno al filo rosso dell’adesione agli ideali eroici, che lo accompagneranno per tutta la vita, a partire dai suoi primi brevi scritti, come “Per un Eroe. A Giacomo Bove” (1909), nel quale egli, ispirato da un monumento realizzato ad Asti l’anno precedente dallo scultore Eugenio Baroni, rievoca la figura dell’esploratore che tentò la ricerca del mitico passaggio a Nord-Est tra i ghiacci dell’Artico, a bordo della nave Vega, nel 1878, nonché più tardi indomito perlustratore delle foreste del Congo, morto suicida nel 1884. All’epoca furono da molti ritenuti notevoli i suoi versi, improntati ad una velata vena di malinconia secondo stilemi tardo-romantici e decadentistici, come “I Poemetti Notturni” (1920), dedicati alla sacra e venerata memoria dei genitori, Valdemira Ricco e Leonardo Cozzani, e il più noto suo lavoro, “Il Poema del mare” (1928).

Cozzani non disdegnerà i tentativi nel campo della novellistica, con “I racconti delle Cinque Terre” e “Le strade nascoste”, entrambi del 1921, e del romanzo, con “Un uomo” (1934), “Ceriù” (1938) e “Destini” (1944).
Nel 1930 lo scrittore ottenne la cattedra di italiano e italianità al Politecnico di Milano e nel 1933 la stessa cattedra presso l’Università per stranieri di Perugia. Per i tipi de L’Eroica, frattanto, venne lanciata la collana “Vite di Artisti, di Pionieri e di Eroi”. Nel corso della sua vita, oltre alla capitale opera su Pascoli, la cuspide della sua complessa attività, egli pubblicò importanti saggi critici su Dante e Beatrice, Michelangelo Buonarroti, Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi, Nazario Sauro. Venne la tempesta della Seconda Guerra Mondiale e il poeta spezzino, ispirato dai propri ideali eroico-nazionali, sostenne la Patria nello sforzo bellico. Alcuni numeri monografici della sua rivista furono dedicati alla giustificazione morale e politica dell’intervento italiano. Nel numero de L’Eroica del novembre-dicembre 1941, facendo il bilancio del trentennale della sua rivista, Ettore Cozzani poté a buon diritto rivendicare di aver contribuito alla “ascesa civile, sociale e politica dell’Italia” e rimarcò la propria immutata fedeltà alla “Grande Causa Italianista”, a cui aveva dedicato l’intera sua esistenza. Dopo il 1945, egli, in un clima ormai mutato, continuò nella sua attività di conferenziere e in virtù delle sue doti di oratore da tutti riconosciute proseguì fino all’ultimo in questo suo impegno, affrontando i temi, gli interessi, le passioni di tutta la sua vita animato dal nobile e romantico culto degli Eroi, sulla scia di Richard Wagner e di Thomas Carlyle, che caratterizzò il suo stile fin dalla sua ormai lontana militanza anarchica.

Egli morì a Milano il 22 giugno 1971, in casa di amici. L’amore per la Patria non lo abbandonerà mai, ma la Patria Ingrata si dimenticò di lui molto presto. I tempi ormai erano veramente cambiati: la prosa aveva preso il posto della poesia, il profitto aveva sostituito l’eroismo nei sogni di grandezza delle nuove generazioni, la civiltà materialista aveva spodestato l’amore della gloria cantato da Giacomo Leopardi ed Ettore Cozzani e i valori spirituali vennero messi in ombra dai disvalori liberal-capitalistici del denaro, del successo ad ogni costo e dell’arrivismo.

Fonti:

Gioacchino Volpe, Italia Moderna, Volume III, 1910-1914, Sansoni Editore, Firenze 1973, pagina 275.
Ettore Cozzani, Alcuni dei miei ricordi, Giardini Editori, Pisa 1978, pagina 24.
Ettore Cozzani, opera citata, pagina 25.

Pirandello chiede a D’Annunzio di entrare nel Governo Gentiloni

Maria Elena Boschi, la nuova, si fa per dire, componente del governo (in realtà è nuovo solo il governo, in realtà neanche il governo), comunque… la Boschi ottiene che Gabriele D’Annunzio apra il cancello del Vittoriale e bussa al portone.

D’annunzio: Chi è?

Boschi: Governo Gentiloni.

D’Annunzio: Chi!!??

Boschi: Gentiloni.

D’Annunzio: E chi è?

Boschi: Il presidente del consiglio.

D’Annunzio: Pensavo fosse Renzi.

Boschi: Sì, infatti.

D’Annunzio: Ma come? Ha detto che è Gentiloni.

Boschi: Sì, infatti, diciamo che lo sono tutti e due.

D’Annunzio apre la porta, ma più o meno era un portone grande quanto l’ego che aveva, e per aprirne anche una sola anta gli ci vuole l’aiuto di altri tre camerieri.

D’Annunzio: Buongiorno, ecco, mi scusi, ma queste porte sono vecchie e pesano.

Boschi: Certo, capisco, anche a Palazzo Chigi, le chiudiamo solo in presenza dei cittadini normali, altrimenti le teniamo sempre aperte, così possono entrare cani e porci.

D’Annunzio: Ehm… lo vedo. – disse osservando l’interlocutrice. – Comunque, che cosa vuole?

Boschi: Non posso dirglielo subito, devo prima appurarmi che lei sia effettivamente Gabriele d’Annunzio.

D’Annunzio: Ma scherza!? Come osa non conoscermi, non ha studiato?

Boschi: No. – ammette candidamente lei.

E mentre D’Annunzio rimane perplesso, lei inizia con le domande di rito del nuovo programma televisivo del governo Gentiloni: “C’è un governo per te”, in onda da genaio a sperano il più lontano possibile.

Boschi: Allora comincio:

E’ lei quello che ha perso un occhio durante la prima guerra mondiale? – disse quel nome come se lo sentisse per la prima volta.

D’Annunzio: Secondo lei la benda sull’occhio la porta per estetica?

Boschi: Beh, conoscendo il tipo, potrebbe. Comunque, seconda domanda:

E’ lei quello che apostrofò il Presidente del consiglio Nitti con il nome di Cagoja?

D’Annunzio annuisce.

Boschi: Perfetto, è lei che a Fiume si occupò del governo della città con la carica di…

D’Annunzio: Presidente!

Boschi: Qui mi risulta proto-dittatore.

D’Annunzio: Sbagliato! Ero voluto da tutti.

Boschi: Non lo so, qui ho segnato proto-dittatore, e mi creda di proto-dittatori me ne intendo, sicuro di voler confermare presidente?

D’Annunzio: Allora direi vate.

Boschi: Water?

D’Annunzio: Come!?

Boschi: Scherzo, scusi ogni tanto scherziamo anche noi.

D’Annunzio: Soprattutto quando scrivete le leggi ho saputo, tipo la sua sulla costituzione, oppure la riforma madia… spero fossero scherzi. – rispose alla provocazione.

Boschi: Non sono qui per essere provocata, ma per convocarla. Comunque visto che lei è effettivamente Gabriele d’Annunzio, la invito definitivamente al nostro programma. Tenga la lettera e grazie.

Gabriele la prende senza dire prego, né arrivederci.

In studio a canale 5

Un postino, un uomo che ha sempre fatto daponte fra gli schieramenti, di nome Denis Verdini, aspetta all’entrata del set, mentre la Boschi conduce.

Boschi: Allora Denis, alla fine si è presentato il signor Gabriele d’Annunzio?

Verdini: Sì Maria, Gabriele d’Annunzio è qui!

D’Annunzio entra in divisa militare, con passo marziale e atteggiamento marziano.

Boschi: Cos’è signor d’Annunzio, si è fatto male all’occhio?

D’Annunzio: Ancora? Le ho già detto che è una ferita di guerra.

Boschi: C’è una guerra!?

D’Annunzio la guardò spaesato: Lasci perdere.

Boschi: Beh, mi dispiace per l’occhio a nome del governo.

Poi la Boschi si rivolge a Verdini: Scusa non mi convince questa storia della guerra, chiedi alla Pinotti… aspetta, la Pinotti è ancora il ministro della difesa?

Verdini: Sì.

Boschi: Ok, chiedi anche al ministro degli esteri, Gentiloni.

Verdini imbarazzato: ora lei è ministro del governo Gentiloni, cioè Gentiloni è presidente del consiglio.

Boschi: Ah è vero, è che mi sembra sempre tutto uguale, ma allora chi è ministro degli esteri?

Verdini: Alfano.

Boschi: Ma lui si intende anche di esteri? Non stava agli interni?

Verdini: No, non si intende di esteri, ma non si intendeva neanche di interni, quindi si poteva spostare.

Boschi: Sì, ora torna tutto. Beh, allora chiedi anche ad Alfano su questa guerra: ho sentito D’Annunzio chiamarla prima guerra mondiale, voglio sapere contro chi e con chi stiamo combattendo.

Verdini è ancora più imbarazzato, si limita a dire: Vado.

D’Annunzio: Non le chiedo a nome di quale governo si dispiace, tanto lei non si è dimessa comunque.

Boschi: Esatto! – lo prende  come un complimento.

D’Annunzio ci rinuncia: Mi siedo qui. – ed indicò il divano alla destra della busta da lettere enorme, che lo separava da chi lo aveva invitato.

Boschi: Allora, è pronto a vedere chi l’ha chiamata?

D’Annunzio: No, sono venuto a fare due passi. – la derise lui.

Boschi: Mi scusi signor water – e lo chiama così volutamente – ma devo proprio farlo prima di aprire la busta.

D’Annunzio: Cosa? – chiede lui, mentre lei si avvicina con passo svelto e deciso e, giunta davanti a lui, gli molla un ceffone che gli sposta la testa e tutta la benda.

Boschi: Sa? E’ ora chelei capisca che sono viscida, ambiziosa, scaltra, ma sicuramente non stupida, quindi alla prossima battuta Denis la accompagnerà fuori di qui e la costringerà a trasferire il suo conto in Banca Etruria.

Lo schiaffo era stato umiliante, ma Banca Etruria gli sembra anche peggio… è terrorizzato.

D’Annunzio: D’accordo, mi scusi.

Boschi: Niente. – e continuò a sorridergli sempre cortese e falsa – Allora aprite la busta.

Dopo un po’ di silenzio in cui D’Annunzio guardò chi lo aveva chiamato…

Boschi: Allora, lo riconosce?

D’Annunzio: Certo! Luigi Pirandello… Luigi perché mi hai fatto chiamare?

Pirandello: Perché tu ti sei chiuso nella tua proprietà e ti disinteressi dei destini d’Italia, volevo chiederti se ti va di entrare nel nuovo governo come sottosegretario agli strilli e alla parolacce, è una delle strategie del nuovo governo: combattere Grillo sullo stesso piano degli insulti,anche noi iniziamo a insultare. Gentiloni ha letto la tua citazione su Giolitti “ansimante leccatore di sudici piedi prussiani” gli sembra che tu abbia talento. Quindi sono qui per comunicarti che “C’è un governo per te!”

D’Annunzio: C’è un governo per me? – gli sembrava tutto uno scherzo, guardò inebetito sia Pirandello che la Boschi, che continuava a sorridere.

Boschi: Allora la togliamo questa busta? Accetta?

D’Annunzio: Io…

Due settimane dopo un aereo vola su Vienna e getta dei volantini. Sopra c’è scritto:

Cerco riparo in Austria, chiedo scusa per avervi sconfitto nel ‘18, oggi l’impero non mi sembra più così brutto.

Improvvisamente vostro,

Gabriele d’Annunzio

Dialoghi impossibili: Pirandello e D’Annunzio su Paolo Gentiloni

Vedi Gabriele, Paolo Gentiloni è come una vecchia. – cerca di spiegare Pirandello al suo vecchio quasi compagno di Partito PNF, Gabriele D’Annunzio.

D’Annunzio: Come una vecchia?

Pirandello: Sì una vecchia, non ne conosci nessuna?

D’Annunzio: Mi vanto di non averne mai conosciuta nessuna!

Pirandello: che domande faccio!… Comunque, la vecchia ce l’hai presente?

D’Annunzio: Ma chi Gentiloni o le vecchia in generale?

Pirandello: In generale.

D’Annunzio: Sì, presente.

Pirandello: Ecco, Paolo è proprio una vecchia: età, idee, governo. E’ vecchia. Io su una vecchia ho scritto proprio, hai mai letto quello che ho scritto sulla vecchiaia? E poi c’è Renzi, hai presente?

D’Annunzio: Renzi chi? Quello che voleva cambiare l’Italia?

Pirandello: Sì, ma non l’ha cambiata, lui anche è una vecchia, però come quella di cui ho scritto, una vecchia che non vuole sembrare di esserlo, così ha mascherato vecchie ricette politiche con slide, velocità… Gentiloni. In effetti, Gabriele, anche tu sei un po’ così.

D’Annunzio: Coooosa!? Io non sono mai stato vecchio, io sono eterno, vincitore, non come Renzi. Anche se ha osato e non mi dispiace per questo, viva il decisionismo…Memento audere semper!!!

Pirandello: Sì, sì, ma quindi a Fiume hai vinto?

D’Annunzio: In effetti no.

Pirandello: Insomma questo Gentiloni è la brutta copia di Renzi, poi è chiaro che ognuno di noi non è solo una cosa, può esserne centomila. Diciamo che potrebbe succedere anche l’inverso: Renzi potrebbe diventare la brutta copia di Gentiloni, se lui facesse bene.

Proprio in quel momento Gentiloni, finito il discorso al Senato, passa loro davanti, vicino agli spalti e, mentre sta camminando, Pirandello e D’Annunzio vedono che i capelli grigi si muovono tutti verso il basso…

Pirandello: E’ una parrucca! Sotto, i capelli sono… mori! Poi lo sentono dire all’autista: – <<Oh tu lo sai che ho fame, andiamo a la hasa, che l’ho proprio fame>>.

Pirandello: Caro Gabriele, imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti…

D’Annunzio: L’importante è che siano di femmine non asessuali!

 

 

 

Guido Gozzano: il poeta desolato

Guido Gozzano  nasce a Torino da una famiglia borghese benestante: il padre Fausto ingegnere e la madre Diodata Mautino figlia di un patriota mazziniano. Trascorre la sua vita a Torino, dove consegue con scarsi risultati il diploma liceale. Nel 1900 perde il padre e tre anni dopo s’iscrive alla facoltà di giurisprudenza, preferendo però seguire i corsi di letteratura italiana alla facoltà di lettere. All’università conosce molti scrittori tra cui Massimo Bontempelli, Giovanni Cena e Francesco Patonchi e in seguito costituirà il gruppo dei crepuscolari torinesi. Nel 1907 pubblica una raccolta di trenta poesie La via del rifugio grazie alla quale riscuoterà un discreto successo dalla critica. Nello stesso anno gli viene diagnosticata una lesione polmonare all’apice destro che lo costringe a viaggiare nella speranza di ottenere in climi marini e più miti un miglioramento del suo stato di salute.

Nella primavera del 1907 inizia un intenso rapporto d’amore con Amalia Guglielminetti, poetessa che incarna il modello di donna colta e sofisticata, conosciuta l’anno prima presso la Società di Cultura a Torino. Le Lettere d’amore di Guido e di Amalia testimoniano l’amore per la poetessa e rappresentano uno dei documenti più intensi della biografia gozzaniana. Nel 1909 abbandona definitivamente gli studi giuridici per dedicarsi alla poesia e nel 1911 pubblica il suo più importante libro, I colloqui, che rimangono il suo capolavoro. A causa della malattia giunge sino in India, alla ricerca di una miracolosa guarigione che non arriverà mai. L’India gli offre lo spunto per pubblicare un resoconto del suo viaggio, con la Stampa, sotto il nome di Verso la cuna del mondo. Muore a soli 32 anni nell’agosto del 1916.

Gozzano è considerato l’ultimo dei nostri classici, poiché è un autore che ha modellato una materia già esistente in modo del tutto personale. Parte infatti dalla poesia dannunziana per poi distaccarsene, attuando un processo di conversione anche spirituale, tutto volto a Dio. Distaccandosi dall’estetismo e riducendo al minimo le componenti dannunziane, modifica il suo stile, rendendolo sempre meno lirico e più prosaico.

Il verso di Gozzano è quindi narrativo e funzionale, nel senso che, anche, isolandolo o inserendolo in un’altra poesia, non perde la sua funzione, anzi ne dona una nuova. Gozzano è stato un poeta romantico-verista-borghese, che è riusito a narrare con una certa aulicità di cose più quotidiane, definite da egli stesso “buone cose di pessimo gusto”.

Il rifiuto del modello dannunziano influenzerà molti scrittori del ‘900, tanto da creare la corrente letteraria, detta crepuscolarismo.

È utile evidenziare le differenze tra Gozzano e D’Annunzio, non solo sull’aspetto stilistico, ma anche per quanto riguarda la biografia, per inquadrare al meglio la poetica del poeta torinese:

D’Annunzio condusse una vita “inimitabile”, dedita agli eccessi. Ciò si ripercuote nella sua poetica, attraverso la libertà formale e la ricchezza dei temi. D’Annunzio è orgoglioso di essere poeta.

Guido Gozzano, invece, ha avuto una vita breve ed infelice, come si può constatare anche nelle sue poesie: gli schemi metrici sono chiusi, da inquadrare entro strutture fortemente classiche, nei quali introduce dei rinnovamenti stilistici, come l’utilizzo delle rime a orecchio e l’ironia. I temi borghesi e intimistici di Gozzano lo portano a vergognarsi di essere poeta, definendosi “un coso a due gambe”. Egli rifiuta la poesia, ritenendola incapace di affermare un qualsiasi proposito positivo sia nel presente che nel futuro e decide di dedicarsi alla letteratura per scrivere coscientemente della fine della letteratura stessa. Va comunque sottolineato che, ciò nonostante, il modello di D’Annunzio ha influito molto nell’autore: difatti anche il rovesciamento o il rifiuto di un modello ne comporta la presa in considerazione, quanto meno per confutarlo.

Per comprendere al meglio la poetica di Guido Gozzano,e di un qualsiasi poeta, è bene far sempre riferimento alle opere, che risultano essere la testimonianza più limpida e concreta del loro pensiero.

 

Renato Serra, il critico umanista

Poco riconosciuto dalla cultura italiana fortemente influenzata dall‘ estetica crociana, Renato Serra (Cesena, 5 dicembre 1884 – Monte Podgora, 20 luglio 1915) durante la sua breve esistenza (mori’ a soli 31 anni, colpito a morte davanti al Podgora durante la prima guerra mondiale), ha anticipato la figura dell’intellettuale antifascista, che avrebbe preso il largo nei decenni successivi, distaccandosi dalle analisi di Benedetto Croce. Riconosciuto più come critico poetico che letterario, Serra, inizialmente convinto della superiorità dell’essere  un uomo di lettere  rispetto all’esistenza ordinaria, ha preso coscienza dei limiti che quella condizione offriva; consapevolezza maturata proprio con l’avvento della guerra, di fronte alla quale il letterato è solo un uomo illuso.

Nato da una famiglia benestante e di tradizione risorgimentale, Renato Serra si forma presso il Regio Liceo Ginnasio Vincenzo Monti di Cesena dove termina gli studi a  soli sedici anni, senza sostenere l’esame di maturità dati i voti altissimi. Si  iscrive  presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna e segue le lezioni di insegnanti  celebri come  Carducci e Severino Ferrari, di quest’ultimo apprezza molto anche le idee socialiste. Si laurea  nel 1904 con una tesi sullo “Stile dei Trionfi del Petrarca”.

Qualche anno dopo Renato Serra torna a Cesena, dove svolge  il servizio militare di leva, l’anno successivo  si trasferisce a Torino, e collabora  con Luigi Ambrosini alla creazione di un dizionario Italiano-Latino e pubblica molti articoli per la rivista <<La Voce>> entrando in contatto anche con Croce. Diviene anche  direttore della Biblioteca Malatestiana di Cesena. Carducciano e tradizionalista, Serra dovrà fare ben presto i conti due eventi che lo sconvolgeranno, uno di portata mondiale, la prima guerra mondiale (come si è  già accennato), e l’altro, privato, ovvero il matrimonio della donna che amava con un altro uomo. Questi fatti incideranno fortemente anche sul pensiero critico di Serra.

Il critico  riflette ed espone le sue posizioni nella sua opera più importante, “Esame di coscienza di un letterato” del 1915; egli condanna la guerra e gli intellettuali di propaganda, difende il valore salvifico della letteratura e la letteratura stessa come fosse una fanciulla in pericolo e lo fa con tutta la passione che lo ha sempre contraddistinto; è convinto che si vada in guerra per dare un significato alla propria esistenza, non per la patria, e questa profonda motivazione inizialmente ha spinto anche lui ad arruolarsi abbandonando ogni razionalità, ogni ragione intellettuale. Come afferma egli stesso: << […] non ho distrutto quello che era nella mia carne mortale, che è più elementare e irriducibile, la forza che mi stringe il cuore. È la passione.>>

Esame di coscienza di un letterato

Renato Serra parte per il fronte ma dopo aver compiuto il suo esame di coscienza, dopo essersi confessato, dopo aver oscillato tra la voglia essere nella storia e di partecipare agli eventi e il desiderio, proprio degli intellettuali, di isolarsi dal mondo, contrapponendo alle barbarie del mondo la bellezza e la purezza della letteratura. Prevarrà la concezione ungarettiana della guerra come occasione per riscoprire il senso di umanità, la fratellanza tra gli uomini, un modo per rigenerarsi. Non c’è più alcuna superiorità intellettuale, nessun rifugio dalla storia (Serra ne rifiuta la concezione provvidenzialista-razionalista hegeliana), ma solo bisogno di sentirsi fratelli gli uni con gli altri, di condividere passioni (intese come pathos, sofferenza).

La poesia non può e non deve contemplare la bellezza ma  essere un mezzo per  promuovere un ‘esistenza  autentica e vera; con questo invito Serra preannuncia la stagione neorealista, la stagione dell’impegno sociale, strada che deve essere sempre percorsa da chi si dichiara uomo di cultura.  A differenza di Croce che pare non scandalizzarsi di fronte alle tragedie delle vita, non soffrire davanti alle sofferenze che la guerra porta, Serra è “umano”, come Carducci, il quale <<eleva l’arte all’uomo>>, e non è un caso  che il critico accosterà Croce a D’Annunzio.

Un critico da riscoprire e per molti da scoprire, da prendere come modello da tutti gli intellettualoidi odierni che si atteggiano a depositari della verità, sterili, imbrigliati nella retorica, senza aver compreso il valore rivoluzionario delle parole, il cui scopo è scrivere per convincere, estraneo al critico emiliano.

Se oggi fosse in vita, Renato Serra parlerebbe di “educazione al cambiamento”, e di “rivoluzione della coscienza” in un’epoca dove la critica letteraria “sembra” scomparsa.

 

 

Sergio Corazzini: il poeta piangente

“Piccolo libro inutile”

Sergio Corazzini (1886-1907) nasce a Roma da una famiglia poco benestante, tant’è che per ristrettezze economiche dovette abbandonare gli studi e lavorare in una compagnia d’assicurazioni. Colpito da una grave forma di tubercolosi muore nel 1907 a soli 21 anni. Le sue poesie pubblicate tra i 18 anni e la morte mostrano una lucida consapevolezza della malattia e della sua condanna ad una morte precoce: il poeta non nasconde la sua debolezza anzi la esibisce rendendo essa stessa la sua vera poetica.

Il novecento letterario è segnato dal nome di Sergio Corazzini: poeta di una sola stagione, quella crepuscolare, che rappresenta la sua veste più lacrimosa e lamentevole, ma che vive con profonda serietà e autenticità.

Piccolo libro inutile” (1906) è la quarta raccolta che, riassume indistintamente le caratteristiche della poesia di Sergio Corazzini e la sua poetica, infatti, domina uno spirito tragico, religioso, pessimistico e quasi mistico.

Ne “La Desolazione del povero poeta sentimentale”, prima poesia della raccolta “Piccolo libro inutile”, emerge il Sergio Corazzini più flebile che, con accenni vittimistici parla della propria tristezza, del proprio dolore, indulge alle lacrime e al pianto:

Perché tu mi dici: poeta?

Io non sono un poeta.

Io non sono che un piccolo fanciullo che piange

Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.

Perché tu mi dici: poeta?

Già nel titolo della poesia è possibile evincere che Sergio Corazzini contrappone l’idea, allora diffusa, di un poeta che aspira a esercitare un ruolo pubblico, si pensi a Carducci, Pascoli o al recente mito dannunziano, con l’immagine di un poeta “privato” che non ha in nessun modo funzioni di vate.

Sono presenti già nei primi cinque versi tutti i temi tipicamente crepuscolari: il pianto, la tristezza, la malinconia. È bene porre l’accento sulla parola “silenzio”, messa in maiuscolo, che risulta il contrario di parola e quindi di poeta. Tutto il componimento è possibile definirlo come un’unica litote, in cui Gozzano nega di essere un poeta, per affermare, però, la nascita di un nuovo modo di fare poesia.

In soli cinque versi Corazzini capovolge completamente l’idea di poeta e di poesia: non crede che la poesia sia utile, né aspira a manie di grandezza per essere riconosciuto pubblicamente. La sua arte è solo un piccolo libro inutile. Non esiste più il poeta guida o romantico in grado di esprimere sentimenti difficilmente esprimibili per i più. Il poeta ora è consapevole della crisi che vive, è desolato e non sa che dire se non parole sentimentali vane.

II

Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.

Le mie gioie furono semplici,

semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei.

Oggi io penso a morire.

 

III

Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;

solamente perché i grandi angioli

su le vetrate delle cattedrali

mi fanno tramare d’amore e d’angoscia;

solamente perché, io sono, oramai,

rassegnato come uno specchio,

come un povero specchio melanconico.

Vedi che io non sono un poeta:

sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.

 

IV

Oh, non maravigliarti della mia tristezza!

E non domandarmi;

io non saprei dirti che parole così vane,

Dio mio, così vane,

che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire.

Le mie lagrime avrebbero l’aria

di sgranare un rosario di tristezza

davanti alla mia anima sette volte dolente,

ma io non sarei un poeta;

sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo

cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.

 

V

Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù.

E i sacerdoti del silenzio sono i romori,

poi che senza di essi io  non avrei cercato e trovato il Dio.

 

VI

Questa notte ho dormito con le mani in croce.

Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo

dimenticato da tutti gli umani,

povera tenera preda del primo venuto;

e desiderai di essere venduto,

di essere battuto

di essere costretto a digiunare

per potermi mettere a piangere tutto solo,

disperatamente triste,

in un angolo oscuro.

 

VII

Io amo la vita semplice delle cose.

Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,

per ogni cosa che se ne andava!

Ma tu non mi comprendi e sorridi.

E pensi che io sia malato.

 

VIII

Oh, io sono, veramente malato!

E muoio, un poco, ogni giorno.

Vedi: come le cose.

Non sono, dunque, un poeta:

io so che per essere detto: poeta, conviene

viver ben altra vita!

Io non so, Dio mio, che morire.

Amen.

Il tono dimesso, lamentoso e incline al pianto esprime una scelta di tipo avanguardistico: rappresenta il rifiuto per la tradizione letteraria aulica e solenne, espresso con una scelta stilistica semplice, priva di aulicismi e metriche tradizionali, con il ricorso a un linguaggio semplice e al verso libero. Attraverso una sorta di litote “io non sono un poeta” e il “rifiuto” dei modelli precedenti è visibile l’auspicio corazziniano della nascita di un nuovo modello poetico.

La sua poesia si scontra fortemente con quella dannunziana: mentre il poeta abruzzese aveva teorizzato la sovrapposizione tra arte e vita intesa come sublime, Corazzini rovescia la sua sovrapposizione. Per il poeta romano la vita è quella reale, non sublime, di un giovane malato. La sua poesia non aspira al sublime ma all’autenticità, sita nella sofferenza. La negazione di essere un poeta, spinge Corazzini a sostenere di essere un piccolo fanciullo che piange. Il fanciullo inevitabilmente ci porta a Pascoli, ma con due realtà e definizioni diverse.” Il fanciullino” pascoliano è di natura letteraria e ha come fine quello di trasmettere il messaggio secondo cui per raggiungere la verità bisogna guardare la vita con occhi da fanciullo. È inteso da Pascoli come “adamo”, il primo uomo che guardando per la prima volta le cose, ne attribuisce un nome. È il fanciullo che gioca con le parole, che in un senso ludico dà voce all’inconscio.

In Corazzini invece il “fanciullo che piange” non è altro che il riflesso di una condizione reale e negativa, non potrebbe essere altrimenti per un uomo che esprime nelle sua poesia “il male di vivere”.

Grazia Deledda: l’essenza della vita nella sua tragicità

Grazia Deledda (Nuoro il 27 settembre 1871 Roma ,15 agosto 1936) nasce in una famiglia decisamente benestante: il padre, infatti, è un procuratore legale e dedito al commercio del carbone. Già all’età di diciassette anni pubblica, sulla rivista “ultima moda” il suo primo racconto dal titolo “sangue sardo”, storia di un amore mai corrisposto, dove la protagonista uccide l’uomo di cui è innamorata. Tuttavia, l’opera con cui si “tuffa” nel mondo letterario e che le darà un certo successo iniziale è “Nell’azzurro”, pubblicato nel 1890. E’ a Roma che scrive “Anime oneste” e “il vecchio della montagna”. Le maggiori, poi, fra le quali ricordiamo “Elias Portolu” (1900), “Cenere” (1904), “Canne al vento” (1913), “Un uomo solitario” (1914), “Marianna Sirca” (1915), possono leggersi come lo sviluppo e la discussione di casi di coscienza. Altre opere si succederanno, con una crescente intenzione autobiografica e introspettiva, e sempre con fortuna di pubblico, fino alla scomparsa dell’autrice, avvenuta a Roma nel 1936. Lascerà un’opera incompiuta: “Cosima”, che i curatori pubblicheranno col significativo sottotitolo di “Quasi Grazia”.

Gli scritti di Grazia Deledda risentono di un clima tardo romantico, esprimendo in termini convenzionali e privi di spessore psicologico un amore vissuto come fatalità ineluttabile. E’ anche, per lei, un’epoca di sogni sentimentali, più che di effettive relazioni: uomini che condividono le sue stesse aspirazioni artistiche sembrano avvicinarla, ma per lo più un concreto progetto matrimoniale viene concepito da lei sola. Ora, però, soffermiamoci in particolar modo sul suo più celebre romanzo, ossia “Canne al vento” (1912).

Ambientato quasi interamente a Galtellì. Alla base del romanzo c’è, secondo uno schema che si ritrova in altre sue opere, una situazione di vita fondata su norme arcaiche e oppressive, talvolta violate dalla trasgressione che genera rimorsi e sensi di colpa. Espiazione e restaurazione dell’ordine infranto chiudono il cerchio. Il romanzo è raccontato attraverso la figura del protagonista, Efix, il servo delle Dame Pintor, che di questa famiglia ha conosciuto il tempo della potenza e della ricchezza e quello del rapido declino. Ora Efix coltiva l’ultimo podere rimasto, i frutti del poveretto sono gli unici proventi delle nobili sorelle: Ruth, Ester e Noemi. Il 10 settembre 1926 le viene assegnato il Nobel per la letteratura: è il secondo autore in Italia, preceduta solo da Carducci vent’anni prima; resta finora l’unica scrittrice italiana premiata. L’ultimo romanzo “La chiesa della solitudine” è del 1936. La protagonista è, come l’autrice, ammalata di tumore.

Sempre e comunque ricordare la sua Sardegna, la sua saggezza, la sua autenticità, e le sue verità  che hanno fatto ipotizzare un accostamento a Verga per quanto riguarda la stagione verista e a D’Annunzio per il decadentismo. Ma la Deledda non può essere etichettata, come ha fatto parte delle critica, in quella che è stata definita con un certo snobismo, la letteratura della Sardegna, il suo automodello sardo è universale, intriso di poesia e tragicità tipicamente russa (la lotta tra bene e male in primis)la sua terra è resa un luogo mitologico e misterioso, dove la natura è un microcosmo psichico (perfettamente in linea con la concezione della natura degli altri grandi scrittori del Novecento) all’interno del quale si consumano i drammi dell’essere umano, il quale però può trovare nuova linfa nella fede, e soprattutto nella pietas cristiana, nella partecipazione alla mortalità, naturalmente non senza correre dei rischi.

Anche il particolare uso della lingua che fa la scrittrice, ha aperto dibattiti e riflessioni; La Deledda fa emergere la distanza tra la cultura nazionale e quella locale, ma fondamentalmente perché lei stessa sente di appartenere maggiormente a quest’ultima, al dialetto sardo e ai suoi toni colloquiali, in quanto la stesura in italiano presentava per lei non pochi problemi.

Non aveva il dono della “buona lingua” Grazia Deledda ma proprio per questo ha inaugurato una nuova fase narrativa, quella che rifiuta l’omologazione e conserva la propria identità, portando ad una stratificazione della lingua che fanno di questa straordinaria donna ed autrice dal volto autorevole,una personalità  fuori dal comune, contemporaneamente dentro e fuori  il contesto letterario novecentesco europeo.

 

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