Fantastico, grottesco e angoscia nei racconti e articoli di cronaca nera di Dino Buzzati

Dino Buzzati è conosciuto soprattutto per il “Deserto dei Tartari”, in cui il militare Giovanni Drogo è costretto a vivere in una fortezza “esiliato tra ignota gente”. La minaccia dell’assedio da parte dei Tartari, l’attesa snervante del protagonista simboleggiano l’ansia metafisica ed il pensiero ossessivo della morte.

Il finale del romanzo è a sorpresa. È del tutto inatteso. Infatti quando arrivano i Tartari il protagonista sta morendo di un male incurabile. Alcuni critici sostennero che Buzzati si “kafkasse addosso” e che fosse quindi un manierista di Kafka. Lo scrittore ironizzò su queste accuse dichiarando che “alcuni critici denunciavano colpevoli analogie anche quando spedivo un telegramma o compilavo un modulo Vanoni”.

Ma per capire meglio Dino Buzzati bisogna leggere anche i suoi racconti, in cui dettagli apparentemente insignificanti divengono tristi presagi: delle ombre, dei passi, degli scricchiolii sono spesso l’inizio di un capovolgimento di fronte. Ecco quindi che all’improvviso entra in scena l’assurdo.

Breve premessa: per Freud esistono tre tipi di sogni. Il primo tipo di sogni sono frutto di appagamento di desideri non mascherati. Ad esempio un bambino a cui piacciono le patate può sognare di fare una scorpacciata di patate. Il secondo tipo di sogni sono frutto di soddisfacimento mascherato di fantasie inconsce. Il terzo tipo invece sono sogni di angoscia.

I racconti di Buzzati spesso sembrano scaturire da sogni di angoscia o quantomeno sembrano essere dei sogni di angoscia. Ma in questi brani troviamo non solo angoscia e onirismo, ma anche mistero e solitudine.

Nei suoi “Sessanta racconti” si mischiano fantastico, realismo, grottesco, gusto del paradosso e metafisica (Buzzati fu anche pittore  influenzato da De Chirico).

Leggendolo abbiamo la dimostrazione che la vera arte non è copia del reale ma trasfigurazione. Lo scrittore bellunese in questo senso voleva evadere dal mondo e sostituirgli un universo fittizio. Buzzati  fu anche redattore per molti anni del Corriere della Sera e giornalista di cronaca nera.

La cronaca nera vista da Dino Buzzati

È proprio analizzando i suoi articoli di nera che si scopre la sua sensibilità. Carlo Bo scriveva a riguardo di Dino Buzzati: “cronista di assoluta fedeltà, ma alla fine andava oltre e scioglieva tutto con il miracolo della poesia”.

Nei suoi articoli troviamo alcuni delitti, che colpirono l’immaginario collettivo degli italiani: Rina Fort che massacra l’intera famiglia dell’amante che l’ha lasciata, il caso Montesi e lo scandalo conseguente nella Democrazia Cristiana di allora, la contessa Pia Bellentani che a una festa dell’alta società uccide l’amante.

E se talvolta gli assassini non sembrano belve feroci ma persone normali lo scrittore avverte che “l’ombra del male scivola intorno a ciascuno di noi e ci potrebbe toccare”. Ma leggere questi articoli significa ritornare indietro nel tempo e constatare che una grande parte di quella cronaca è diventata storia del Novecento.

Si pensi all’aereo della squadra del Torino che si schianta a Superga, il dramma di Marcinelle in cui morirono 139 minatori italiani in Belgio, il disastro del Vajoont del 1963, la rivolta di San Vittore, la strage di Piazza Fontana. Non ci si può dimenticare di Marcinelle, che è emblematica per quel che riguarda la nostra emigrazione.

Per la scarsità di materie prime della nostra nazione il governo italiano decise di stipulare un accordo con il Belgio, secondo cui avrebbe inviato 50000 minatori ed avrebbe ricevuto 2 tonnellate di carbone all’anno per ogni lavoratore. I minatori italiani furono costretti a lavorare a 1000 metri di profondità.

Il contratto di lavoro non comprendeva la possibilità di dimettersi, era senza diritto di recessione. I minatori che volevano smettere di lavorare venivano condannati a 5 anni di prigione. Molti lavoratori morirono di cancro al polmone. I più fortunati divennero asmatici. Dino Buzzati descrisse con maestria anche il dramma di Superga.

Scrisse che i campioni del Torino fino a pochi giorni prima dominavano i campi di calcio e che la morte in pochi istanti li aveva trasformati. Scrisse: “Esegue balzi così immensi la morte che neppure la nostra immaginazione riesce a starle dietro. Come far capire alle mamme, alle fidanzate, alle sorelle che è meglio non entrare?”.

Memorabili ed amarissime anche le sue parole sul Vajont: “Un sasso è caduto in un bicchiere di acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi”.

Buzzati quindi sapeva essere poetico anche da giornalista senza mai scrivere elzeviri. Possiamo senza ombra di dubbio affermare che il lavoro di giornalista fu fondamentale per la formazione del suo immaginario e della sua poetica, in cui dominò incontrastata l’imperscrutabilità del Fato.

Perché leggere Buzzati

Buzzati va letto e riletto perché non appartiene a nessuna scuola, non abbraccia nessuna ideologia e si rivela sempre originale e versatile. Riesce a intrecciare realtà e finzione con uno stile efficace e apparentemente semplice, a farsi comprendere da tutti ed è sempre distante dalla ricercatezza ad esempio della prosa d’arte.

È unico nel suo genere. Infatti ha una fervida immaginazione che gli permette di descrivere le angosce, gli incubi, l’ignoto come nessun altro narratore italiano nel corso del Novecento.

Buzzati all’epoca fu ostracizzato dai critici letterari. Eppure nessuno come lui in quegli anni in Italia riesce a descrivere i fantasmi della mente, le brutture del quotidiano, l’imponderabile che stravolge l’ordine costituito, il senso di minaccia e l’irrazionalità presenti nell’esistenza umana.

Dino Buzzati come nessun altro riesce a raccontare storie che si nutrono di caos e assurdo: storie che spesso sono contrassegnate da una cifra trascendente. Questo è il suo lascito.

 

Davide Morelli

Le domande che pone il romanzo ‘Il deserto dei Tartari’ di Buzzati in relazione al ‘Castello’ di Kafka

La forza e la grandezza di un’opera letteraria si misurano anche dalla sua capacità di porre domande. La domanda – il problema –, d’altra parte, per dirla con Deleuze, è tutto. Tutto sta nella domanda, c’è un primato della domanda. E se la domanda è una buona domanda difficilmente tace una volta data la risposta: essa sopravvive piuttosto ai suoi scioglimenti, rimette sempre in discussione chi ha ‘la risposta pronta’. Per ogni sfinge che interroga Edipo e ogni Ulisse che risponde nessuno, è la domanda a contare, perché c’è sempre un problema, un problema-Ulisse o un problema-Edipo. Chiediamo di fronte a chi pensa e chi scrive “qual è la domanda?” e forse avremo una carta geografica dell’anima di un’opera e del suo autore. Il deserto dei Tartari del bellunese Dino Buzzati molto probabilmente si è fatto, tra le altre, questa domanda: i barbari, arrivano o no? Tutto sta nel tentare di avvicinarsi a rispondere o nell’osservare con i propri occhi che la domanda non è suscettibile di risposta.

Il giovane sottotenente Giovanni Drogo lo sa bene: i Tartari non parlano né greco né latino né tantomeno italiano, non indossano casacche da ufficiale e, quando arriveranno, non avranno intenzioni quiete. Sono secoli e secoli che i Tartari li sappiamo, per sentito dire almeno, venire da lontano – dalla Siberia, dalla Mongolia… – e, almeno dagli anni di Genghiz khan, li conosciamo come violenti e spietati. Nessuno però, alla Fortezza Bastiani, che sorveglia il confine al di là del quale c’è il grande nord dei barbari, li ha mai visti arrivare. La Fortezza Bastiani non si trova in città: Drogo, raggiunta ormai l’età di un ragazzo adulto e maturo, è costretto a dimenticarsi della sua camera da letto e delle cure certosine e amorevoli che la madre gli rivolge, delle sottane e degli amici, e partire verso le colline, i pendii, le montagne, a settentrione, là dove si trova la fortezza e là dove il giovane Drogo è stato assegnato per un incarico pluriennale. Buzzati, capace come pochi di una narrazione tanto vivida e pulita, rende questo passaggio con molta suggestione. Drogo, a cavallo, cerca la sua destinazione, ma inevitabilmente si perde e trascorre, con una certa ironia, la sua prima notte da adulto all’addiaccio. Il paesaggio selvoso che incontra appare già talmente fuori dall’ordinario e distante dalle mura domestiche che sembra quasi che da lì in avanti si acceda a un luogo separato da quello in cui vivono le creature umane. Quella che si vede lontano spuntare, sui monti, è probabilmente proprio la fortezza, ma ogni passo per farcisi vicino la ritarda e già, nel buio di una specie di iniziazione notturna, delle luci della cittadina non c’è più traccia. È uno dei momenti più tesi e allargati dell’intero racconto e siamo solo alle pagine di esordio. Drogo, il giorno successivo, incontra la prima figura, un capitano della fortezza. Ne risulta una conversazione non poco inquietante, come se il giovane sottotenente stesse dialogando con un fantasma, quasi si fosse incappati in un personaggio lynchiano. Giovanni già teme la fortezza: le mura che nel corso degli anni hanno ridotto quell’uomo al suo strano mutismo, proprio non tanto di chi si è ammalato o di un prigioniero, ma di chi ha dentro una noia secolare, suonano già piene di brutti presagi.

Già qui le somiglianze con un altro grande capolavoro: Il castello kafkiano. Se c’è una differenza tra l’agrimensore K., così come si presenta nelle primissime pagine del Castello, e Drogo, è il temperamento che distingue i due: di Drogo osserviamo subito la linfa vitale, è un ragazzo capace di provare immediatamente rimpianti, nostalgia, speranza, dubbi, preoccupazioni, paura, sentimenti vivi e propri di chi è nel fiore degli anni, laddove K. è un uomo già adulto che appare come vitale, certo (in un’opera in cui la maggior parte dei personaggi sono attraversati da una stanchezza disumana), ma deciso, risoluto, persino arrogante. Tuttavia entrambe le mete – la fortezza e il castello – sembrano fin dal principio irraggiungibili. Per di più del castello, dove risiedono il conte Westwest o Klamm, sappiamo e sapremo pochissimo: le poche parole dell’oste, oltre che alle notizie che conosciamo dagli abitanti del villaggio, non fanno che creare confusione e scoraggiamento in K. e nel lettore.

C’è elusività nel parlare della fortezza e del castello e, tanto più, della sua burocrazia interna. La differenza è che nonostante tutto Drogo fa in qualche modo già parte della burocrazia della fortezza – è proprio questo che gli dà timore –, mentre K., non appena mette piede nel villaggio, ha già scritto nel volto che le porte del castello non le vedrà mai e che la sua stessa esistenza laggiù sarà priva di qualsivoglia significato. In conclusione in Buzzati il senso della vanità non sembra coniugato, qui, in senso individualistico: il problema non è tanto un vuoto che affligge Drogo. In K. sentiamo invece, già fin dalle primissime pagine, un vuoto non indifferente.

La vista della fortezza e di chi vi risiede non aggiunge alcune speranza a quelle riposte dal giovane Drogo nel trovare laggiù, perlomeno, un luogo confortevole e della buona compagnia offerta dal cameratismo e dalla solidarietà militare tra fratelli d’armi: questa sembra una prigione fatta di sabbia e i militari che la abitano, tanto quelli giovani quanto quelli vecchi, sono come visitati da lungo tempo dalla stessa ‘malattia’ del capitano incontrato nei boschi. La fortezza è squadrata, la sua architettura è assente, le mura sembrano fatte della stessa contestura di quel deserto che le sta davanti e che lei dovrebbe, nella sua pazienza secolare, sorvegliare e difendere da una possibile invasione straniera. Drogo si sente già sfinito e finito: cosa lo ha condotto in un luogo tanto lontano e inutile? C’è solo una parola che lo assilla: fuggire. Naturalmente fuggire legalmente, ma fuggire. L’occasione gli si presenta quando comprenderà, grazie alle gentili parole e ai consigli del suo stesso capo, che sarà per lui facilissimo ottenere dal vecchissimo dottore della fortezza la possibilità di un certificato medico che attesti un cattivo stato di salute e, quindi, le dimissioni. Dimissioni tra l’altro immediate! Drogo può partire già l’indomani o, come vuole la forma, aspettare solo qualche mese. Ci sono tre passaggi di una bellezza inaudita che scandiscono, qui, il destino di Drogo, che la fortezza, come possiamo immaginare, non la lascerà affatto.
Badiamo bene che la situazione, tutt’altro che kafkiana, avvantaggia il solo Drogo: il suo desiderio di fuga può essere esaudito immediatamente, senza rischiare di venire meno ai doveri militari, la sua appartenenza alla burocrazia della fortezza è talmente decisa da permettergli di sottrarvisi in tutta tranquillità, seguendo le norme di questa stessa burocrazia. Proprio questa serenità segnerà la condanna di Drogo. Drogo manifesta infatti una certa curiosità, nonostante tutto, nei confronti della fortezza, vuoi per uno scherzo psicologico causato dalla sua ritrovata serenità vuoi per qualche altra ragione: manifesta il desiderio, accontentato con non poca difficoltà, di vedere il famoso deserto che la fortezza sorveglia. Lo osserva da una feritoia, per qualche secondo, giusto il tempo di uno sguardo parziale ma oltremodo definitivo («Un’occhiata soltanto, signor maggiore», «Dove mai Drogo aveva già visto quel mondo? […] Echi profondissimi dell’animo suo si erano ridestati e lui non li sapeva capire»). Inoltre la scena della goccia d’acqua: di notte il ritmo incessante di alcune gocce d’acqua che cadono da qualche parte e che, tramite giochi d’eco, arrivano fino ai dormitori, assilla pesantemente Drogo: il pensiero di dormire tutte le notti a venire con quel rumore in testa lo perseguita e il giovane sottotenente si rivolta nella sua brandina, in un’insonnia quasi febbrile. Infine il vero giro di boa della narrazione, quando Drogo incontra l’anziano medico, una volta scaduti i termini mensili stabiliti per la sua partenza: Giovanni osserva una finestra con sguardo assente, apparentemente pensieroso, uno sguardo che vediamo sul suo volto per la primissima volta. Improvvisamente e incredibilmente il sottotenente accetta di rimanere e il medico è ben felice di disfare le sue pratiche.

Drogo ascoltava senza interesse [il medico], intento com’era a guardare dalla finestra. E allora gli parve di vedere le mura giallastre del cortile levarsi altissime verso il cielo di cristallo e, sopra di esse, al di là, ancora più alte, solitarie torri, muraglioni a sghembo coronati di neve, aerei spalti e fortini, che non aveva mai prima notato. Una luce chiara dall’occidente ancora li illuminava ed essi misteriosamente così splendevano di una impenetrabile vita. […] “Medico medico” disse Drogo quasi balbettando. “Io sto bene”. […] “Io sto bene” ripeté Drogo quasi non riconoscendo la propria voce. “Io sto bene e voglio restare”.

Quale meccanica ha chiuso definitivamente Giovanni Drogo tra le mura della Fortezza Bastiani? Cosa lo ha spinto ad accettare la monotonia di un luogo tanto pieno di tedio, sperduto, con poca compagnia, lontano dalle frivolezze mondane e da una carriera più gratificante? A perseguire una causa fatua, sorvegliare una piana (il ‘deserto’) da cui mai sono arrivati invasori? Cosa ha visto Drogo in quel deserto, da quella feritoia? L’opera diventa qua davvero il romanzo sul tempo di cui tutti parlano quando si discute del Deserto. Non solo perché il tempo della storia iniziale (teso, che rintraccia il senso dell’attesa, della monotonia, del nervosismo) cede a una accelerazione in ogni senso (i fatti si velocizzano, talvolta con ellissi anche piuttosto intense), ma perché quella che può sembrare una ‘canonica’ riflessione sulla fuga del tempo diventa qui una riflessione sulla fuga dal tempo. Come se, in un certo, senso, il problema di una fuga concreta da parte di Drogo dal suo incarico, cedesse a una fuga più astratta, fuga dal tempo che passa, lunghissimo e al contempo spaventosamente rapido, in attesa del grande evento, il barbaro che arriva.

Una volta che si è accettato questo l’attenzione del lettore è rivolta tutta alla domanda: arriveranno mai i Tartari? Drogo, d’altra parte, è un uomo cambiato. Non riconosciamo più il giovane spaventato e entusiasta, ma vediamo in lui una maturazione che sappiamo essere decisiva e seria, persino preoccupante. In un simile contesto di psicosi, chi rimane nella Fortezza ha tutto il volto della Fortezza e della ligia dedizione ai suoi rigidi rituali militari, chi va via sembra ancora avere preservato qualche tratto di umanità, di leggerezza, di vita. E tutti gli occhi sono puntati là, al deserto. L’unico evento che può smuovere la monotonia secolare degli anni che passano è un improvviso allarme: qualcuno ha visto qualcosa o qualcuno arrivare. Spunta una macchia mobile in fondo al deserto. Sono arrivati i Tartari? Per giorni la tensione sale, il tempo di nuovo si restringe, ma dei Tartari alla fine non c’è mai traccia e qualcuno, in questa devozione davvero alienata alla causa del luogo – dove niente accade, dove non c’è nemico da affrontare – perde addirittura, contro ogni aspettativa e in un gioco tragicamente ironico, la vita per mano altrui: si comincia perciò a riconoscere il Tartaro persino nel compagno che rientra nella Fortezza senza aver avvisato le guardie e a cui si spara senza pensarci più di tanto. La regola e la burocrazia hanno preso il sopravvento ma, in un contro-luce kafkiano (e Kafka è lo scrittore della burocrazia), non la osserviamo da parte di chi, fuori, cerca di parteciparvi senza successo, ma da dentro, da parte di chi la vive. L’esito è spaventosamente simile: il vuoto. Se infatti siamo stati scomodi nei panni di K. e sembrava di respirare quando osservavamo la rigida routine di Klamm (alienata certo, ma perlomeno sicura, stabilita, dotata di un qualsivoglia senso), non ci sentiamo più a proprio agio a seguire quella di Drogo: la sua esistenza così scandita e regolata sembra, tra quelle mura, avere sì una ragion d’essere, tuttavia tutto continua ad apparire pieno di un vuoto che non viene mai colmato e speriamo che da un momento all’altro la regola venga trasgredita e torni in lui il proposito di fuggire e tornare alla sua vecchia vita.

Per Drogo la domanda diventa la causa della sua vita: i barbari, arrivano o no? In un rovescio sensazionale Giovanni si ritroverà a fare carriera tra i ranghi della Fortezza, fino a riconoscersi, d’improvviso, dopo decine di anni, proprio in quel vecchio comandante che lo aveva accolto una volta arrivato dalla città, pronto a sua volta a ospitare il suo alter ego, una giovane recluta che è stata assegnata proprio alla Fortezza. Davvero sono passati tutti questi anni? Drogo è ormai vecchio, come lo era stato il suo capo, come lo era stato il medico, e come lo sono i compagni rimasti, e una nuova generazione si sostituisce alla sua. Proprio quando ormai malato dovrà lasciare forzatamente la Fortezza, con un cliché che non ci aspetteremmo mai ma che, nella sua banalità, è semplicemente geniale, qualcuno suona il definitivo allarme: ci sono degli invasori. In realtà i dubbi permangono. Drogo è risoluto, ma è in uno stato di semi-incoscienza. Ciò che è sogno e ciò che non lo è non sembra più chiaro. Drogo viene lasciato da parte, la sua decennale dedizione all’attesa del grande evento, non sembra servita a nulla. E adesso, una volta che i Tartari sono davvero arrivati, nella Fortezza Bastiani Drogo è meno di un fantasma per chi frettolosamente si prepara ad affrontare il nemico. Giovanni finisce i suoi giorni in una locanda, sulla strada di casa, moribondo. Il finale, di una forza inaudita, ricorda già il miglior Leone di C’era una volta in America, perché di fronte alla tragedia più totale, c’è un sorriso simile a quello, indecifrabile, di Noodles tra i fumi dell’oppio. «Poi nel buio, benché nessuno lo veda, sorride».
Sulle analogie kafkiane di questo romanzo, oltremodo studiate, Buzzati fu, giustamente, molto cauto e persino deciso: «Kafka è Kafka, io sono io. Basta con questa storia». Carlo Bo fu invece molto più chiaro e radicale:

Ebbene Kafka c’entrava poco con Buzzati, anzi non c’entrava affatto. Il riferimento non era che un nostro [degli studiosi, dei critici, dei lettori] infelice tentativo per spiegare un’opera insolita nel quadro della nostra letteratura e, casomai, ci dispensava dal continuare lo scandaglio e l’approfondimento. In effetti per spiegare Buzzati era sufficiente l’idea dell’attesa, del mistero, l’idea che tutta la nostra vita è legata a qualcosa che sfugge alla luce e ai calcoli della piccola economia delle prime reazioni.

Eppure congiunture di pensiero esistono, come esistettero per la poesia leopardiana e la filosofia di Schopenhauer, senza che i due sapessero della reciproca esistenza. Ma la congiuntura è dovuta al fatto che il Novecento è l’unico secolo che ha permesso simili, inaudite soglie di riflessione. Buzzati scrive il suo capolavoro nel pieno dei terrori della guerra, dove la questione dell’invasore era più concreta che mai. La vanità dell’esistenza, la fuga dal tempo, il problema della burocratizzazione della vita umana… esse sono riflessioni tutte intrise di Novecento, che solo perché troviamo in Kafka in una prima linea definitiva hanno finito per consegnare Buzzati ai tanti chiacchiericci (spesso motivati, altre volte meno) sulla sua kafkianità piuttosto che sul suo pensiero e sulla sua letteratura.

Anche in Buzzati c’è la vanità dell’esistenza e la riflessione che ne consegue, certo, e anche in Kafka c’è la riflessione sull’Altro che arriva (basti leggere quel meraviglioso racconto kafkiano che è La tana), se intendiamo questo Altro, magari, nella sua variante filosofica, così come tanto efficacemente la declinano grandi pensatori quali Camus, Lèvinas e Derrida. Ma d’altra parte, quando la letteratura non ha parlato dello straniero? Certo, non tanto radicalmente come nel secolo breve, ma è una riflessione che dà in un certo senso l’avvio stesso al gesto letterario: si pensi all’Odissea, si pensi alle Supplici di Eschilo, si pensi al racconto biblico… e quanta altra letteratura si potrebbe continuare a citare? Ma se la domanda – l’altro arriva? – è davvero una domanda più novecentesca che mai e se davvero questa domanda vada accompagnata alla riflessione filosofica, psicanalitica, storica, letteraria, sociologia (e chi più ne ha più ne metta) in un senso tutto novecentesco, Buzzati in questo rappresenta un nome da ricordare e da riscoprire. Più che con Kafka, forse è davvero con la filosofia contemporanea che Buzzati dovrebbe dialogare. I Tartari in Buzzati, forse, sono davvero arrivati, e non si potrebbe dire che certa filosofia (soprattutto francese) abbia dato la stessa risposta: rispondere a questo problema è già molto più interessante di altro. È poi alla fine possibile rispondere a una domanda del genere? Qui sta d’altra parte il cuore della questione: la domanda, ancora una volta, sembra sopravvivere alle sue risposte.

 

http://www.lintellettualedissidente.it/letteratura-2/dino-buzzati-deserto-dei-tartari/

 

Mistero e irrealismo in Buzzati

Il grande ritratto di Dino Buzzati trasporta il lettore, dietro la vicenda di colui che si pensa essere il protagonista (ma non lo è in quanto è difficile che nella narrativa di Dino Buzzati esista un protagonista-uomo o donna, essendo la sua umanità sempre vittima di qualcosa di molto più grande di essa), in una sorta di “sopramondo”, a metà tra fantascienza e un mondo sui generis, le cui dimensioni, da umane si trasformano e deformano, assumono proporzioni irreali, diventano incubo, ossessione e a volte pazzia. Come nel protagonista del Grande ritratto, Endriade, il capo di un elitario staff di scienziati a cui ordini è stato costruito in una località remota dalla consueta vita umana, una specie di laboratorio sul quale esiste il più fitto dei misteri.

Mistero e psicologia in Dino Buzzati

Questa presenza del mistero, anche nella vita quotidiana, è un tema caro a Buzzati e da lui sfruttato a volte in modo geniale, altre solo abilmente. Geniale nel Deserto dei Tartari, in alcune sue novelle, ne I Sette Messaggeri in particolare come ne I sessanta racconti; abile in Paura alla Scala e ne Il crollo della Baliverna. La graduale suggestione della misteriosità eccezionale della cosa è affidata nel Grande ritratto, alla perplessità, alle paure e alla curiosità del modesto scienziato Ismani, argutamente controbilanciato dalla sicurezza della moglie, al quale viene dato il misterioso incarico di raggiungere quella remota località, di cui non sa assolutamente nulla. Si tratta di un incarico di un organo segreto del ministero della guerra; cosa che fa supporre al lettore che si stia affrontando argomenti militari. Ismani parte con la moglie, è preso in consegna da guide riservatissime e portato dove era stato destinato. Le non poche pagine, ma di scarno dialogo, di rapide descrizioni sia del paesaggio che delle inquietudini del pavido scienziato, sono probabilmente le più suggestive perché significano una condizione psicologica, frequente nella fantasia o almeno nell’immaginazione di Dino Buzzati. In quel luogo Ismani conosce un paio di colleghi, le loro mogli (molto bello il ritratto di olga Strobele):

<<abitano in ville contigue, ai margini di una valle, dove sprofonda il laboratorio. “Dinanzi a loro (i coniugi Ismani e Olga) sprofondava un botro, un vallone senza sbocchi, un ripidissimo cratere che si prolungava tortuoso a perdita d’occhio. Dal fondo le pareti erano interamente ricoperte di strane costruzioni, come scatole, attaccate l’una all’altra, che formavano una babelica successione di terrazze accompagnando le sporgenze e le rientranze delle rupi. Ma le rupi non c’erano più, né si vedeva vegetazione […]. Tutto era invaso da un accavallamento di edifici simili a silos, torri, mastabe, muraglioni, esili ponti, barbacani, caselli, casematte, bastioni, che si inabissavano in vertiginose geometrie. Come una città si fosse abbattuta sui fianchi di un burrone. Ma c’era un elemento esageratamente anormale che dava a quelle architetture qualcosa di enigmatico. Non esistevano finestre. Tutto appariva ermeticamente chiuso o cieco […]. Non si vedeva anima viva. Eppure l’allucinante bolgia non esprimeva la morte o l’abbandono. Anzi, si percepiva sotto l’involucro, una vita arcana che stesse fermentando. Perché? Forse per il brulichio delle antenne metalliche, dalla più bizzarre forme, che spuntavano dai ciglioni sommitali? Forse per il confuso coro di sommessi ronzii, risonanze, sussurri, lontani scrosci e tonfi, che lievitava sopra la dirupata cittadella, e andava e veniva a lente ondate […]>>

Basterebbe solo questo passo per mostrare la qualità forse maggiore della fantasia di Buzzati, che affronta il teratologico come se si trattasse della descrizione di un paesaggio naturale, ma quello che accade là dentro probabilmente lo sa solo Endriade e lo spiegherà alla moglie di Ismani, che poi verrà inghiottita come un fuscello da quel novello minotauro: Che se noi qui si riesce-dice Endriade al collega Strobele, diventiamo i padroni del mondo! E invece non è vero nulla. Endriade ha costruito questo monstrum per due scopi opposti: creare la macchina del pensiero, la cellula della personalità, l’intima essenza della creatura, e la macchina si chiama Numero 1, e sia per resuscitare la vita di una giovane donna morte, la moglie infida di Endriade, Lauretta, di cui l’uomo sente ancora la voce e persino la presenza fisica.

I due elementi fantastici del racconto non fanno unità perché sono intimamente estranei, e il racconto smette di essere persuasivo in ogni sua parte, aspetto che rappresenta il difetto del romanzo di Buzzati, sebbene non manchino pagine molto belle.

Gi Titta Rosa: Vita letteraria del Novecento, V.III.

Dino Buzzati, narratore di solitudini

“Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e,
stretti insieme dietro i vetri,
guardando la solitudine delle strade buie e gelate,
ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo”. (Dino Buzzati, “Inverni superflui”)

Il 16 ottobre 1906 nasce lo scrittore Dino Buzzati (San Pellegrino di Belluno, 16 ottobre 1906 – Milano, 28 gennaio 1972) a San Pellegrino di Belluno. Nasce Dino, non l’autore. Si sa, infatti che un autore si vede la luce alla pubblicazione della prima opera e Buzzati esordisce nel 1942 con una raccolta I sette messaggeri. La sua immagine è spesso “bollata”, associata (e criticato duramente), non senza un piglio riduttivo, all’opera Il deserto dei tartari (e Il segreto del bosco vecchio, il secondo pubblicato per la prima volta nel 1935). Una fiaba, quella de Il segreto che di primo impatto potrebbe sembrare ideata per un pubblico in età scolare. E invece, riesce a stupire specialmente il lettore adulto. Elementi didascalici sono rintracciabili, certo. Ma non solo. Non si limita a questo la tensione fantastica dell’autore, né la morale del romanzo; inevitabile il rinvio a Il piccolo principe, di Antoine de Saint-Exupery. Viene in mente perché, si sa, il piccolo avventuroso principe delle galassie è stato da molti considerato l’amico invisibile di tutti i bimbi. Come a dire, non si tratta di un libro per adulti. Nulla di più errato. E lo stesso sterile pregiudizio attanaglia il gioiello narrativo che rappresenta, per l’appunto, Il segreto del bosco vecchio. Non è la prima  opera posta sotto il banco degli accusati da critica e pubblico. Nel 1933 dopo aver conseguito una laurea in Legge, e l’inizio dell’attività di cronista per “Il Corriere della Sera”, Buzzati pubblica il suo primo romanzo: Bàrnabo delle montagne.

Nel ’39 esce invece sforna il manoscritto de Il deserto dei tartari, che verrà pubblicato da Leo Longanesi. A questa opera è associato il nome dell’autore e tutta la sua fortuna/sfortuna. Un uomo, un soldato, narra Buzzati, che è incapace a vivere, a compiere una scelta metaforizza la sua condizione di giornalista impotente e sottomesso alle angherie della sua redazione. Il deserto, metafora naturalistica di rilievo, così come i tartari, i mongoli che non arrivano mai dalle montagne, simboleggiano la paura di vivere e confrontarsi con l’altro, con lo sconosciuto, ma al tempo stesso incarna il timore di una mancato confronto, di una esistenza spoglia e negletta. Il nemico atteso, chiunque esso sia, spaventa, ma intimorisce al protagonista la possibilità che questo nemico non arrivi mai. Apatia, atonia, il deserto è assenza, immeritata vuoto d’azione, scoperta, sana frenesia. Corretto il titolo originario del romanzo, La fortezza infatti non piaceva per niente all’editore, Buzzati può finalmente vedere edita la sua opera. Porta avanti la sua collaborazione con “Il Corriere” prendendo parte, tra le altre iniziative, alla presa di Fiume come corrispondente. Escono lo stesso anno La famosa invasione degli orsi in Sicilia e Il libro delle pipe (operetta umoristica di genere fantastico).

Tra le ultime opere ricordiamo, invece, Paura alla scala (1949), storia di una Milano borghese, affettata da un dopoguerra di estenuanti frivolezze, è la storia degli uomini imprigionati, questa volta, in una fortezza morale e spirituali e Sessanta racconti (1958). Ritorna perciò, in una narrazione rivestita di modernità e accessori nuovi, l’inettitudine degli uomini. Tutte le opere di Dino Buzzati, a seguire Il grande ritratto, Un amore, La boutique del mistero, per citarne alcune tra le ultime, seguono un disegno preciso del proposito autoriale. Egli infatti ricostruisce in ogni romanzo le tappe dell’esistenza, le sue stagioni, dall’infanzia alla senilità. Ciò avviene già nel già citato Il segreto del bosco vecchio, nonostante in quel caso la vena dello scrittore sia favolistica e spensierata, leggera, ma comunque portatrice di una morale. Altro elemento fisso della sua narrativa è senza subbio la montagna, un luogo quasi adamitico, ancestrale e sede della solitudine umana. Ogni uomo è solo, condannato ad affrontare ostacoli, esperienze ingannevoli. Alla fine, ogni protagonista è trasportato verso il baratro della morte, della sconfitta, della solitudine. Anche in Un amore (1963), dove si racconta di un amore biologico, viscerale senza veli e senza timore di raccontare scomode verità sulla natura umana; il protagonista è costretto ad abbattere barriere, ma in tal caso queste si incarnano nel prestigio sociale, nel denaro, fino a desiderio di conquistare la donna amata, anche se quest’ultima è una prostituta ai margini del mondo dabbene. Anche l’amore viene trattato in tutta la sua imperscrutabilità. Una narrativa, perciò quella di Dino Buzzati, segnata dalle tappe fondamentali del vivere, quelle stagioni dell’esistenza che vedono l’uomo protagonista assoluto della propria storia.

Dino Buzzati ha sfruttato spesso in maniera geniale la presenza del mistero e del fantastico all’interno delle sue opere, toccando zone profonde, il cui lerciume va oltre il dato fisiologico della passione sensuale, regalandoci pagine dense di inquietudini, tensione, solitudini, smarrimenti, suggestioni, svelte descrizioni. La chiave di lettura da adottare in relazione alla narrativa dello scrittore è prevalentemente di tipo esistenzialistico-filosofico, in quanto l’attenzione dello scrittore appare rivolta soprattutto alla concreta realtà dell’esistere, all’uomo (illuso e che dovrà arrendersi di fronte all’ineluttabilità del destino), raffigurato sia nella sua ansiosa ricerca di rivelazione dell’Essere, che nella sua angoscia per l’impossibilità di una qualsivoglia rivelazione come si evince da questo passo de Il deserto dei Tartari:

“Il tempo è fuggito tanto velocemente che l’animo non è riuscito ad invecchiare. E per quanto l’orgasmo oscuro delle ore che passano si faccia ogni giorno più grande, Drogo si ostina nella illusione che l’importante sia ancora da incominciare”.

 

 

Il deserto dei Tartari: l’attesa e la speranza

«Eppure il tempo soffiava; senza curarsi degli uomini passava su e giù per il mondo mortificando le cose belle; e nessuno riusciva a sfuggirgli, nemmeno i bambini appena nati, ancora sprovvisti di nome»
( Da Il deserto dei Tartari)

Dino Buzzati

Il sottotenente Giovanni Drogo è inviato a prestare servizio nell’isolata Fortezza Bastiani ai confini settentrionali del regno; tuttavia da anni nessuna minaccia è più apparsa su quel fronte; la Fortezza, ormai priva della sua importanza strategica è solo una costruzione solitaria, lontana e dimentica da tutti. L’avamposto sorveglia una pianura desolata, chiamata deserto dei Tartari, un tempo luogo di grandi battaglie; alla Fortezza si vive nell’attesa della guerra, sorvegliando un deserto da cui non arriva mai nessuno, e mai nessun nemico. Buzzati ci descrive in realtà un paese immaginario, non specifica né un tempo né un luogo. In fondo non ha importanza collocare i personaggi nel tempo e nello spazio, perché in questa storia il tradizionale concetto di tempo e spazio è alterato. Ciò che circonda la Fortezza è infatti un deserto, un non-luogo per eccellenza, dove ciò che conta è la solitudine e la  percezione alienante dello scorrere del tempo.

Il sottotenente Drogo diventa vittima dell’abitudine, un’abitudine all’attesa, all’aspettare. La passività di giorni che si susseguono senza tregua, eppure in pace, riesce ad annebbiare persino la paura della battaglia, del nemico. Ciò che più si desidera alla Fortezza è il nemico.

Il tempo passa inesorabile, instancabile, scivolando sulla Fortezza paradossale avamposto di un tempo fermo, immobile, imprigionato. Gli anni passano e Drogo riceve una licenza per tornare a casa. Lo smarrimento, inaspettato,  lo coglie non appena si ritrova in città; vivere lontano, isolato dal resto del mondo, ha alterato la percezione di quelli che erano i suoi affetti; non ricorda più le vecchie parole i vecchi pensieri, non riconosce più l’affinità con le sue vecchie conoscenze, con gli  amici, con le amiche… ; la lontananza ha trasformato il senso di familiarità in pura estraneità.

Drogo si ritrova indifferente verso tutto ciò che prima era importante; cosa può condividere lui con questo mondo così attento al fare, al trasformarsi?  Nulla ha più senso per lui: questo è  il mondo che cammina insieme al tempo che passa.

Per lui, infatti, il tempo dell’attesa non è ancora finito. Ritorna alla Fortezza. Lì tutto è sempre uguale, identico a se stesso. Tra presunti avvistamenti nemici, desiderati forse più per spezzare la vita monotona e piatta che per combattere, tutti attendono la “grande occasione”.

Solo il naturale ciclo della vita sembra non essere toccato dall’imperturbabilità dei giorni, Drogo che negli anni è diventato Maggiore e vicecomandante della Fortezza vedrà alcuni dei propri compagni morire, e vedrà altri lasciare l’avamposto ormai vecchi. Anche il maggiore Drogo è invecchiato e dopo trent’anni di servizio una malattia al fegato lo costringe a letto. Mentre sembra che ogni cosa si stia per consumare nell’indifferenza e nell’apatia più profonda, ecco che d’improvviso tutto cambia. L’attesa inaspettatamente termina. L’evento tanto atteso si presenta: le truppe del regno del Nord marciano contro la fortezza. Tutti si preparano alla grande battaglia, il tempo infuria e travolge tutti velocemente, come mai prima: rifornimenti, piani di guerra, altre truppe, altri soldati, strategie, rinforzi, armi… ma il Maggiore è troppo malato, Drogo viene portato via. Allontanatosi dall’avamposto il tempo sembra ritrovare il suo normale svolgersi. Si dipana dalle curvature anomale che aveva preso quando anche’esso era imprigionato alla Fortezza.

Drogo nella solitudine di un’anonima stanza di una locanda riflette sulla sua vita. E negli ultimi istanti capisce che è proprio la morte la sua “grande occasione”. Il valore e la dignità che lo hanno contraddistinto per tutta la vita possono finalmente incontrare il nemico. La sua prima ed ultima battaglia dovrà combatterla da solo, con la morte.

Facendosi forza, Giovanni raddrizzò un po’ il busto, si assestò con una mano il colletto dell’uniforme, diede ancora uno sguardo fuori dalla finestra, una brevissima occhiata, per l’ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio, benché nessuno lo vedesse, sorrise”.

Chi fa  i conti con lo scorrere del tempo, ne uscirà, prima o poi, sconfitto.

Il deserto dei Tartari con la sua misteriosa atmosfera, offre l’occasione per una profonda analisi sul senso della vita, con le sue attese, le sue sconfitte, e le sue vellità; la narrazione procede con lentezza e monotonia ma è in perfetta sintonia con l’essenza del romanzo e il suo radicato pessimismo contornato di visioni e noie quotidiane che però non ne fanno un libro noioso. Un capolavoro onirico di simbolismo ed esistenzialismo che sancisce anche la sconfitta del valore rivelatorio e salvifico della parola e della letteratura, l’ossessione per un combattimento da vincere (ma  che non avverrà mai), la speranza di afferrare la tanto desiderata gloria che è solo un’illusione da rimandare giorno dopo giorno, e il riconoscimento pubblico sono appannaggio, secondo Buzzati, di pochi eletti, per questo dedica questo romanzo a tutti gli altri, definiti dallo stesso scrittore, “strani”.

‘Il segreto del bosco vecchio’ di Buzzati: il senso delle occasioni perdute

“Ma due o tre volte, quella notte, ci fu anche il vero silenzio, il solenne silenzio degli antichi boschi, non comparabile con nessun altro al mondo e che pochissimi uomini hanno udito”. (Da Il segreto del bosco vecchio di Dino Buzzati)

Dino Buzzati

Nel racconto fiabesco “Il segreto del bosco vecchio”  dello scrittore, giornalista e drammaturgo Dino Buzzati, la montagna, il bosco, gli animali, gli spiriti sono protagonisti indiscussi di uno scenario onirico e reale al tempo stesso. I venti, i geni dei boschi, i briganti e i taglialegna, sono le incarnazioni del bene e del male come nelle favole più antiche. Oltre al bosco fatato e ai personaggi simbolo di un’infazia oramai perduta compaiono il colonnello Sebastiano Procolo e suo nipote orfano, Benvenuto Procolo.

Intrecciata alla storia fantastica c’è la storia degli umani da raccontare penosa e difficile. Nelle vicende dello zio (l’eroe negativo del racconto) e del nipote si possono cogliere i temi e le dimensioni caratteristiche della narrativa di Buzzati: la paura e il rifiuto della vita di città, il cui emblema, di contro alla nuda e sincera verità della montagna, è la pianura: il luogo di esilio. La dimensione onirica, manifesta il bisogno di immergersi nella potente e incontrollabile forza della natura, rigeneratrice e devastante; il recupero di un contatto con le presenze animali e vegetali, proiezioni fantasmatiche che popolano e animano il “regno segreto” di Buzzati, colorano e accompagnano l’inevitabile commistione tra il piano realistico, caparbiamente difeso dal colonello Procolo, e quello fantastico, dato dall’aura che avvolge tutti i personaggi umani e non del racconto.

È un percorso iniziatico, una prova di coraggio, una ricerca di sentimenti puri e di umanità che deve portare al trionfo del bene sul male; proprio come nelle favole. Sebastiano Procolo è intenzionato ad abbattere il bosco per fini speculativi e spinto dalla bramosia vuole impossessarsi anche della parte di proprietà che è toccata a Benvenuto; la sua avidità lo condurrà persino a stipulare, contraddicendo la sua razionalità di uomo dell’esercito, un’alleanza col terribile vento Matteo per progettare l’omicidio del nipote. Alla fine però Sebastiano fa spazio nel suo cuore all’affetto per il nipote e rimedia alla situazione che tragicamente precipita sacrificando sé stesso.

Le tematiche che il racconto suggerisce sono due: la prima è il passaggio dall’infanzia alla giovinezza di Benvenuto, costretto a lasciarsi alle spalle il mondo fantastico per entrare nel mondo degli uomini. Il secondo è la crisi e la conseguente redenzione del colonnello Procolo che, ostaggio dell’avarizia e dell’avidità, riscopre il contatto con la natura, la verità nei rapporti e l’altruismo. Significativo il passaggio in cui si racconta di come il colonnello perda la propria ombra, allusione allo smarrimento di sé. E lo smarrimento è tappa necessaria affinchè i due protagonisti possano ritrovarsi. Il romanzo è un vero e proprio percorso di formazione che riflette sul senso delle occasioni perdute e sulla solitudine, e porterà il colonnello e il nipote ad essere persone diverse alla fine della loro storia; entrambi mutano i propri punti di vista, il colonnello riacquista dignità, il nipote saggezza: c’è chi cresce e c’è chi muore.

“Il segreto del bosco vecchio” scorre con semplicità assoluta; non è possibile distinguere tra i fatti narrati la realtà dalla fantasia. L’atmosfera surreale lascia convivere i particolari fantastici  con la quotidianità dei gesti e dei pensieri dei protagonisti. Ed è proprio per questa sua capacità di rendere realistico ciò che è solo immaginazione che lo fa annoverare come uno degli autori più esclusivi e innovativi del panorama letterario italiano novecentesco.   Del romanzo esiste una bellissima trasposizione cinematografica. Il film, che conserva il titolo originale, è stato diretto da Ermanno Olmi nel 1993.

Exit mobile version