‘La scopa del sistema’ di Wallace, che tutto spazza via

Partiamo col dire che questo articolo su La scopa del sistema di David Foster Wallace è un gioco. Un gioco che ha delle regole implicite, due premesse esplicite, uno svolgimento, delle conclusioni e dei corollari. Se andate avanti con la lettura accettate implicitamente questa pre-premessa #1, come io ho accettato quanto si dice nell’argomento trattato nella premessa #1.

Premessa #1: quando un romanzo è preceduto da una prefazione (almeno nell’edizione Einaudi questa prefazione c’è), il lettore viene già implicitamente avvisato che ciò che ha davanti è qualcosa di quantomeno ostico, verosimilmente complesso e fuori dagli schemi. Le prefazioni, infatti, le troviamo solitamente nella saggistica specialistica, dove è necessario spesso inquadrare il problema (o il tema) in un contesto storico-culturale o scientifico; le troviamo anche nei testi classici, dove si parla della loro genesi, delle loro influenze e della loro “fortuna”. Figuratevi dunque la sorpresa (pre-premessa #1.1: odio le prefazioni nei romanzi) quando mi sono trovato davanti un (dopo tutto breve) testo di otto pagine nell’edizione Einaudi Super ET de La scopa del sistema (titolo originale: The broom of the system) di David Foster Wallace. E figuratevi poi, oltre alla sorpresa, il terrore che mi ha assalito quando ho letto che la prefazione era di Stefano Bartezzaghi, un cognome piuttosto evocativo per chi si diletta, a volte, con la Settimana enigmistica (premessa #1.1 tratta da Wikipedia: “Stefano Bartezzaghi si è laureato con una tesi in Semiotica al DAMS […] con relatore Umberto Eco. È figlio di Piero Bartezzaghi, famoso enigmista, e fratello di Alessandro Bartezzaghi, condirettore della Settimana enigmistica…” tutto un programma insomma).

Premessa #2: non avevo mai letto niente di DFW, per cui ho voluto iniziare dal principio, ossia dal primo romanzo, pubblicato nel 1987 a 24 anni.

Date queste due premesse, non mi vergogno ad ammettere che 1) non ero preparato minimamente a ciò a cui stavo andando incontro, e 2) ci ho messo qualche giorno per riprendermi dalla lettura de La scopa del sistema. Non (solo) perché questo è un testo estremamente complesso, ma perché di fatto DFW (e il suo editore, che se non era un pazzo prima di leggere questo romanzo è sicuramente impazzito dopo averlo pubblicato) qui si diverte sempre a prendere il lettore, metterlo dentro una centrifuga mentale e scuoterlo alla massima velocità. Quando ne esci, a pagina 553 dell’edizione Einaudi, ma già intorno a pagina 4xx – non so bene dove sia iniziato questo processo –, non puoi che chiederti “che diamine ho letto/sto leggendo?”.

La scopa del sistema e la metanarrazione

Ma andiamo con ordine casuale, come forse farebbe DFW, al quale piace molto rendere la vita ardua al lettore, e che in una frase come questa avrebbe inserito almeno altre cinque o sei subordinate giusto per complicare il testo e rendere, al contempo in modo magistrale, il senso di contemporaneità degli avvenimenti. E per andare con ordine casuale salto a piè pari la trama, perché è talmente astrusa e insignificante che non vale neanche la pena citarla (tanto la trovate in quarta di copertina o su Wikipedia, andate lì a cercarla). Parliamo piuttosto di ciò che sta intorno alla, sotto alla e oltre la trama (Rick Vigorous mi amerebbe in questo momento, lui parla così; ma lo fa anche il Dr Jay, e non solo lui), parliamo dunque (metanarrazione #1.1) di quella miriade di personaggi principali e secondari che si intromettono nella narrazione, senza mai dichiararsi esplicitamente – direi senza rispettare quella stretta di mano virtuale che esiste di solito fra personaggio e lettore, diciamo pure che ci sputano sulla mano e poi le danno un paio di schiaffi –, e che iniziano a fare di testa loro, frammentando discorsi che spesso non hanno un filo logico con digressioni che, a loro volta, di sensato hanno ben poco (tipo questa). I personaggi (e DFW con loro) godono in modo perverso nell’allungare i dialoghi spezzando l’elemento climatico («Che anticlimax» direbbe Rick Vigorous, e in effetti a un certo punto lo dice, proprio alla fine del capitolo tredicesimo); nel creare una sorta di sospensione che assomiglia tanto a un’epochè, la quale spesso sfocia nel nulla perché il discorso non trova una conclusione, ma finisce nel e intorno al vuoto, quasi seguendo artificiosamente il detto wittgensteiniano (e proprio la filosofia del linguaggio di Ludwig Wittgenstein, insieme a quella decostruttivista di Jacques Derrida e al funzionalismo americano, è al centro del romanzo; ma qui ci tornerò, per ora segniamolo come corollario #1) per cui di ciò di cui non si può parlare si deve tacere (scrivendo questo articolo ne ho trovato uno interessante proprio su questo argomento: si chiama “Quando non sai, inventa”, lo trovate su Wittgenstein.it).

E questo per ciò che riguarda i dialoghi: ma se parliamo (metanarrazione #1.2) delle azioni il discorso non cambia, poiché i capitoli (capitoli?) presentano una serie di deviazioni dalla strada principale… qualunque essa sia: se vogliamo sforzarci possiamo indovinare la trama principale nello smarrimento e conseguente ricerca di Lenore da parte della nipote Lenore (DFW ha scelto di dare a bisnonna e nipote lo stesso nome, ma qui rimanderei a un corollario #2). Abbiamo la storia d’amore fra Lenore e Rick, le vicende sessuali/sentimentali di Candy, il pappagallino Vlad l’Impalatore e il suo improvviso parlare, la voglia di inglobare l’intero universo ingrassando di Norman Bombardini, la storia del Deserto Incommensurabile dell’Ohio (DIO in italiano, GOD in inglese, da Great Ohio Desertcorollario #3 – e sappiate che in questo momento sto copia-incollando i simboli come trattini, asterischi ecc. in quanto una mia errata digitazione di tasti ha fatto in modo che Word decidesse di usare una tastiera inglese invece che italiana, motivo per cui sto evitando gli accenti… parlo di questo momento in cui sto revisionando l’articolo, per cui dopo troverete di nuovo simboli normali e accenti), i racconti nei racconti di Rick Vigorous, la storia di Wang-Dang Lang, e altre diverse sotto-sottotrame che non sto qui a elencare perché servirebbero solo a creare confusione.

Il puzzle linguistico di Wallace

Ma come ci racconta queste cose DFW ne La scopa del sistema? Ebbene non ce le racconta affatto, piuttosto che le “offre” in un grande puzzle linguistico e stilistico (metanarrazione #1.3) che sta a noi, in qualche modo, ricostruire. Narrazioni “standard” («– Ciao, Vlad l’Impalatore, – disse Lenore, in reggiseno e mutande e scarpe», metanarrazione #1.3.1) vengono seguite da elementi in prima persona (metanarrazione #1.3.2); a questi due metodi, nei quali si alternano il presente (metanarrazione #1.3.1.1/1.3.2.1) e il passato (metanarrazione #1.3.1.2/1.3.2.2), si affiancano capitoli fatti solo di (riporto l’inizio dei capitoli o dei paragrafi): dialoghi a due o tre persone in cui mai una volta vengono presentati gli interlocutori («– Avanti. / – Dio santo. / – Per di qua. / – Ohimè. / – Giù, da questa parte», e così via per altre tre pagine, metanarrazione #1.3.3); trascrizioni di sedute psichiatriche a mo’ di dialogo («DR JAY   E questo come la fa sentire? / MS   LENORE BEADSMAN Cosa, come mi fa sentire?», e così via per dieci pagine, metanarrazione #1.3.4); stralci di diario di Rick, in cui racconta di sogni fatti, in modalità flusso di coscienza (metanarrazione #1.3.5); frammenti di dialoghi fra Lenore e Rick, in cui quest’ultimo riassume alcuni racconti inviati alla sua rivista (racconti spesso senza senso, surreali o incompleti, metanarrazione #1.3.6). Davanti a questa matassa ingarbugliata, il lettore si trova costretto a ricostruire i dialoghi e gli avvenimenti, a riempire i buchi, a fare salti temporali e connessioni per cercare di raccapezzarsi fra personaggi (chi parla? In che luogo? In che anno?) ed eventi (che sta succedendo? Dove siamo? È sogno o realtà? È simbolico o reale?).

A proposito di personaggi de La scopa del sistema (metanarrazione #1.4). Abbiamo qui a che fare con un universo di individui (meta)letterari nevrotici, alcolizzati, drogati (odioso il termine “stonato” usato dal traduttore per indicare qualcuno drogato/fatto, probabilmente l’italianizzazione di stoned), allucinati, che più vanno avanti e più diventano strani e meno comprensibili. Ognuno di loro (a parte forse Lenore, la protagonista che, giustamente, alla fine del romanzo si ritrova mentalmente isolata quando viene circondata da TUTTI i personaggi insieme all’interno dell’ufficio in cui lavora; ancora una volta vediamo all’opera, forse, la frase wittgensteiniana: tace perché non sa che dire/fare? Rimando a un articolo di cui parlavo sopra) è al limite (o al di là di questo limite) del (sur)reale, con tutte le proprie manie portate all’eccesso, con ogni singolo movimento scollato dalla realtà eppure in qualche modo a essa ancorato.

Ecco, altro non oserei aggiungere perché sinceramente non saprei dove andare a parare. Ho volutamente usato periodi complessi, pieni di subordinate e parentesi e digressioni, per dare un’idea (pallida) del modo di scrivere di DFW; ho volutamente aperto (senza chiuderli) diversi discorsi, cercando di gerarchizzarli alla maniera (pallida) del Tractatus di Wittgenstein, per dare un’idea (pallida) della complessità della Scopa del sistema; ho volutamente usato molte ripetizioni… be’, ormai avrete capito perché.

E se cercate svolgimenti di quei corollari #1, #2 e #3 di cui ho parlato prima, sappiate che ho mentito, non ce ne sono. Ecco, parliamo di DFW dopo tutto, no?

PS: La scopa del sistema si conclude con «Sono un uomo di».

‘Infinite jest’, il capolavoro di Wallace

Infinite jest è un lunghissimo e impegnativo romanzo del 1996 di oltre 1000 pagine, il capolavoro che ha consacrato lo scrittore americano David Foster Wallace (La scopa del sistema, Il re pallido, La ragazza con i capelli strani, Brevi interviste con uomini schifosi, Oblio, Questa è l’acqua) nel panorama della letteratura postmoderna. Il romanzo è una sfida con se stessi, un libro che incuriosisce il lettore, il quale, alla prese con personaggi invischiati in storie complicate, pensa che alla fine gli sarà tutto finalmente chiarito, aspettativa disattesa, perché in Infinite jest di chiaro c’è ben poco. Un vortice di idee, suggestioni, nozioni, che agiscono sulla complessa realtà che il grande scrittore descrive tra le numerose pagine e viene da chiedersi se Wallace davvero abbia voluto mettere alla prova il lettore, obbligandolo ad una attenzione massima e ad erudirsi, oppure abbia solo voluto scherzare con lui, lasciandogli una strana sensazione a fine lettura (se ci si riesce).

Infinite jest è una magistrale rappresentazione dei nostri tempi, un romanzo-mondo realistico (anche se non è opportuno ricondurre tale opera ad un’idea stilizzata di realismo, conforme ai precetti teorici di Luckàs o Auerbach, escludendo i capitoli intitolati Cage I, Cage II, Cage III) tragicomico, fantascientifico, satirico, dove il geniale autore non sembra trovarsi a proprio agio ma di cui illumina acutamente i problemi, andando a fondo per tentare di offrire delle soluzioni in primis a se stesso, perché per David Foster Wallace la scrittura è uno strumento di redenzione non di competizione per sfoggiare la propria intelligenza.

Sfruttando appieno le proprie abilità linguistiche e visionarie, Wallace parla di tutto quello che è dentro di noi, regalandoci cultura e se stesso, i suoi dubbi e i suoi desideri che sono anche i nostri. E soprattutto senza risultare autoreferenziale. Infinite jest è un’esperienza di vita che cambia il nostro approccio alla lettura; è un testo di studio con decine di pagine di difficilissima interpretazione con annesse delle note che riguardano diversi campi di indagine: la sociologia, la psicologia, la filosofia, la scrittura, il cibo, il pensiero paranoico, mappe del futuro, la cultura stessa, pensieri vari, la cospirazione, la critica cinematografica, la bibliofilia, la medicina, perfino il gioco del tennis e del football. Ma, superata la metà del libro, Wallace rimette insieme tutte le storie con i suoi personaggi (anche le note) per dare inizio ad una palpitante ed emozionante corsa verso l’epilogo.

Infinite jest: trama, stile e contenuti

In un futuro non troppo lontano e che somiglia in modo preoccupante al nostro presente,dove  la merce, lo spettacolo, l’intrattenimento e la pubblicità hanno ormai occupato ogni spazio della vita quotidiana. Il Canada e gli Stati Uniti sono una sola supernazione chiamata “ONAN”, il Quebec insegue l’indipendenza attraverso il terrorismo, ci si droga per non morire, di noia e disperazione. E poi c’è un film perduto e misterioso, che porta il titolo di Infinite jest, dello scomparso regista James Incandenza, che potrebbe diventare un’arma di distruzione di massa.

La trama del romanzo di Wallace è appena sfiorata, immersa in centinaia di pagine che trattano altri argomenti arricchiti da dettagli e particolari attraverso i quali l’autore risale all’universale raggiungendo il centro del mondo: il male e la fatica di vivere che urlano alla preconfezionata, materialista e magmatica società contemporanea che però non è in grado di rispondere.

L’essere umano, posto in uno scenario desolante, è azzerato, non è altro che un consumatore, un inseguitore di un piacere velleitario che lo conduce alla solitudine e alla fuga dalla realtà, davanti ad un televisore. Ma come si può ripulire questo mondo quando la competitività tra gli uomini ha raggiunto vette estreme? Si chiede Wallace, senza cadere nella troppo scontata, semplicistica e stucchevole polemica anticapitalista: egli ci mostra tragicamente la lotta tra il piacere effimero che la società ci impone di provare e quello duratore e “strano” che prova uno dei protagonisti. In una girandola di distorsioni e falsificazioni, ostici flussi di coscienza, uso di frequenti analessi e prolessi, aneddoti intrisi di ironia e malinconia, l’autore di New York ci dice come quello che c’è dentro di noi e quello che c’è al di fuori di noi, sono in realtà la stessa cosa:

<<Una volta Povero Tony aveva avuto l’hubris di pensare di aver già avuto sul serio il tremito, in passato. E invece non aveva mai davvero tramato fino a quando le cadenze del tempo, taglienti e fredde e stranamente odorose di deodorante, non avevano cominciato a entrargli nel corpo da diversi orifizi, fredde come solo il freddo umido sa essere-la frase di cui pensava di conoscere il significato era freddo fin dentro le ossa-colonne di freddo rivestite di schegge gli entravano in corpo e gli riempivano le ossa di polvere di vetro e sentiva le giunture scricchiolare come vetro frantumato ogni volta che si muoveva dalla sua posizione rannicchiata, il tempo era nell’ambiente e nell’aria ed entrava e usciva da lui quando voleva, gelido; e il dolore del fiato contro i denti>>.

Celebrato e snobbato nella stessa misura, Infinite jest già al suo apparire nel 1996 palesava il desiderio di rendere il lettore “meno solo, intellettualmente, emozionalmente, spiritualmente in un profondo contatto con qualcun altro”, come ammise lo stesso Wallace. Tra gli scrittori contemporanei, Wallace, morto suicida nel 2008, è stato probabilmente quello che ha saputo emergere con la sua opera dal caos del panorama editoriale, cercando di evitare sempre i riflettori mediatici, sulle orme di Salinger o dello scomodo Pynchon, di cui è considerato da molti suo erede, oltre che di DeLillo e Gaddis.

In Infinite jest sono annidati i tratti principali di quel genere di romanzo definito “globale”,  “postmoderno”, “massimalista”, ma risulterebbe fuorviante ragionare a fondo su tali definizioni, mentre ci è più utile riportare le parole di Wallace stesso a proposito delle sue intenzioni durante un’intervista:

“Volevo fare qualcosa di triste. Avevo già scritto cose intellettuali e difficili, ma mai qualcosa di triste. E non volevo avere un solo personaggio principale. L’altra banalità poi sarebbe: volevo fare qualcosa di veramente americano, a proposito di cosa voglia dire vivere in America all’approssimarsi del millennio”.

Considerazioni per nulla banali in realtà: la scelta di scrivere un romanzo rinunciando ad un personaggio centrale favorisce una narrazione che si articola in senso polifonico, cosí come la decisione di scrivere un romanzo veramente americano risponde all’esigenza di rappresentare una realtà contraddittoria e influente sulle altre realtà, soprattutto europee, esplicitando un intento critico nei confronti del tessuto sociale americano, come ha fatto anche, qualche anno dopo e a suo modo, Don DeLillo con il suo Underworld.

Wallace parla di una tristezza tipicamente americana, che ha vissuto lui in prima persona:

“Ero bianco, benestante, colto da far schifo, e avevo più successo di quanto potessi sperare. Eppure ero allo sbando. Un sacco di miei amici si trovavano nelle stesse condizioni. Alcuni facevano uso massiccio di droghe, altri vivevano soltanto per il lavoro. Certi passavano tutte le sere nei bar per uomini soli. Una realtà che ti si parava davanti in venti modi diversi, ma che era sempre la stessa”.

Una sensazione di smarrimento comune ad un’intera generazione, sintomo di un disagio epocale, ripensando il concetto stesso di romanzo e presentandolo con una vera e propria enciclopedia dei nostri tempi: questo potrebbe essere in sintesi Infinite jest. Per chi, durante la lettura, si è fermato prima, annoiandosi, e per chi lo ha detestato, probabilmente e purtroppo Infinite jest è solo un libro dove un autore depresso fa sfoggio della propria cultura e intelligenza.

 

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