‘Sognando David Bowie’: onirici pensieri in libertà, di Federica Marcucci

<<David Bowie ha sempre fatto quello che voleva. E voleva farlo a modo suo, e voleva farlo al meglio. La sua morte non è stata diversa dalla sua vita: un’opera d’arte>>. Un’irrazionale associazione di idee che, a partire da un sogno rimasto vivido fino al mattino, si imprime sulla carta. Così tre anni fa è stato scritto in modo del tutto impulsivo e casuale il pensiero che, solo successivamente, è diventato Sognando David Bowie. Scritta carta su inchiostro tra le nebbie di un’influenza e tra le pile di appunti di un’indimenticata sessione d’esami invernale, questa poesia libera rievoca anche quello che avrebbe dovuto essere l’ultimo album di del Duca Bianco, The Next Day. Prima di scoprire, appena una manciata di mesi fa, che il giorno seguente, quello in cui si fondono passato, presente e futuro ricordi, illusioni e speranza, si chiama Blackstar.

Sognando David Bowie

Hai sognato David Bowie stanotte?

Ci ripensavo mentre in vestaglia

preparavo il caffè, credo che

questo mal di gola voglia assillarmi

ancora per un po’.

Ho sognato David Bowie stanotte.

Ho sognato che avevamo fatto l’amore

in un colonnato, tra le nuvole.

Se solo fossi riuscita a dormire stanotte

invece di accendere la luce

a ogni colpo di tosse.

Ma cosa c’era in quella pasticca?

Sì, ho sognato David Bowie stanotte,

mi aveva scritto una lettera,

l’aveva poggiata sotto la mia auto,

sul selciato grigio di un parcheggio coperto.

A caratteri neri e stretti c’era scritto

Per la signorina F.

Dovrei chiamare il medico, ma chi ha voglia

di star ad ascoltare quel bofonchiare scorbutico.

Ho sognato che David Bowie mi scriveva

una lunga lettera perché era geloso di te,

per cognome, addirittura, ti chiamava.

Se proprio devo lo chiamerò il dottore,

e poi c’è quella pila di appunti da rileggere.

È successo che ci sono andata a cercarlo,

David Bowie, ma non ricordo se l’ho trovato.

Ho sognato David Bowie stanotte e

non ricordo ch’è successo.

Il dottore, da contratto, non è stato affabile

io la medicina l’ho presa

e ora sto sul tavoloneverdedicristallo

a studiare ascoltando David Bowie.

Sì ho ascoltato David Bowie questo pomeriggio.

“The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars”, in ricordo di David Bowie

The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars- RCA-1972

La morte di un grande artista è sempre un colpo difficile da digerire. A causa dell’indiscussa capacità di scatenare sensazioni uniche grazie alla facoltà di vedere il mondo con occhi diversi rispetto a chiunque altro, la loro dipartita non viene quasi mai accettata serenamente o come un fatto naturale dal momento che quando se ne vanno una piccola parte delle nostre emozioni se ne va con loro trasformandosi in ricordo. Quando poi ad andarsene è un personaggio del calibro di David Bowie, scomparso il 10 gennaio scorso a New York, a 69 anni per un cancro al fegato, le cose si complicano ulteriormente. Al dolore si aggiunge la consapevolezza di aver perduto un protagonista assoluto del panorama artistico-musicale dell’ultimo mezzo secolo capace di anticipare tendenze, aprire nuove strade e “dettare legge” in ogni ambito toccato dal suo genio. Visionario, eccessivo (ma mai pacchiano), elegante, raffinato, a tratti ambiguo e spiazzante, capace di trasformarsi, cancellarsi, reinventarsi, il Duca Bianco è stato un vero e proprio camaleonte, non solo sul palcoscenico ma nella sua stessa vita, in grado (uno dei pochi) di coniugare la sperimentazione più estrema con il successo di massa.

Bowie è stato uno dei primi, se non il primo in assoluto, a giocare con la sua identità sessuale vestendosi da donna sulle copertine di The Man Who Sold The World (1970) ed Hunky Dory (1971). Nel pieno degli anni ’70, grazie alle sue mise scintillanti ed album “spaziali” quali Ziggy Stardust (1972) Aladdin Sane (1973), Pin Ups (1973) e Diamond Dogs (1974) , fonda il glam rock, consegnando alla storia il suo alter ego Ziggy Stardust. Nel frattempo lancia la carriera solista di amici come Lou Reed (produce il suo grande album Transformer del 1972) ed Iggy Pop (con cui lavora a The Idiot e Lust For Life entrambi del 1977). In piena era disco music e punk vola a Berlino per incidere con Brian Eno l’epcale trilogia composta da Low (1977), Heroes (1977) e Lodge (1979) piena di elettronica e nichilismo che traghetta il rock negli anni ’80.

Il ritorno a sonorità più pop anche se venate da una certa dose di ricercatezza, come negli album Let’s Dance (1983) Tonight (1984) e Never Let Me Down (1987) ne decretano il successo mondiale e lo status di star intergenerazionale. Persino le contraddittorie opere degli ultimi anni non ne hanno minimamente scalfito l’immensa fama e considerazione. Il suo continuo mettersi in gioco, nella pittura come nel cinema (memorabili le sue interpretazioni in L’uomo che cadde sulla terra ed in Labirinth) ne hanno confermato il coraggio e la grande intelligenza. Davanti a questo piccolo excursus della carriera di un’icona del ventesimo secolo, diventa difficile, se non addirittura ingeneroso, scegliere un solo album a simbolo di una personalità così sfaccettata ma, dovendolo fare, ho orientato la mia scelta verso quello che a, mio modo di vedere, racchiude tutta la poetica fantascientifica e la forza rivoluzionaria di Bowie: The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars. Di questo disco è stato detto:

“Il vero capolavoro di Bowie…. forse ha cambiato la vita di persone in un colpo solo più di tutti gli altri, prima e dopo”. (Q Magazine-1997)

David Bowie e Mick Ronson-1972

E probabilmente tale affermazione è vera. Grazie alla sua coerenza concettuale e bellezza melodica assimila il passato e rivela il futuro. Sembra quasi che tutto il rock fino a quel momento sia stato un lento percorso verso quest’opera e tutto ciò che viene dopo una sua diretta emanazione. La storia di Ziggy Stardust, un ragazzo umano che diventa rockstar grazie ad un aiuto alieno in un modo sull’orlo della distruzione, si dipana attraverso undici canzoni di straordinaria bellezza lirico/musicale. L’identificazione di Bowie con Ziggy è totale; talmente perfetta da renderne quasi impossibile la distinzione quasi che quel buffo personaggio dai vestiti impossibili e dal trucco clownesco rappresentasse in tutto e per tutto la sua vera personalità. Sarebbe tuttavia ingiusto dire che Bowie ha fatto tutto da solo. Mark Bolan ed i suoi T Rex con le loro canzoni piene di boogie e fantasie tolkeniane hanno fornito la base rock per la concezione dell’album. L’amicizia del Duca bianco con Lou Reed ha fornito le parole giuste per la composizione ed Iggy Pop con la sua animalità da palcoscenico, il modo adatto per raccontarlo al pubblico. Il resto proviene dagli Spider From Mars, leggendaria backing band, che annovera tra le sue file campioni quali il chitarrista Mick Ronson, il bassista Trevor Bodler ed il batterista Mick Woodmansey i quali hanno fornito i suoni ed il supporto scenico necessario. Grazie alla fusione di questi elementi Bowie/Stardust diventa un personaggio messianico, l’archetipo della rockstar che assurge a fama vertiginosa per poi cadere rovinosamente nel dimenticatoio, diventando il simbolo dell’inesorabile parabola del successo.

Gli artisti diventano buffoni su un palco, vestiti in maniera improponibile, veri e propri alieni che farebbero di tutto per il successo, salvo poi scoprirsi fragili ed insicuri dal momento che la caduta è dietro l’angolo. Si tratta quindi di un’opera altamente ironica e dissacrante in grado di rivelare quanto tormentate ed umane siano in fondo le star, costantemente in bilico tra esaltazione e depressione. La dolente Five Years, con le sue previsioni apocalittiche, apre il viaggio, per poi proseguire con la malinconica riflessione sull’amore di Soul Love. La torbida ed eccitante Moonage Daydream presenta al mondo Ziggy Stardust mentre Starman, divenuta nel tempo vera canzone-simbolo di Bowie, rivela il messaggio di salvezza inviato dagli alieni. La paranoica It Ain’t Easy narra le difficoltà della caduta; la deliziosa Lady Stardust è incentrata sull’ambiguità sessuale di Ziggy e sulla sua carica animalesca che lo fa diventare una Star, come citato dalla canzone omonima. Il sesso è di nuovo al centro della tambureggiante Hang On To Yourself mentre il leggendario assolo di Ronson caratterizza Ziggy Stardust vera e propria biografia in musica del protagonista. Il glam rock più puro disegna l’equivoca Lady Suffragette il cui significato è in bilico tra richiesta di privacy ed un cambio di sesso. Le ultime dolenti ore di Ziggy narrate in Rock‘N’Roll Suicide, sorta di amara riflessione su ciò che oramai è diventato, chiudono l’album.  La vocalità di Bowie si adatta meravigliosamente ai brani facendosi tremolante, sussurrata, urlata a seconda degli stati d’animo del suo alter ego.

Ziggy Stardust

Semplicemente superbo il lavoro degli Spiders e di Ronson in particolare, che con la sua poliedricità, esegue meravigliosi ricami in ogni brano, sia quando è necessaria la sua chitarra tonante o il suo piano battente. Uno stato di grazia unico, un’ispirazione enorme ed una bellezza indiscutibile hanno fatto di quest’opera un classico già al momento della sua pubblicazione, il 6 giugno del 1972. I critici vanno in visibilio, il pubblico premia l’album con milioni di copie vendute mentre decine di spettatori si recano a vedere le mirabili follie di Ziggy Stardust, l’alieno del rock, riempiendo ogni stadio toccato dalla tourneè. Niente sarà più come prima. Il mondo del rock è pieno di citazioni e rimandi a quest’album. Generazioni di musicisti ne hanno riconosciuto la grandezza e amato la bellezza. Spandau Ballet, U2, Straws, Travis fino al nostro Renato Zero, solo per citarne alcuni, hanno pagato il giusto tributo a mr. Bowie ed alla sua straordinaria creatura. Ma il debito di riconoscenza che il mondo della cultura ha nei confronti del Duca Bianco certamente non può essere limitato solo a questo disco straordinario, ma va esteso lungo tutta la sua irripetibile carriera diventando pressoché insolubile. Forse è per questo che è bello pensare, citando un frase condivisa sui maggiori social network, che David Bowie non è morto, sono solo venuti a riprenderselo.

Electric Warrior: si scrive glam rock si legge Marc Bolan

Electric Warrior- Reprise Records-1971

Bello, sexy, con una voce calda e suadente, Marc Bolan, nel 1971, è l’Apollo dello star system. Milioni di fans in delirio lo seguono come fosse il pifferaio di Hamlin, affascinati dal suo modo di stare in scena, dalle sue mise sgargianti e dalla sua musica travolgente. Volutamente frivolo, dichiaratamente superficiale, intenzionalmente destabilizzante, riscuote un successo talmente grande da far rispolverare ai giornalisti di settore un termine che non si sentiva da circa un decennio: bolanmania. Eppure a quasi quarant’anni dalla morte, avvenuta il 16 settembre del 1977 per un incidente stradale, se ne parla sempre troppo poco. Colpevolmente aggiungerei, poiché Bolan è l’artista che a traghettato il rock dall’utopia degli anni ’60 alla grandeur dei ’70. Un figura centrale, dunque, per l’evoluzione della musica che, dopo l’eccessiva serietà del periodo hippie, aveva bisogno di maggiore disimpegno. E’ il primo ad indossare piume e lustrini per salire su un palco giocando con la sua stessa identità; il primo a contaminare il folk degli esordi con dosi massicce di boogie e quintali di distorsori; il primo a infarcire i suoi testi ricchi di riferimenti fantascientifici e tolkeniani con piccantissime metafore sessuali. Nasce così il glam rock, ovvero glamour rock, una corrente caratterizzata da uno stile pacchiano ed eccessivo e da un’ambiguità musicale e di genere, che segnerà un’epoca. Oggi il glam è, ovviamente, fuori moda ma, al tempo, fa milioni di proseliti tra cui David Bowie, Elton John, i Kiss, Lou Reed, Gary Glitter, Slade ed il nostro (basta vedere i video) Renato Zero. L’atto di nascita è Electric Warrior, pubblicato il 24 settembre del 1971 a firma Marc Bolan & T.Rex (di fatto un duo poiché l’unico altro componente del gruppo è il percussionista Steve Peregrin Took), divenuto, con gli anni, un vero e proprio classico.

“Un disco rock & roll riuscito e di successo è come un’incantesimo” (Marc Bolan- Rolling Stone-1971)

Al di là del suo valore documentale, quest’opera stupisce per la qualità musicale, lirica e tecnica in esso profusa. Dopotutto è un grandissimo disco. In esso c’è una carica libidinosa indescrivibile, un turbine di ritmo e lussuria difficilmente riscontrabile in dischi coevi. Bassi attutiti, ritmo squadrato, chitarre scure e torride, una voce torbida e sensuale, un filo di riverbero ed ecco che la magia si compie. Da Mambo Sun a Rip Off, passando per l’acustica Cosmic Dancer, l’arcinota Get It On (Bang A Gong), la meravigliosa Jeepster, l’eccitante Lean Woman Blues, la dilatata Life Is A Gas, è musica che scuote, stimola, accende, andando a toccare gli istinti primordiali dell’uomo. Le metafore e le similitudini contenute nei testi hanno fatto scuola, l’abbinamento donne/motori diventa un paradigma (You’re built like a car, you’ve got a hub cap diamond star halo/ Sei fatta come una macchina,hai un coprimozzo di diamante con un alone di stelle”), il boogie, con il suo andamento saltellante, fornisce il ritmo giusto tanto ai pezzi quanto alle rutilanti esibizioni live.

Marc Bolan-1971

Le vendite sono, da subito, clamorose. Soprattutto in Gran Bretagna, Electric Warrior vola in cima alla classifica, trainato dallo splendido singolo Hot Love e vi resta per numerose settimane diventando il disco più venduto dell’anno. Il resto lo fa il fascino indiscutibile del personaggio Bolan, ex modello, dotato di un carisma ed un sex appeal unici al mondo. Bello come il sole, diventa ben presto l’incarnazione della moderna rock star, trasgressiva, eccessiva, ricchissima e dannata. I suoi live assurgono ad happening infuocati in cui schiere di ragazze adoranti si riuniscono per vedere il “guerriero elettrico” che, vestito di piume e lamè, disserta su donne, sesso e macchine, inondando la platea con un fiume di note palpitanti. Ma in fondo non è questa l’essenza del rock? Non è per questo che siamo qui?

“Captain Fantastic And The Brown Dirt Cowboy”: l’irripetibile epopea di Elton John

Captain Fantastic And The Brown Dirt Cowboy- MCA Records-1975

Non era inusuale, alla metà degli anni ’70, imbattersi in un curioso personaggio in grado di riempire qualsiasi stadio, auditorium o sala da ballo del pianeta. Cavalcava un piano magico, vestiva abiti sgargianti fatti di raso e paillettes, indossava occhiali fantasmagorici e cappelli dalla foggia improbabile ma soprattutto, aveva un talento ineguagliabile nel raccontare storie. Dopo aver detto “addio al sentiero di mattoni gialli” questo curioso personaggio decide di dotarsi di un alter ego in grado di competere col veneratissimo Ziggy Stardust (impersonato da David Bowie) e di diventare la più pura espressione del glam rock. Captain Fantastic si fa chiamare ma, dietro al nome mirabolante ed all’aspetto decisamente kitsch, si nasconde un timido ed occhialuto pianista inglese: Reginald Dwight meglio noto come Elton John. Dopo una serie di album all’insegna del più classico cantautorato di matrice pop, nel 1973, l’artista britannico rompe ogni indugio e da alle stampe il suo lavoro più ambizioso Goodbye Yellow Brick Road, monumentale doppio album dal successo clamoroso, infarcito di rock, ballads e poesia. Dietro tanta grandeur ci sono tematiche di altissimo spessore umano quale la perdita dell’innocenza ed il passaggio ad una fase più matura e consapevole della vita nascoste dietro melodie di grande complessità tecnica e versi di innegabile valore poetico. Due anni dopo (e dopo il meno riuscito Caribou) Elton John riesce a fare addirittura di meglio. Insieme al fido paroliere Bernie Taupin, progetta un concept album strettamente autobiografico incentrato sul biennio 1967-1969 durante il quale i due cercavano il modo di affermarsi nel mondo della musica. Il risultato è Captain Fantastic And The Borwn Dirt Cowboy, il cui titolo rivela il carattere introspettivo e metaforico del disco. Il Capitano Fantastico è, infatti, l’anima eccentrica e chiassosa del duo (Elton John) mentre Lo Sporco Cowboy Impolverato ne rappresenta il lato più intimista e riflessivo (Bernie Taupin). Questo chilometrico nome può anche essere visto come l’inquietudine che si nasconde dietro la magnificenza o, più propriamente, come la drammaticità dei temi affrontati inseriti in brani di straordinaria bellezza. Il tormento e l’estasi in buona sostanza, le due facce di una stessa medaglia.

Molte delle canzoni in questo disco sono ispirate alla frustrazione e all’insicurezza, e più in generale alla sgradevolezza del music business. Elton e Bernie sembrano quindi molto forti e sicuri di sé sulla copertina, ma in realtà sono circondati da figure cupe, avide, inquietanti. Una metafora dei contenuti del disco” (David Larkam-1975)

La sopracitata copertina merita una menzione a parte. Affidata al disegnatore Alan Aldridge è semplicemente sensazionale; sembra un quadro di Hieronymus Bosch popolata com’è di creature fantastiche e mostruose, colori accesi ed atmosfere surrealistiche. Un vero e proprio quadro, un’opera pittorica, degna di essere inserita tra le migliori cinque cover del rock al pari di quelle ideate da artisti quali Andy Warhol, Robert Crumb, Rick Griffin e Peter Blake. La musica racchiusa dentro tanto splendore grafico è tra la migliore mai composta dal team John/Taupin.

Elton John (sx) e Bernie Taupin (dx)

Si parte con la title track, potente ballata dagli umori country dichiaratamente autocelebrativa e, passando dalla criptica Tower Of Babel ricca di riferimenti alla Bibbia, si arriva, attraverso le strepitose Someone Saved My Life Tonight, Bitter Off Dead e We All Fall In Love Sometimes, alla maestosa Curtains ideale quadratura del cerchio in quanto mirabile sintesi di tutto il lirismo taupiniano. Inciso con la cosiddetta “formazione classica” ossia Dee Murray al basso, Nigel Olsson alla batteria, Davey Johnstone alle chitarre e Ray Cooper alle percussioni, Captain Fantastic rappresenta lo zenith creativo per i due autori e, nel contempo, la loro definitiva consacrazione a stelle di prima grandezza del firmamento musicale internazionale. Il successo di vendite è enorme ed il plauso della critica unanime oltre ogni qualsiasi previsione dal momento che gli intenti di partenza erano ben diversi. Non si voleva fare un album commerciale bensì un opera ben più profonda, piena di riferimenti personali ed argomenti importanti senza essere vincolati in alcun modo ai risultati di vendita. Il fatto che ne sia stato estratto “un solo” singolo, Someone Saved My Life Tonight, è la prova che la libertà da ogni vincolo discografico era pressoché totale. Probabilmente è proprio questa sua autenticità, unitamente all’elevatissima qualità tecnica, musicale e poetica a farne un best seller ed uno dei migliori prodotti della musica contemporanea. Mai Sir. Elton John era apparso così fragile ed umano dietro la sua maschera di lenti colorate.

Ramones: Fast, Rock & Furious

Hey Ho! Let’s Go! Hey Ho! Let’s Go!. Con questa semplice esortazione a lasciarsi andare, si apre uno degli album più importanti dell’intera epopea punk. Insieme a Never Mind The Bullocks firmato Sex Pistols e The Clash, l’album omonimo degli americanissimi Ramones, rappresenta la sferzata tonante della nuova gioventù musicale nei confronti del rock classico, della stantia industria discografica e del sistema in generale devastato da crisi economica e sociale. Joey, Johnny, Dee Dee e Tommy vestono i panni di antieroi in jeans strappati e giubbotto di pelle nera, adottano un cognome comune (Ramone) preso in prestito dal Paul McCartney pre-Beatles, suonano con violenza ed alienazione brani che parlano di droghe, violenza, nazismo, problemi relazionali e gettano le basi di un nuovo movimento musicale che dominerà la seconda metà degli anni ’70 arrivando ad influenzare persino Nirvana, Pearl Jam, Sonic Youth e Red Hot Chili Peppers. Al diavolo il mainstream! Al diavolo il successo o la tecnica! Quello che conta è la rabbia, la provocazione, il messaggio di rivoluzione che si vuole lanciare e non i lustrini, i virtuosismi, la hit parade o i concerti sold out. I Ramones in questo non si lasciano certo pregare. Dopo una lunga e problematica gavetta in un locale (all’epoca) di quart’ordine, il CBGB, i quattro si chiudono al Plaza Sound Studio ed in una sola settimana registrano il loro formidabile album di debutto. Costato appena 6000 dollari, l’album, pubblicato nell’aprile del 1976, è accolto positivamente da pubblico e critica anche se le vendite non sono certo entusiasmanti.

« Al momento della sua pubblicazione, nell’aprile del 1976, il primo album dei Ramones fu strabiliante. Rimane uno dei pochi dischi che abbiano cambiato irreversibilmente il pop, ma tutti i primi tre album del gruppo sono determinanti. Dopo di che c’è l’immortalità.» (Jon Savage)

Le canzoni sono proiettili da due minuti e mezzo pronte a devastare la mente e le orecchie di chi ascolta. Niente sconti. Niente compromessi. Una chitarra veloce e distorta, un basso pulsante, una batteria torrenziale e la voce cavernosa di Joey a fare il resto. Nessun assolo, nessuna tecnica, solo la pura potenza di un gruppo intenzionato a suonare il più rumorosamente e il più velocemente possibile. A differenza dei loro colleghi di oltreoceano i loro testi non sono eccessivamente politicizzati; non contengono messaggi di critica sociale, slogan anarchici o rivolta urbana ma sono ispirati dalla vita alienata e alienante delle periferie urbane. Blitzkierig Bop, Judy Is A Punk, Now I Wanna Sniff Some Glue, I Wanna Be Your Boyfriend, Chain Saw e Beat On The Brat rimandano direttamente alla depressione degli Stooges di Iggy Pop, alla violenza musicale di MC5 ed alla devianza dei migliori Velvet Undergroud piuttosto che al sound di Roxy Music, David Bowie o The Who.

Persino la loro immagine pubblica non contiene gli stilemi tipici del punk (catene, creste colorate e quant’altro) ma rimanda più semplicemente ad una vera e propria “working class band”. La loro musica fatica a ritagliarsi spazio negli Stati Uniti dove domina la disco music e la crisi è meno pesante, ma sono accolti come veri e propri salvatori del rock’n’roll in Inghilterra. La popolarità, quella vera, non tarderà ad arrivare. Al termine della trilogia completata con Leave Home e Rocket To Russia (entrambi del 1977) diventano un vero punto fermo della scena rock alternativa. Sopravvissuti alla fine del punk e divenuti numi tutelari del garage, dell’hardcore e del grunge. Elencare tutte le band che hanno preso spunto dai Ramones sarebbe perlomeno impossibile. Tutta la scena musicale degli anni ’80, ’90 e 2000 ha un debito di riconoscenza nei confronti dei Fast Four  sia per quanto riguarda le tematiche, lo stile, il modo di stare sul palco e l’abbigliamento. Il loro messaggio è arrivato ed è stato largamente recepito, studiato e ripreso. La forza dei loro album, specie di questo incredibile debutto, rimane intatta negli anni a dimostrazione che qualche volta si può cambiare il mondo (quello musicale) con la sola forza delle idee.

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