Tommaso Amadei, teologo: ‘Il dolore è un promemoria: richiama costantemente e con forza ciò che siamo stati e che non siamo più’

Viviamo in un momento storico dove l’apprensione morale per i diritti di libertà e uguaglianza è fortissima e anche plausibile, da una prospettiva secolarizzata, nondimeno la minaccia contro la quale bisognerebbe esprimere maggior preoccupazione coinvolge un orizzonte millenario molto più complesso, quello giudaico-cristiano. Il senso del Cristianesimo originale si condensa intorno al camino della promessa di Cristo, la promessa escatologica della vita eterna.

Il giovane teologo ravennate, ed ex studente di economia ed insegnante di religione Tommaso Amadei, convertitosi alla fede cattolica dopo essere stato un ateo-anarchico con una certa coerenza politica “amorale”, incarna ciò che sosteneva l’esegeta eversivo Sergio Quinzio: l’invocazione del credente che non chiede infatti ciò a cui l’uomo ha astrattamente diritto, ma ciò che Dio, stabilendo un patto con Abramo e con il suo popolo, promette come ricompensa alla fedeltà, o come immensa misericordia.

Croce con cielo stellato, Mausoleo Galla Placidia, Ravenna

Il transumanismo di cui è impregnata la cultura occidentale è un’ideologia angosciante che promette un’esistenza di natura incerta ⎼ contro la promessa cristiana del rimedio ultimo all’inquietudine corporea.

Tommaso Amadei analizza in modo lucido e appassionato lo stato della Chiesa Cattolica e la concezione che oggi si ha del Cristianesimo, non lesinando critiche alla Chiesa e ponendo l’attenzione sull’impreparazione di molti sacerdoti e pastori, sull’importanza del corpo all’interno della riflessione sul Cristianesimo, influenzato dalla cultura ellenica, e sul concetto di dolore e alle sue declinazioni e derive ad esso collegate. Il masochismo ad esempio è una storpiatura della sofferenza e della sua accettazione.

Secondo Amadei il dolore è un promemoria: richiama costantemente e con forza ciò che siamo stati e che non siamo più, ciò che abbiamo perso, ciò che non stiamo più cercando ormai. La nostra prima innocenza, infranta nel peccato d’origine.

Il dolore, se opportunamente vissuto, è anche una strada: di crescita umana e spirituale.

 

 

Essere cristiani è una grande sfida, non crede che oggi il Cristianesimo venga visto banalmente come un qualcosa che in fondo non dà fastidio e di conseguenza considerato con indifferenza?

È proprio così: il mondo odierno (inteso, secondo l’accezione giovannea, come dimensione sottomessa al dominio di Satana) cerca costantemente di marginalizzare la Fede cristiana, perché la detesta e ne è nemico in ogni modo, in maniera più o meno consapevole, più o meno surrettizia. Il depotenziamento del Cristianesimo vive di una duplice spinta: interna ed esterna.

Esternamente, poiché il mondo farebbe di tutto per distruggere la Religione cristiana e non avendo potere sulla sua origine (ossia il Dio Triunico), esso cerca di distruggerne le espressioni storiche denigrando la Chiesa, Corpo mistico di Cristo, e corrompendone le membra, ovvero il popolo di Dio ed i suoi ministri e pastori. Vengono così operati un attacco ed una ridicolizzazione della fede, ritenuta vetusta, obsoleta, oscurantista e via dicendo; le superficialità che si sentono dire ogni giorno. D’altro canto, però, questa corruzione riesce a penetrare con una certa potenza nel tessuto ecclesiale, e ciò porta grandi ferite al popolo credente ed alla sua fede. Gli esempi, tragicamente, sono sotto gli occhi ed a portata d’orecchio di tutti.

Dal lato interno si può dire, con cuore pesante, che diversi strali del mondo hanno trafitto le coscienze di molti credenti, sia tra i laici che nel clero. La crisi è generalizzata, e tante sono state le riflessioni volte a lumeggiare questa situazione di degrado spirituale, e di conseguenza intellettuale e morale. C’è chi è riuscito a vederla arrivare da lontano, questa decadenza; sta di fatto, però, che certi impulsi intraecclesiali odierni sembrano assolutamente volti ad abbracciarla in tutto e per tutto. Un esempio a mio avviso inconfutabile, specie nel Cattolicesimo, è l’abbandono della catechesi del bello, ovvero mediante il bello: guardiamo all’architettura sacra contemporanea (e il più delle volte c’è davvero da chiedersi se si possa definire “sacra”, o non piuttosto il suo contrario); guardiamo all’aspetto musicale ed estetico della liturgia, santa Messa in primis. Sembra esserci una deliberata e totalizzante scelta del brutto, dello sciatto, dello squallido. La ridicolizzazione, a questo riguardo, viene operata da dentro. Questa è una perdita atroce e spaventosa. Mi si perdoni la crudezza, ma trovo che dalla richiesta di una Chiesa povera si sia giunti alla configurazione di una Chiesa poveraccia, miseranda.

Questo non è che un sintomo eclatante di un depauperamento sconvolgente dello spirituale e dell’umano che il Cattolicesimo sta vivendo da diverso tempo a questa parte.

Una cosa che noto, però, è che non appena viene esposta pubblicamente un’opinione sinceramente e pienamente cristiana, la mentalità dominante nella società occidentale spinge immediatamente a prendere misure restrittive a riguardo, o quantomeno a screditare fortemente una simile espressione di dissenso. A riprova del fatto che, in fondo, l’indifferenza è solo una facciata.

 

La cosa più importante che ha imparato studiando Teologia?

Credo di poter dire la cosa più importante che ho imparato nel corso di questi studi sia stata la comprensione della correlazione profonda tra la mia fede, le sue fattezze, la sua struttura, le sue sfumature e la mia vita presa sia nel suo aspetto quotidiano che nella sua globalità. Io sono molto lento a leggere ed a studiare di mio, ma questo si accentua quando mi pongo di fronte alla Sacra Scrittura, ai testi dei Padri e dei Dottori della Chiesa, dei grandi teologi vissuti lungo 20 secoli, perché mi sento come sprofondare nelle parole che incontro. Mi sembra di poter percepire la carne viva e pulsante della mia fede, fili luminosi ad intrecciarsi armoniosamente con la mia storia personale, il mio peccato, le mie perdite, le mie sconfitte; ma anche con le mie felicità, i momenti sereni e massimamente quelli in cui il respiro cattura un’aria che è altra, altra da tutto, e il trascendente si lascia percepire – i momenti della grazia, dell’epifania.

I miei studi mi hanno fatto percepire come la mia miseria e la mia abiezione siano state bagnate con dolcezza potente dal Sangue dell’Agnello. Qui c’è tutto il senso del perdono e della salvezza. Essi mi hanno permesso di appoggiare gli occhi dell’anima sul gran Sacrificio della Croce. Da qui ho saputo guardare con sguardo rinnovato le vite dei santi, la loro splendida comunione, l’unità profonda che intercorre tra essere umano ed essere umano nello scoprirsi figli di un unico Padre, una volta purificati in Cristo e toccati dallo Spirito; è a questo punto che ho notato che quei fili che si sono intrecciati con la mia storia raggiungono in realtà ogni storia, di ogni luogo e tempo. A volte ci rifletto, e mi viene da pensare che questa immensa trama formi come un meraviglioso arazzo, l’imperscrutabile piano di Dio.

È con queste riflessioni, scaturite dagli studi, che ho messo a fuoco una percezione ancestrale, tante volte ignorata: la vita è un abisso. Ora capisco che solo Dio ha la capacità di scrutarlo nella totalità della sua estensione. A noi chiede di abbandonarci a Lui in questo abisso.

Questo, credo, è ciò che di più importante ho imparato. Ora si tratta di viverlo.

 

Che tipo di educazione ha ricevuto, in quale contesto ed in che misura ha inciso il fatto di essere nato in Romagna?

L’educazione che ho ricevuto è stata eticamente, ma non religiosamente, cristiana; mi spiego: pur avendo ricevuto tutti i Sacramenti sino alla Confermazione, in casa non sono stato educato, almeno attivamente, ad una vita religiosamente attiva (ad esempio, con preghiere, letture bibliche e via dicendo). La mia famiglia ha sempre reputato importanti la dimensione religiosa e la questione della fede; tuttavia si sono sempre sentiti come a disagio ad impartirmi un’educazione esplicitamente cattolica, fatta eccezione appunto della frequentazione del catechismo il sabato pomeriggio e della ricezione dei suddetti Sacramenti. Ricordo una volta in cui mia madre mi disse che, se avesse potuto tornare indietro, non avrebbe esitato ad educarmi anche nelle cose della Religione. Per questo dico che l’impronta cristiana si poteva ritrovare più che altro nell’etica con cui sono stato educato: solo col tempo mi accorsi che, a tante cose che mi venivano dette essere giuste o sbagliate, sottostava un’ispirazione scaturita dalla Bibbia, in particolare dai quattro vangeli.

In generale, sono cresciuto in un ambiente abbastanza asettico dal punto di vista della Fede: non ne ho mai sentito parlare né dai miei amici, né dai loro genitori. Il catechismo ha avuto un’incidenza pressoché nulla nella mia visione religiosa. La Romagna ha tante belle testimonianze di fede e di santi straordinari; tuttavia, la mia percezione è che, a meno che non si frequenti l’ambiente religioso, sia difficilissimo entrare in contatto con esse nel quotidiano. Sono sepolte dalla polvere del tempo e della dimenticanza. È qualcosa che ho percepito più che altrove, forse perché ho passato qui la maggior parte della mia vita.

Indubbiamente l’ambiente in cui sono cresciuto ha influito molto, specie nell’indifferentismo e nell’allontanamento dalla Fede stessa. L’insignificanza che il fatto religioso ha nella vita di tanti, in particolare di una gran fetta di adolescenti, spinge ovviamente a prendere le distanze da esso quando si giunge in quell’età. A questo si aggiunse la tradizione anarchica e dissacrante di questa terra, che percepivo come una sorta di eredità politico-esistenziale. Mi ha sempre affascinato molto la storia romagnola di insubordinazione e refrattarietà, e questo mi portò ad una forte avversione alla Chiesa ed alla fede cristiana e religiosa in generale.

Negli anni, dopo la mia conversione, sento di aver integrato nel mio vissuto di fede alcuni elementi di quell’essere terrigno, anche se l’individuarli rappresenta un lavoro che va ancora affinandosi nel tempo. Al contempo, guardo i grandi santi della mia città e ritrovo quella bella sensazione di un’eredità ricevuta, pur di segno diverso, che è da preservare in qualche modo.

 

Come definirebbe il rapporto tra nobiltà e clero di una volta e quello odierno?

Premetto che non sono assolutamente un esperto di questo tema, in special modo della nobiltà odierna e men che meno sui suoi attuali rapporti col clero; ad ogni modo, mi par di capire che, specialmente dalla tarda antichità in poi, i legami tra papato/curia/episcopati e nobiltà si siano stretti sempre di più. Se questo, da un lato, è comprensibile a motivo della maggior possibilità di istruzione delle classi sociali più elevate, dall’altro ha indubbiamente creato grosse problematiche con nomine fatte ad hoc, per interessi di casata e via dicendo. Questioni che la Chiesa ha dovuto affrontare a più riprese e dalle quali è stata flagellata per secoli.

Oggi viviamo in un mondo in cui, comunemente, è difficile sentir parlare di titoli nobiliari, casate e dinastie, se non sui libri di storia; ancor più raro è incontrare persone che effettivamente li posseggono. So, più per sentito dire che per altro, che alcune famiglie nobili (o alcuni dei loro membri) intrattengono ancora rapporti con alcuni vescovi e cardinali; mi pare di capire, però, che si tratta più che altro di relazioni che vertono discussioni sulla Fede e sull’attualità. Sarò sincero: non ho nemmeno mai avuto l’idea di approfondire questo ambito, pertanto sono molto ignorante a riguardo.

Quello che posso dire è che, come in tanti altri casi, il rapporto tra clero e nobiltà è stato ambivalente: se da un lato, tra il X e l’XI secolo, la Chiesa ha dovuto patire due Papi indegni come Giovanni XII e Benedetto IX (nomine frutto degli interessi di casate aristocratiche dell’epoca), d’altro canto – in tempi recenti – ci è stato donato un Papa Pio XII da una famiglia nobile. Il problema scaturisce sempre quando all’umile accettazione e preservazione della Fede cristiana subentra la superba e parossistica ricerca del proprio tornaconto e dell’affermazione della propria volontà.

 

Dostoevskij diceva che l’uomo è attratto dalla sofferenza? Lei cosa pensa?

Non conosco Dostoevskij al punto di metter bocca sulla sua riflessione a riguardo del dolore; di certo posso dire di essere convinto del fatto che l’uomo ha un rapporto del tutto particolare con la sofferenza. Essa è un’esperienza, potremmo dire, “peri-originale”, in qualche modo vicinissima all’oggetto di quel nucleo di nostalgia che contraddistingue, più o meno consciamente, la nostra esperienza di vita su questa terra.

In questo senso, essa ci riporta nelle profondità recondite della nostra interiorità, l’imo della nostra anima. Forse mi sbaglio, e magari è solo una suggestione mia, ma talvolta penso che il dolore riesca a riportarci a considerazioni più ampie e tendenti all’Altro ed all’Altrove proprio a motivo di questa sua prossimità con il tempo ed il luogo prelapsari, rimasti impressi nella memoria spirituale dell’essere umano.

Il cristiano ha un legame ulteriore con la sofferenza a motivo della Passione e Morte del Signore Gesù Cristo. Egli sa che le sofferenze patite da Cristo sono salvifiche per lui e per tutta l’umanità passata, presente e futura. Con “salvifiche” non si intende semplicemente liberatorie rispetto al peccato; e nemmeno ci si limita a professare una semplice reintegrazione nello stato di vita originario edenico. Esse, infatti, sono anche elevanti: non solo Cristo ha preso carne ed anima umane nell’Incarnazione e le ha redente versando il Suo sangue sulla Croce, ma le ha addirittura glorificate mediante la Risurrezione, rendendo possibile a chiunque Lo accetti e Lo custodisca nel cuore l’accesso alla vita stessa di Dio nello splendore della Sua presenza. Io sono convinto del fatto che ogni essere umano, nella sua dimensione spirituale, percepisca questa meraviglia senza eguali, e forse anche per questo vive quella tensione nei confronti della sofferenza.

Da una prospettiva meno luminosa, invece, si potrebbe forse dire che l’uomo può subire la suddetta attrazione, spogliata del suo carattere soteriologico ed amorevole, a causa del degrado morale ed esistenziale in cui versa il suo abitare la società del XXI secolo. In questo caso il rapporto uomo – tribolazione è ambiguo e contraddittorio: nel mondo odierno, si è passati dal tabù della sessualità a quello del dolore, della morte e del limite; la sofferenza viene spinta ai margini della vita sociale ed individuale, come se fosse un’esperienza da evitare a tutti i costi, dal momento che la vita dev’essere esattamente come la vogliamo noi, senza spazio possibile per le sensazioni indesiderate. È la nostra volontà a dettare legge, in quest’ottica.

D’altro canto, però, si moltiplicano i comportamenti distruttivi ed autodistruttivi, permettendo una risacca di dolore incontrollata nella vita dell’uomo contemporaneo. Questo flusso di ritorno è però devastante, perché non risponde al summenzionato indirizzo naturale e soprannaturale della sofferenza.

Il movimento a spirale che induce un simile atteggiamento fa precipitare l’individuo in un meccanismo dal quale diventa difficile affrancarsi: il dolore, così vissuto, finisce per annientarlo. Bisogna assolutamente resistere a questa dinamica.

Studi teologici- in primo piano: numero quaderni Avallon rivista di studi sull’uomo e il sacro

 

La questione che pongono soprattutto gli atei esistenzialisti riguarda proprio il dolore, la sofferenza, eppure è inconcepibile per l’essere umano pensare ad un mondo privo di dolore. A cosa serve il dolore? Perché a volte ci piace essere masochisti?

Il masochismo è una storpiatura della sofferenza e della sua accettazione. Sono convinto non sia il modo autentico di vivere il dolore: il masochismo nasce quando si perde la capacità di comprenderlo, di comprenderne la natura, l’origine primaria (non tanto quella immediata, dunque), l’indirizzo, lo scopo. Questo nostro mondo, mi pare, ha l’enorme difetto di essere diventato incapace di soffrire come si deve, ovvero di vivere la sofferenza come mezzo, come transizione. Si rigetta totalmente l’idea di sacrificio, fondamentale per ogni ambito dell’esistenza umana e della sua esperienza, ed in questo modo rimane solo un dolore crudo, solitario, sperso. Forse, ci piace anche essere masochisti perché abbiamo imparato a vivere il dolore come traguardo e non come sentiero.

Personalmente, posso dire che il dolore è un promemoria: richiama costantemente e con forza ciò che siamo stati e che non siamo più, ciò che abbiamo perso, ciò che non stiamo più cercando ormai. La nostra prima innocenza, infranta nel peccato d’origine.

Il dolore, se opportunamente vissuto, è anche una strada: di crescita umana (emotiva, sentimentale, speculativa e così via), e spirituale: il dolore accettato ed offerto è croce che si integra nella Croce del Figlio amato. C’è una forte correlazione tra la sofferenza e la vita eterna in questo senso, e la prima esprime così tutta la sua potenza catartica.

Penso che il dolore serva a questo, anche se mi rendo conto che questa è una risposta assolutamente limitata.

 

In Memorie dal sottosuolo, sempre Dostoevskij sostiene che anche la persona più colta ed erudita possa essere abietta. Dunque la cultura, la conoscenza non bastano alla salvezza? E non è vero che chi compie il male lo fa perché non conosce il bene..

Purtroppo no, non bastano. Questa linea fu seguita con un impianto esoterico dallo gnosticismo: la conoscenza che salva, riservata a pochi. Il racconto genesiaco è qui letto al contrario: al Dio “cattivo” dell’Antico Testamento si contrapporrebbe il serpente, nel quale tutti i Padri della Chiesa riconoscono il Tentatore, il quale libererebbe l’uomo inducendolo a mangiare il frutto della conoscenza bene e del male; il frutto è dunque l’accesso ad una conoscenza celata.

Tralasciando l’aspetto esoterico-gnostico, similmente non è sufficiente avere una vasta conoscenza delle cose del mondo né per la salvezza, né per essere persone dedite alla giustizia ed alla verità, Dostoevskij ha ragione; ma nemmeno è bastevole la scienza delle cose di Dio in tal senso. Certo è che la conoscenza, qualsiasi direzione prenda, rappresenta la costruzione di un percorso privilegiato per l’affrancamento dalle spire venefiche di questo secolo; ma se essa è distaccata dalla consapevolezza di essere creature mortali e limitate e del fatto che vita terrena e vita eterna sono doni così come dono è la stessa conoscenza cui possiamo attingere e che possiamo fare nostra, allora difficilmente servirà a qualcosa di buono e di fruttuoso.

Che il male lo compia chi non conosce il bene può essere vero in parte: forse chi agisce malvagiamente non ha totale contezza di cosa sia il bene, forse la sua consapevolezza è offuscata in un determinato momento di debolezza. Non è detto però che non l’abbia mai conosciuto, mi viene da dire; sia ripensando alla mia personale esperienza, sia avendo in mente alcune storie di vita specifiche.

Forse, si potrebbe dire anche che chi compie il male difficilmente ha una piena coscienza di cosa sia il male stesso, quali le sue conseguenze ed il suo impatto sulla realtà globale della nostra persona.

Eppure, ho come il timore che ci sia chi sa riconoscere i due sentieri ed intraprende quello più buio con tutta la portata della propria volontà.

Ad ogni modo, su una cosa non ci sono dubbi: la carne è sempre debole, qualsiasi sia il peccato al quale si lascia andare. Viviamo avviluppati in un rovo di concupiscenza dal quale dobbiamo emanciparci, e questo non può che essere fatto con l’aiuto dello Spirito Santo. La conoscenza, che è compresa in uno dei Suoi 7 doni, è una conseguenza della potenza divina che può soffiare sull’uomo, se questi apre la porta del proprio cuore. Essa aiuta ad amare ancor più profondamente ciò che viene conosciuto e riconosciuto come buono, ed a respingere e detestare ciò che viene individuato come malvagio. Questa è la conoscenza che salva: la Sapienza di Dio.

“A ciascuno Dio ha concesso una certa misura di fede, cioè una convinzione di cose invisibili”, diceva il teologo e matematico Pavel Florenskij. Come si pone di fronte a tale affermazione?

Florenskij conosceva le Scritture e le scrutava seriamente. Mi chiedo se, nel dire ciò, avesse in mente anche la parabola dei talenti del vangelo di Matteo (Mt 25, 14-30), parallela a quella delle mine del vangelo di Luca (Lc 19, 11-27). Il Signore non dà lo stesso numero di talenti/mine a ciascuno dei servi, ma ne dà più ad uno e meno agli altri. Io penso che Dio abbia fin dall’eternità un piano perfetto per ciascuno di noi, benché uno possa essere meno eclatante di un altro.

Sebbene una simile idea possa sembrare ingiusta agli occhi dell’uomo (oggi forse qualcuno direbbe anche “discriminatoria”), non bisogna dimenticarsi che a sondare ogni cosa nella sua profondità più remota è solo Dio, e solo Lui capisce quale sia l’importanza, la centralità, la risonanza di ogni azione e di ogni storia. Pertanto, non dovrebbe stupire nessuno se a qualcuno è chiesto di credere fino a dove Dio ha voluto, più o meno che sia rispetto al suo prossimo. Solo il Signore conosce l’equilibrio perfetto di ogni cosa.

Inoltre, è interessante riflettere sulla fede come “convinzione di cose invisibili”. È oggi mentalità diffusa quella che fa corrispondere il non-visto al non-esistente, l’immateriale al non-essere. Questa prospettiva sta impoverendo e facendo appassire l’intelligenza umana del reale, troncando l’esperienza nella sua prospettiva più abissale: quella significata dal simbolo. La vita svuotata di questo oceano di senso finisce per risultare insensata e, di conseguenza, manipolabile.

Dio tutto ha disposto nella Sua sapienza. Bisogna imparare quindi ad accettarla, ad accettare la misura che ha voluto donarci: essa è la sola giusta per noi. Fuori di questo, c’è solo infelicità e disumanizzazione.

 

La scienza è la nuova religione nell’Occidente secolarizzato?

Più che la nuova religione di questo Occidente moribondo, direi che la scienza odiernamente intesa è uno dei suoi volti. Detta nuova fede si può forse definire come la religione dell’uomo: l’uomo che si autodivinizza, che si erge a “dio” con le sole proprie forze.

La storia di salvezza del Cristianesimo è la storia di come Dio Si è fatto carne per redimerci e permetterci di partecipare alla vita divina, in seno alla Santissima Trinità. Che l’uomo odierno cerchi di divinizzarsi da sé, più o meno consapevolmente, è la risposta satanica ed ingrata che egli restituisce al suo Creatore e Salvatore.

La scienza, oggi spacciata come unico sapere certo e definitivo (ciò che non è), diventa una delle bandiere sotto le quali sbraitare slogan preconfezionati e giustificare ideologie in modo assolutamente arbitrario. La cosa divertente è che lo scientismo ed il positivismo sono filosofie morte alla loro nascita; purtroppo, però, vengono ancora proposte popolarmente ed hanno grande presa. Questa non è una scienza al servizio dell’essere umano e della comunità. Piuttosto, essa è una scienza “antropoclasta”, un altare eretto alla religione umana sul quale sacrificare l’uomo all’ideale autodivinizzato dell’uomo, cosa che si configura concretamente nei modi più disparati.

Essa diventa dunque funzionale a questo nuovo credo, facendosi carico di fondare con un linguaggio rigoroso i suoi articoli di fede, i suoi dogmi. Forse parlo a sproposito, ma mi chiedo se non si possa equiparare al linguaggio metafisico usato dalla Chiesa fino a metà ‘900 per esporre la propria dottrina, almeno per quanto concerne questa sua funzione peculiare.

 

Non pensa che concepire la sofferenza come prova di fede, rappresenti una visione troppo limitata se non addirittura ingenua della presenza del male nel mondo? D’altronde nemmeno nel Libro di Giobbe non si dà una spiegazione alla questione..

Dipende dall’idea che abbiamo della prova di fede, mi verrebbe da dire. Se la si intende come un “test” fine a se stesso somministrato dalla Divinità per valutare le proprie creature, assolutamente sì. Se, invece, per prova di fede intendiamo prova d’amore, non la trovo una prospettiva limitata, seppur da comprendere ed integrare. Il dolore è conseguenza della nostra complicità col demonio, della nostra insubordinazione a Dio. La nostra vita non era pensata per essere sofferenza e tribolazione. Dal momento, però, che la nostra situazione è diventata questa, allora vedere nella sofferenza una prova di fede significa trovarle un indirizzo ed un significato profondo.

Il libro di Giobbe non ci scioglie la domanda sull’origine del male in maniera diretta, ma di certo ne sottintende la risposta (che è disseminata lungo tutta la Bibbia e, successivamente, nelle espressioni del Magistero della Chiesa attraverso la storia): la presenza di una misura di non-amore. Ecco la scintilla del grande sconvolgimento metastorico della ribellione luciferina contro Dio: la presenza del male nel mondo è comprensibile solo nell’ottica in cui all’amore sconfinato di Dio non si corrisponde con un amore caricato di tutta la forza ed estensione di cui si è capaci.

Ciò che ci insegna il libro di Giobbe è che, come detto poc’anzi, l’abisso di questa vita è scrutabile nella sua totalità solo da Dio. Pertanto, il dolore non va né ricercato, né respinto: quando arriva, va vissuto affidandolo ed affidandosi al Signore, offrendo tutto a Lui. Ciò non significa evitare le domande e le ambasce, e nemmeno significa arrendersi e crogiolare nel dolore che arriva; ma vuol dire accoglierlo da un’altra prospettiva. È così che Giobbe venne ristabilito nella sua fortuna, la quale viene addirittura raddoppiata rispetto al passato.

 

Qual è secondo lei il più grande problema che attanaglia la Chiesa? E quale dovrebbe affrontare in modo più deciso?

Mi sembra che, in assoluto, il maggior problema a soffocare la Chiesa oggi sia la gigantesca crisi di fede che sta vivendo. Non si tratta di una decadenza spirituale circoscritta a pochi preti; purtroppo oggi, in maniera più o meno velata, si vedono molti pastori e figure di riferimento ecclesiale esprimersi in modo imprudente ed impreciso, quando non mondano o addirittura eretico. Non è solo questione di impreparazione teologica ed umana; sembra che molti vogliano contraddire a priori la Tradizione della Chiesa e correre incontro al mondo a braccia aperte: si cercano costantemente punti di contatto e di vicinanza, di stima e di amicizia, ricerca che viene puntualmente disattesa. Non potrebbe essere altrimenti: lo spirito di questo mondo è tenebroso, rifugge la luce. Ce lo dice il Prologo di Giovanni: il mondo non lo ha riconosciuto, i suoi non l’hanno accolto. Il Signore che viene per distruggere le catene del nostro peccato e permetterci di accedere ad una comunione di vita con Lui trova resistenza, sempre l’ha trovata e così continua ad essere, oggi più che in altre epoche. Questa continua rincorsa dietro al mondo sta lacerando la fede del popolo credente, clero e laici. Si sentono dire cose inaudite. Quando la mentalità mondana entra nel Tempio di Dio, si rende necessaria una grande, tremenda purificazione.

A corollario, discende una serie di conseguenze devastanti dal punto di vista morale e sociale; quell’argine che la Chiesa ha rappresentato per secoli alle spinte demoniache nella società sembra cedere di proposito in alcuni punti. Il mondo guadagna metri, e con essi le anime che vi abitano. Questa è una tragedia immane.

Tutto questo relativismo nella fede crea terreno fertile per quella corruzione intraecclesiale di cui sopra, che oggi sembra serpeggiare con una potenza che si è vista raramente in altri momenti della storia.

Questa è la piaga che la Chiesa dovrebbe affrontare con maggior decisione. Così facendo, risanerebbe tanti sintomi che si manifestano a motivo di questa situazione.

Se parliamo di sintomi da contrastare, invece, sono convinto che il primo da eliminare con tutta la forza possibile, in quanto più disgustoso e disumano e distruttivo per il corpo e nocivo per l’anima, sia la questione degli abusi sessuali. Non è concepibile in nessun modo un fenomeno così assolutamente satanico; diventa ancor più inconcepibile se i colpevoli di una simile mostruosità sono sacerdoti o comunque esseri umani vicini agli ambienti di Chiesa, ovverosia quei luoghi in cui ogni persona dovrebbe trovare rifugio, conforto, riparo, comprensione, cura.

Un altro sintomo della crisi nella Chiesa, grave in maniera decisamente diversa rispetto a quello precedente, è la presentazione della vita come gioia, a tratti spensierata. Mi ha colpito molto la critica che Romano Amerio muove nella sua opera Iota Unum esattamente a questo riguardo (che fu per me, in adolescenza, motivo di allontanamento dalla Chiesa). Egli nota accortamente la descrizione che si fa della vita in orazioni antiche (si prenda l’esempio del Salve Regina: “valle di lacrime”), e come questa concezione sia tramutata ultimamente a causa di un atteggiamento che ha i tratti della superficialità e del distacco dalla realtà. La visione edulcorata del mondo tratteggiata da una certa omiletica e da un certo filone comunicativo cattolico (e mi pare di capire che la cosa non si limiti all’ambito cattolico) mi sembra sia stata veramente deleteria per la nostra società. Credo che sia molto più onesto e fedele allo stato delle cose in questa dimensione immanente dipingere l’esistenza così come risalta, tanto per menzionarlo nuovamente, nel libro di Giobbe, al capitolo 7: «Non ha forse un duro lavoro l’uomo sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli d’un mercenario?».

La vita è soprattutto affanno, guerra. Le potenze infernali ci muovono costantemente battaglia in molti modi diversi ed in innumerevoli circostanze differenti, e questo per guadagnarsi la nostra rovina ed il nostro distacco eterno da Dio. Dovremmo parlarne ogni giorno, per non scordarcelo mai. Invece si fa l’esatto contrario, ed è così che si diffonde l’idea che la vita debba essere costantemente piacevole e che le difficoltà siano da estirpare alla radice, e non piuttosto da vivere in Cristo per la nostra santificazione.

In questo contesto, nemmeno la morte viene più presa sul serio. Sembra quasi che l’Inferno quale estrema conseguenza del peccato e massima espressione tragica del libero arbitrio abbia cessato di esistere nella predicazione di tanti preti, a discapito della salute di molte anime.

Ad ogni modo, è ovvio che nessun cristiano può ignorare la promessa fatta dal Signore Gesù Cristo e che leggiamo alla fine del vangelo di Matteo: Egli sarà con noi fino alla fine del mondo. Per fede sappiamo che la Chiesa non può finire, per quanto sia estesa e buia la sua crisi.

 

Quali sono secondo lei le più grandi contraddizioni del nostro tempo che solo la fede può risolvere?

È una domanda molto bella e gigantesca, pertanto la risposta non potrà che essere parziale. Io credo che l’uomo, privato della fede, e ancor più mutilato nella sua dimensione spirituale (negata oggi dalla mentalità dominante), si ritrovi disorientato e nudo di fronte ai baratri della vita, ovvero quei momenti nei quali il quotidiano collassa su se stesso e ci si accorge più facilmente dello spessore della nostra esistenza. Corriamo sempre il rischio di ridurre il quotidiano a banalità: così non è. Intravedere e leggere in ogni cosa la presenza di Dio polverizzerebbe l’insensatezza nella quale la concezione occidentale della vita sta sprofondando a causa dell’assenza di Dio nella società. Questa forse è, a mio avviso, la più grande contraddizione: l’impegno profuso per costruire qualche cosa nella mancanza di un senso oggettivo e trascendente, con la prospettiva di un annullamento totale di ogni slancio ed azione nel vuoto annientatore della morte. Che senso avrebbe quindi prodigarsi nel rincorrere un successo sfrenato, costruire un’immagine di sé piena di mondanità, ricercare il divertimento perpetuo e fine a se stesso? Ma allo stesso modo, che senso avrebbe impegnarsi a costruire una famiglia, relazioni di senso, stabilità ed equilibrio? Che senso avrebbe la ricerca, sia essa scientifica o filosofica? A che pro lasciare un’impronta nella storia, quando questa non diventa che una scatola chiusa, una grande prigione che non lascia sperare in prospettive ulteriori?

Con l’estromissione di Dio dalla vita dell’uomo, quest’ultima diventa un giochino senza valore che tentiamo disperatamente di imbastire ed adornare, pretendendo di conferirle un senso che possa sussistere in qualche modo. E come potrebbe? Noi siamo mortali, limitati nello spazio e nel tempo, finiti, corruttibili. Ogni cosa che tentiamo di creare da noi stessi ha le medesime nostre fattezze, ed ogni senso che possiamo provare ad approntare, se slegato da Dio, non sarà che un angosciante tentativo di scaricarci del peso insostenibile di un’esistenza che ha così perso direzione e consistenza propria, divenuta soltanto cieco ripetersi di giornate fini a loro stesse, di gesti e pensieri fini a loro stessi, intrappolati in questo vortice di vuoto che proviamo invano a riempire. Questo è il nichilismo che oggi ci divora, e l’aspetto peggiore è che, in larga parte, esso sta diventando sempre più meccanismo inconsapevole. Non è più una scelta oppositiva attiva ai valori diffusi come poteva esserlo una volta, ma è assurto ormai ad atteggiamento dominante nell’Occidente contemporaneo. Nietzsche non sbagliò nel suo ammonimento: ciò che andava dicendo non era che la “profezia” sui due secoli che sarebbero seguiti.

Perciò l’ateismo propositivo che oggi viviamo e vediamo diffuso in ogni dove è pura follia ed incoerenza. È fondamentale che il cristiano segnali le anomalie del presente, che renda onore al suo compito profetico nella società.

 

Lei insegna religione, quali sono le domande che le fanno più spesso e qualcuna l’ha messa in difficoltà?

L’interrogativo che mi è stato posto in ogni classe, trasversalmente a ciascuno dei cinque anni delle superiori nei tre istituti in cui insegno, è stato: «Perché insegna religione? Perché crede?». L’idea che un ventisettenne possa interessarsi a tal punto del fatto religioso da studiarlo e farne un lavoro incuriosisce molto i ragazzi, abituati come sono perlopiù all’assenza completa dell’aspetto spirituale nell’ambiente in cui vivono.

Le domande che tornano più frequentemente si possono ascrivere a due categorie diverse: quelle etiche e quelle metafisiche. Per ciò che concerne quelle etiche, i temi che tornano di più sono naturalmente quelli che impegnano odiernamente le discussioni politiche e bioetiche maggiormente diffuse: aborto, eutanasia, diritti civili.

Quelle di stampo metafisico riguardano invece l’onnipotenza e l’onniscienza di Dio: come fa un Dio onnisciente e che può tutto a non frantumare la libertà umana? Una questione molto dibattuta anche a livello filosofico, nell’ambito della teologia razionale.

Personalmente, la domanda che mi mette sempre in difficoltà, emotivamente parlando, è quella sulla sofferenza innocente. Perché Dio permette che l’innocente patisca a volte anche in maniera intensa? In particolare i bambini. È un interrogativo straziante, che colpisce sempre con potenza; di fronte al dolore dell’indifeso, che stravolge l’animo umano, spesso mi ritrovo a balbettare e a far fatica, perché metterci bocca significa toccare corde delicatissime. Il timore non sta tanto nella possibile reazione dell’interlocutore, quanto nell’idea di poter mancare di rispetto, di essere indiscreti o di essere non volutamente irrispettosi verso qualcosa di così abissale.

 

Non esiste nessuna religione come il Cristianesimo che stimi il corpo, eppure alcuni affermano ancora oggi che il cristianesimo, fondato sull’incarnazione, disprezza la carne. Tale convinzione può essere dovuta all’influenza esercitata da Sant’Agostino, che recuperò Platone, piuttosto che da San Tommaso d’Aquino?

Indubbiamente, se una radice ha da ricercarsi in questa storpiatura, essa si troverà nell’impianto platonico assunto da sant’Agostino e nella corrente da lui scaturita. Non che sant’Agostino condividesse acriticamente le conclusioni antropologiche sul corpo proprie di platonismo e neoplatonismo; semplicemente, questo Dottore della Chiesa ne utilizzava il linguaggio e gli strumenti filosofici, cercando di adattarli al dato cristiano. Una lettura attenta delle opere di sant’Agostino è più che sufficiente a sciogliere ogni fraintendimento.

San Tommaso d’Aquino, avendo saputo raccogliere il meglio delle filosofie aristotelica e platonica per metterlo a servizio del dato di fede cristiano, non avrebbe mai potuto disprezzare il corpo, come invece è potuto avvenire quando l’influsso platonico ha potuto prendere il sopravvento sulla riflessione teologica lungo la storia.

Forse sbaglio io, forse sono io a non avere una visione globale della questione per com’è affrontata da questo o quell’autore in particolare, ma non credo che tale convinzione sia da ascriversi a sant’Agostino o a qualche altro Dottore della Chiesa; credo che essa discenda piuttosto da una lettura superficiale ed una comprensione parziale dei loro scritti, e nello specifico di quelli agostiniani.

I problemi nascono quando i teologi amano più la loro creazione speculativa (ed i suoi specifici strumenti filosofici) piuttosto che l’integrità del dato di fede scaturito dalla Rivelazione. In questo senso, potremmo dire che la tendenza al disprezzo del corpo nasce in una ricerca teologica degradata, che si è lasciata sopraffare dalle categorie filosofiche che andava utilizzando di volta in volta per approcciarsi in maniera rigorosa e razionale ai suddetti dati di fede.

È verissimo: il Cristianesimo stima il corpo, e ciò è dimostrato non solo dal fatto che il Signore Dio nel libro della Genesi afferma che l’essere umano è creazione “molto buona”, ma anche e soprattutto a motivo dell’Incarnazione (come segnalato già nella domanda) e della Risurrezione, che comprende anche il corpo, pur trasfigurato. La prospettiva di un Dio che assume la corporeità umana spazza via qualsiasi idea di disprezzo del corpo in sé. Il cristiano, piuttosto, del corpo disprezza le conseguenze della ferita del peccato originale: la concupiscenza, gli appetiti bassi, le tensioni disordinate.

Tertulliano scriveva che la carne è il cardine della salvezza. Qualsiasi tentazione tesa a svalutare il corpo in sé non può e non deve trovare spazio in qualsiasi teologia che voglia essere pienamente cristiana.

Davide Brullo, scrittore viscerale, tra visioni, Bibbia, mistificazione, letteratura russa e crudeltà

Lo scrittore e giornalista milanese Davide Brullo, classe 1979, possiede oltre a una grande sensibilità e lucidità critica, una fede autentica nella parola e in Dio e una cultura “anarchica”. Le icone sacre hanno un effetto magnetico su di lui, magnetismo che trasferisce nei suoi libri, insieme ad profondo conoscenza dei testi sacri e della patristica. Ma la poetica di Brullo, che non ama dirsi fedele a Dio perché troppo imperfetto, coltivando in questo modo l’illusione di una maggiore intimità del sacro, non è tutta qui. Nelle sue opere letterarie scorrono sangue e passione che danno potenza a visioni, immagini, icone e si respira un’atmosfera nera, nefasta, che avvolge il lettore che vuole avventurarsi in una storia crudele ma intellettualmente onesta pur nella sua finzione e artificio, perché ormai allo scrittore contemporaneo non resta che gareggiare con la realtà come dimostrano i libri Pseudo-Paolo. Lettera di san Paolo apostolo a san Pietro, Un alfabeto nella neve, I Salmi, Rinuncio. La penna di Brullo è una lama onestissima e affilata che affonda nella carne e nello spirito dell’uomo e affonda le proprie radici nella Bibbia e nella letteratura russa, soprattutto quella mistica di Dostojevskij, con buona pace di Nabokov che definisce “un elegante spaccone” inabissandosi nella parola, alla quale è devoto.

La scrittura di Brullo ha in sé qualcosa di eterno, di apocalittico, di falso a fin di bene, perché ha a che fare con i ricordi e con il perdono di Dio, che pur tentando di confondere e turbare il lettore, cerca di dare delle risposte, anche se non sono consolanti. In lui convivono pars costruens e in più larga misura pars destruens, rose e letame. L’inquietudine e l’aggressività retorico-mistica dello scrittore che trasferisce nelle proprie pagine, diventa simbolismo di un linguaggio che cerca e ragiona su se stesso attraverso metafore opposte che mettono in piedi una letteratura che sia urla, ululati, silenzi, affronti, stimmate, angeli (tremendi) e creature sublimi, e che soprattutto ci dice che si scrive per uccidere il passato, sgravare il peso dei ricordi che ci fanno soffrire, ma proprio nella privazione di una gioia, di una persona, nell’innaturalezza, si può creare uno spazio metafisico dove amare e persino accettare l’assenza come riparazione e dimostrazione di coraggio. Proponendo questo, Brullo sfida il lettore a misurarsi con la propria ombra, perché l’ombra è qualcuno.

“Ogni ritorno è un indizio di morte. Si ha voglia di incontrare chi abbiamo amato molti anni prima per capire qualcosa di noi che ora è perduto. Per questo, ogni ritorno è una sconfitta – le origini esistono perché abbiamo la forza, confusa e viziata, di allontanarcene. Quando non si ha più la costanza di penetrare lo sconosciuto per tornare sui propri passi, per abitare nella casa bruciata dalla memoria, si è morti – vivi come una candela che delizia la volontà dei morti”.

 

1 Cos’è per lei la Letteratura? In Italia si fa Letteratura oggi?

La letteratura è indipendente dai letterati: non si fa, avviene, lungo le volute dei millenni. Poi sfiaterà, come un sibilo – spesso immagino le lettere come conchiglie, come figure vive, come linci. Dentro questo bestiario, bestia pure lui, si muove lo scrittore. Oggi siamo in un tempo, mi pare, in cui per trovare una parola pienamente umana, occorre espirare l’uomo – delegare il verbo al ringhio. Cosa sia questo, mi è ignoto.

2 Quali sono secondo Lei, i libri imprescindibili, a parte la Bibbia?

Facile filare un canone che da Isaia proceda per la follia di Lear, la camminata del viandante stellare, Dante, la gita sul dorso del capodoglio bianco. Agli imprescindibili, ormai, preferisco i nascosti: libri remoti, che appaiono come una stellata, inattesi. Parole, forse, innecessarie, ma che turbano come aghi di fuoco negli occhi. A volte un ignoto eremita irlandese o uno storico di Bisanzio mi sembrano illuminati. Altre, torno a Saint-John Perse, a Rilke, a Dylan Thomas come si sta su una casa sospesa sui rami.

3 L’Occidente è veramente povero di valori, vicino al collasso, o la trova una lettura superficiale che sta diventando un motto infantile? C’è qualcosa di Vero e sacro nel senso cristiano del termine che pulsa nell’epoca che stiamo vivendo?

Siamo nati nell’era del Dio morto, moribondo, decapitato – non possiamo fare altro. Penetriamo nel cadavere di un dio. Dell’Occidente non so nulla e nulla so di valore e di valuta. So che mi scopro a inginocchiarmi davanti all’icona di una Madre o di un Figlio, con un magnetismo che non oso dire fede, in chiese, fortunatamente, vuote, ed è come stare sott’acqua, nella sottana del silenzio, affogando.

4 Cos’è la parola, come può rinnovarsi nel tempo?

Da poco ho scoperto – mi è stato detto – che “Brullo” è un verbo greco, raro, testimoniato soltanto ne I cavalieri di Aristofane. Significa “fare bru (come i bambini che chiedono da bere)”. Eccola, la parola! Bru, bru, bru. Chiedere da bere.

5 Nabokov non nutriva simpatia per Dostojevkij,, in quanto lo considerava scrittore di idee. Non trova che la concezione della letteratura dell’autore di Lolita sia alquanto inconclusa. Non bisognerebbe contrastare le ideologie, le generalizzazioni finendo per estremizzate il valore autonomo di un libro?

A Nabokov era permesso dire qualsiasi cosa: è corroborante leggere come disseziona, con aggraziato cinismo, i grandi o presunti tali. Insegna ad affilare la mente, a essere, finalmente, crudeli. D’altronde, i libri sono lì per farne macelleria. Tuttavia io preferisco di gran lunga Dostojevkij.

6 Secondo lei può essere “compito” dello scrittore per i cosiddetti “lettori forti” saper coinvolgere anche il cattivo lettore, di cui Nabokov è nemico o chi fa parte degli eletti deve solo lodarsi delle proprie buone riuscite, in virtù del fatto che la letteratura è un’arte spuria?

L’unico compito dello scrittore – se vogliamo usare una parola simile, legata al calcolo – è scrivere un’opera come si forgia una sedia. Come può, con anomala dedizione, fino a spaccarsi le dita, che altri, eventualmente, rappezzeranno. Il resto, il lettore, chi si siede sulla sedia, non è affar suo.

7 Quanto è importante secondo lei considerare i fattori extra testuali ai fini di una migliore comprensione dell’opera letteraria? Quanto conta l’empatia per lo scrittore?

Bisognerebbe capire di cosa è specchio l’opera. Che fa lo scrittore, scrivendo? Si pugnala la faccia, si fa mostro, o la trucca, dà di sé una immagine di esagerato splendore? In ogni caso, lo scrittore è uno che mente – e un mentitore non è una buona persona. D’altra parte, apprezzo la certezza di Nicola Crocetti, l’editore, per cui un grande poeta è anche un grande uomo. Amo la grande poesia; e i grandi uomini. Ma non saprei riempire di senso l’aggettivo “grande”.

8 «Nessun artista tollera il reale», diceva Nietzsche. Tuttavia nessun artista può fare a meno del reale. Lei come la pensa?

Il reale è intollerabile, perché è reale solo ciò che sembra non esserlo. Cos’è la realtà? L’evidenza delle cose? La loro ombra? L’avvenuto? L’avvenire? La combinazione del caos con la provvidenza? Quando crea, lo scrittore combatte il mondo, trama oro nella sua agonia.

9 Chi sono i più grandi ribelli della letteratura?

Beh, ogni scrittore è ribelle: si ribella alle norme della grammatica, all’egida del vocabolario. Si ribella all’evidenza, alla storia, a se stesso, all’uomo. Il retro di una scrittura pacificata è l’assassinio di sé. Per il resto, una “vita da romanzo” è altro da un grande romanzo.

10 Lei crede di confondere o di dare delle risposte a chi la legge?

Il privilegio della letteratura è che è il solo spazio concesso in cui non c’è nulla da capire, da spiegare, da risolvere: è come passeggiare di notte inseguendo una litania ignota. Forse cadremo in un burrone, entreremo in mare, saremo accerchiati dalle iene. Ma è bello stare in quel ritmo.

11 Al centro del suo romanzo Un alfabeto della neve, lei mette al centro il prezioso carteggio tra Pasternack e Marina Cvetaeva, amanti a distanza, dimostrando di essere un abilissimo mistificatore, facendo resuscitare testi, scoprendo documenti inediti o inventandoseli, mentre scandaglia l’animo degli artisti. Questo perché ormai non è rimasto altro a chi vuole scrivere seriamente, che non gareggiare con la realtà? E quanto le piace appropriarsi persino nell’animo di uno scrittore e perché?

Infine, quella scrittura è un sudario sul volto di alcuni spettri. La mistificazione è la formula necessaria per fissare la folgore del vero. In particolare, il libro cui accenna fa parte di un ciclo, dedicato al tradimento. In qualche modo, si opera cancellando un testo, per rivelare la ferita originaria, l’alfabeto ulteriore.

12 Perché l’autore del Dottor Zivago non ha avuto fortuna in Russia?

In verità, Boris Pasternak è stato il poeta più eminente del suo tempo. Per un gioco del caso – e la macchinazione di alcuni – proprio lui, un estraneo, uno che come i re camminava senza fare rumore nella foresta, ha avuto la parte del simbolo. Ne è morto – diventando immortale.

13 L’arte deve essere intransigente verso la Storia? Deve stravolgerla in qualche modo?

L’arte è impotente – e in questa impotenza è la sua forza. Un governo degli artisti sarebbe affascinante per eccesso di terrore, di capriccio. Ghigliottine con deliziosi sonetti incisi sulla lama. L’artista, piuttosto, è una sentinella nella notte: richiama l’alba, la prende per la coda come fosse un varano.

14 Anche in Pseudo-Paolo. Lettera di san Paolo apostolo a san Pietro, Lei inventa una falsa lettera di San Paolo a Pietro, come nasce questa idea di intrufolarsi anche nella tradizione cristiana per provare a costruire una nuova teologia?

L’esperimento è narrativo, di teologia non mi curo. Ho la Città di Dio sul comodino: leggo con rispetto, divertimento, timore. Da ragazzo, ho avuto la sorte di laurearmi in Letteratura cristiana antica. Ho fatto una tesi sulle “lingue degli angeli”, certo di poterle praticare. Mio padre è morto con una Bibbia sul tavolo della cucina, aperta su un Salmo che non ricordo, forse il 16, amato tanto da Paul Celan, eppure non salvifico. La traduzione di quella Bibbia era valdese. Da lì discende il mio libro.

16 Lei ha detto che “Maradona è l’imperatore che ha reso il calcio un culto, specie di Eliogabalo, di Dioniso sdraiato sulla tigre”. Il calcio di Maradona può essere paragonato alla poesia, all’arte o è un azzardo, un’eresia, in quanto l’arte è materia Alta, il calcio solo un divertimento intorno al quale girano molti soldi, secondo molti?

Il gesto sportivo, torsione sopraffina, è arte – e l’arte, in verità, è alta per difetto di bassezza, per amore del sottosuolo e dell’informe. La poesia di Pindaro s’incarna nella competizione sportiva perché lì, a dispetto della statistica, accade il sacro, si scopre la natura dell’uomo, il favore del dio. Lo stadio di Olimpia è una basilica, vive del respiro di Delfi. Il dio, però, accenna e vive l’istante: così l’atto sportivo vive il transitorio, bava d’oro sull’argine del caos. Maradona è morto; Rilke è ancora qui.

17 Cosa pensa di una delle parole più usate del momento, ovvero del femminicidio? Non la trova una cacofonia, e perché non si parla semplicemente di omicidio? Perché si dovrebbe considerare il femminicidio più grave rispetto all’assassinio di un uomo, quando le violenze più efferate riguardano i bambini, gli anziani e i disabili? Non sarebbe più opportuno interrogarci sulla natura della violenza che appartiene ad entrambi i sessi e sul perché non la si riesce a controllare, sul possesso, sulla gelosia, sulla fragilità umana? Non si instaura così con le manifestazioni e slogan banali, una guerra tra uomini e donne?

Mi piace scoscendere nel vocabolario, tra parole che non comprendo e lingue che mi suonano ostili. Il linguaggio di questa parte di mondo non lo capisco più: eppure, gli uomini sono ancora di carne, non hanno frisbee di metallo sul cranio. È strano: faccio il giornalista e sul “femminicidio” dovrei dire qualcosa di alto rispetto all’orrore che traduce quella parola. So, ad esempio, che una stanza può chiudersi sul corpo della vittima come un pugno, che le relazioni umane, troppo spesso, sono un inghiottitoio, un buio a uncini, il cupo rimbombo del pianto, il corpo massacrato. Le lacrime possono essere rasoi. Anche le famiglie, a volte, sono un incubo. A volte, bisogna liberarsi perfino della propria ‘umanità’. Ma sono uno che passa in punta di piedi tra i ruderi di questo tempo, affascinante, per molti versi, perché si sente l’odore di aspirazioni definitive e terribili. Leggo le nuvole, armo una disciplina, cerco di non fare del male al prossimo – ma pare inevitabile. Rincorro il tremendo.

 

 

Matt M. Relox: dalle Filippine con amore, per l’arte italiana

Matt M. Relox è un artista nativo delle Filippine, sui generis, devoto a Dio, all’arte italiana e alla sua perseveranza e passione per l’arte, nata quando era un ancora un bambino e disegnava con una foglia di banana. Ora dipinge soggetti che incutono tenerezza e amore avvalendosi di uno stile tra il propagandistico e l’immaginario retrò per un’estetica che incuriosisce chi osserva le sue opere. Opere che trasudano ironia ma anche speranza per un mondo confuso e amorale, in cui l’arte spesso sembra essere dissacrante e mistificatrice, al servizio del cattivo gusto e del culto dell’individualismo gonfiato dal mercato dell’arte contemporanea. Ma dire che la globalizzazione stia appiattendo tutto e che la tradizione sia scomparsa è una menzogna: i figli nati dalla reinterpretazione di questi due poli possono essere molto interessanti, proprio perché calpestano un limbo, una soglia indefinibile in cui può succedere di tutto.

Probabilmente questo lo pensa anche Matt. M. Relox che di certo non è, per anagrafe, uno dei figli di queste due istanze ma che certamente ama la Tradizione e fa arte per contemplare Dio, praticando il potere dello Spirito per onorarlo. Nel percorso artistico di Relox è rilevante il fattore religioso, tenendo conto che le Filippine, la cui cultura nasce dalla mescolanza delle influenze straniere con gli elementi indigeni, sono l’unico paese asiatico a maggioranza cristiana, sebbene non mancano comunque importanti minoranze musulmane.

La cifra stilistica di Relox è racchiusa nella delicatezza e la tenerezza (come si vede dalle opere Echo park in the heart of Los Angeles, How to fly the kite e Waiting for the date) un uso soft del colore per raccontare scene di vita quotidiana e luoghi ai quali l’artista è legato: inchiostro, pastello ad acquerello, pittura ad olio e acrilico. La soddisfazione del risultato ottenuto porta l’artista filippino a praticare tratti e colori tradizionali per avvalersi di colori più brillanti su tratti sottili, utilizzando anche il cross hatching sulla penna ad inchiostro.

Matt. M. Relox è stato insignito del Gawad America Award night al Celebrity Center Hollywood nel 2019.

The port of success Medium oil on canvas

 

Quando ha iniziato a dipingere?
Ricordo ero un ragazzino, ho iniziato a interessarmi all’arte tramite mio padre. Mio padre mi mostrò come disegnare una testa maschile e una spalla, in posizione laterale. Mi catturò quel momento, attirò il mio interesse mentre mio padre cantava interpretando le forme fedeli al testo della canzone fino a quando non smise di cantare proprio mentre il disegno era finito. Sfortunatamente non ricordo la canzone. A quel punto nessuno poteva impedirmi di disegnare ogni volta che volevo; vivevamo in fattoria per la maggior parte del tempo, quindi non avevamo alcun materiale artistico per disegnare sulla carta e nemmeno una matita. Quindi usavo una foglia di banana. Su un lato della foglia c’è una superficie bianca su cui puoi disegnare usando un qualsiasi oggetto appuntito. A volte facevo un disegno nel terreno, o sul muro usando un pezzo di legno bruciato (alla fine del bastone c’è del carbone naturale), da allora non sono ancora riuscito a capire dove quel sogno ha intenzione di condurmi.

Come definirebbe la sua arte?
Definisco le mia arte come l’apprezzamento per Dio e per la sua stessa gloria. Il Dio che ha creato il mondo intero, ha creato l’incredibile bellezza dell’essere umano, la bellezza interiore che possiamo sentire e testimoniare, la sua grandezza, i colori dell’universo, le forme che possiamo vedere intorno a noi. La bellezza degli animali, non c’è dubbio che questa sia la ragione ultima per me per dipingere ogni volta la sua grande creazione. Le persone cambiano, e il cambiamento sembra essere un danno per la gente, i fiumi e anche l’oceano. Nella mia arte, almeno, posso provare a preservare questa verità sulla tela per i benefici delle generazioni successive.

Ci sono artisti a cui sei particolarmente ispirato?
Non posso negare di essere stato influenzato dal principale nostro artista locale delle Filippine, conosco già i grandi maestri italiani Michelangelo, Leonardo. Vedevo i loro dipinti famosi nei calendari della Cappella Sistina, anche il capolavoro La Gioconda di Leonardo; a quel tempo non avevo idea degli artisti locali, della loro pittura realistica, il tocco di questo artista mi ha guidato e ogni volta che dipingo mi ispiro a lui e anche alle opere dei suddetti maestri.

Che valore ha l’arte in Oriente e specialmente nelle Filippine?
Un aspetto molto importante è la ricerca di spiritualità: se l’asciugamano dato da Veronica per asciugare il sudore del Messia fosse stato perso, i cristiani non avrebbero idea del suo aspetto. È in noi, una fede che potrebbe spostare una montagna. Nelle Filippine le persone sono consapevoli di avere un talento nell’arte equivalente, ai maestri in Europa, che le mette sul loro stesso piano. Dipingere è un dono molto prezioso perché è l’unica capacità universale di creare qualcosa dal nulla.

La religione delle Filippine è multicolore, a quale si sente di appartenere di più?
Dal punto di vista religioso gli abitanti delle Filippine si suddividono in cattolici cristiani, evangelici e musulmani. Appartengo alla razza marrone come gli apostoli e i profeti che furono chiamati per la prima volta Cristiani ad Antiochia.

L’esperienza che le ha dato maggior soddisfazione?
Provo molta soddisfazione quando qualcuno apprezza i miei lavori e li riconosce. Mi allevia dalle fatiche di essere un artista. È stata per esempio una grande sensazione trovare un critico d’arte come te.

La tenerezza e la serenità sembrano essere impresse sui volti dei suoi protagonisti. Le piace vedere l’umanità in questo modo?
La tenerezza dovrebbe essere coltivata da tutti, ogni singola persona dovrebbe farlo. Si può concordare sulla tua impressione riguardo i volti dei miei personaggi in quanto ognuno di noi ha un’idea di cosa possa intendere l’altro anche quando dipinge e di solito immagina di vedere dallo spazio la terra come un organismo pacifico e calmo dove non c’è conflitto. Moltiplica per il numero di persone che la pensano in questo modo, esse possono influenzare con il pensiero il loro prossimo.

Cosa ne pensa dell’arte americana contemporanea, in virtù del fatto che lei vive negli Stati Uniti?
La mia interazione di spiriti con le arti contemporanee americane mi aiuta a diventare più forte praticando il potere dello spirito dell’artista che appartiene a tutti, a tutti gli artisti, indipendentemente da dove ci troviamo sulla terra. Nella creazione siamo stati creati secondo la Sua immagine, nel senso che se il Dio è il grande creatore, allora abbiamo il potere e l’abilità, l’eredità artistica nello spirito. L’unica differenza ora tra lui e noi è che stiamo creando cose da cose che ha già creato.

Sogni da realizzare?
Sogno di essere conosciuto come artista. Ma so che per poter varcare la porta del successo ho bisogno di mecenati.

 

Fonte

Matt M. Relox: from the Philippines with love for Italian art

Letteratura e religione: Dio nella letteratura di Steinbeck e Benson

Robert Hugh Benson e John Steinbeck: due personalità opposte da mettere a confronto, due visioni completamente contrastanti riguardo il pensiero religioso e Dio. John Steinbeck è ancora oggi uno dei più apprezzati e letti scrittori vissuti nel Novecento, mentre Benson è stata una figura curiosa, scrittore e pastore anglicano, figlio dell’arcivescovo di Canterbury.

Il pastore Benson abbraccia inizialmente la fede anglicana, ma un viaggio in Oriente gli permetterà di rendersi conto della vera natura della sua religione: comprende che la Chiesa anglicana, legata a interessi nazionalistici, non aveva nulla di universale. Al contrario capisce che la Chiesa di Roma si erge al di sopra di tutte le altre, predicando la civiltà a tutti i popoli. Andando avanti nei suoi studi, in Benson affioravano sempre più contrasti intimi: da un lato (come egli stesso scriverà nelle sue omelie e lettere) sentiva richiamarsi dalla Chiesa Anglicana per “accenti patetici e affettuosi”, lo avvinceva “con tutti i legami della parentela e dell’amicizia”, ma dall’altro affermava ormai che non poteva “più dubitare fosse la vera sposa di Cristo, imperiosa e dominante, avvolta in un raggio di luce abbagliante”.

In The Lord of The World , pubblicato nel 1907, lo scrittore  presbitero inglese si preoccupa di tirare le fila delle sue teorie, di renderle fruibili presso un pubblico più vasto. È il romanzo con cui Benson si propone di mettere in guardia tutti gli uomini: la la religione cattolica sta iniziando ad essere scalfita con una altra religione: la religione del benessere, molto più rassicurante delle parole di Dio, ma che non è nutrimento per l’anima, bensì per il corpo, per l’effimero. Un romanzo ucronico su di un mondo dominato dal Partito Comunista (salito al potere sempre nel 1927) in cui l’estremo progresso del pensiero (oltre che della tecnologia) vuole assicurare la nuova ideologia della felicità tramite la completa soddisfazione dei sensi, dell’Uomo. Benson traccia le linee quindi di un cristianesimo relegato ai margini, che non conta quasi più. Nel corso della narrazione il punto di svolta sarà affidato alla comparsa di Giuliano Felsemburg, trentatré anni (ovviamente non una coincidenza) che scioglierà la difficile tensione nata tra Occidente e Oriente, prossimi alla guerra.

Abilissimo nella diplomazia, Felsemburgh salva l’umanità dalla prossima e definitiva “guerra delle guerre”: grazie a lui non ci saranno più violenze, niente più guerre. Felsenburg quindi viene eletto Presidente d’Europa: a tutti gli effetti appare come il nuovo Gesù. Il nuovo “salvatore” del mondo propugna una “grande fratellanza universale”, attraverso il nuovo culto dellospirito del mondo”. Ora il mondo crede a un Dio che non resta nascosto, che non è morto, ma bensì vivo, che ha salvato le genti e vuole per tutti gli uomini felicità e fratellanza. Il soprannaturale quindi muore, l’umanità tutta deve affidarsi al suo nuovo profeta in carne e ossa. Viene poi il momento dello scontro finale, con la comparsa di padre Franklin, che, una volta diventato Papa di un cattolicesimo vittima di dolorose persecuzioni, affronterà l’anti Cristo Felsemburg nella vera battaglia finale.

Secondo gran parte della critica The Lord of the World è stato scritto da Benson per glorificare la Chiesa di Roma, per ammonire sui tempi moderni e sullo smarrimento della coscienza a cui l’uomo moderno va in contro. L’anti Cristo di Benson trionfa in terra, ma verrà sconfitto e sarà condannato per l’eternità: il suo regno infatti era tutto quello che si contava nel mondo terreno. Padre Franklin, l’ultimo papa, è l’ultimo avamposto del cattolicesimo, che alla fine vince proprio perché non crede nella religione del benessere di Felsemburg, per cui, in fin dei conti, si muore con il corpo: il cattolicesimo superstite di Franklin invece assicura l’immortalità dell’anima.

L’uomo al centro di tutto: nel mondo immaginato da Benson la carità non ha più valore, l’umanità vive abbacinata da un materialismo e un socialismo estremo. Si deve essere tutti felici e tutti fratelli, senza più guerre, l’uomo deve preoccuparsi del qui e ora. Per contrasto, quindi, in The Lord of the World, Benson vuole ribadire che al centro di tutto non c’è l’uomo, ma Dio, e che solo grazie al suo amore l’uomo potrà elevarsi dalla misera condizione terrena, potrà distogliere lo sguardo da se stesso e puntarlo verso il cielo, verso la salvezza dell’anima.

Per quanto riguarda Steinbeck invece, la vita non è stata per niente caratterizzata dalla religione né dal rapporto con Dio: cronista di guerra durante la seconda guerra mondiale, ha sempre, nelle sue importanti opere, privilegiato il realismo, la cronaca e i contorni nitidi della realtà del tempo in cui è vissuto. Nel 1962 gli viene assegnato il Nobel per la letteratura proprio per “Per le sue scritture realistiche ed immaginative, unendo l’umore sensibile e la percezione sociale acuta”; lo scrittore americano è ritenuto uno degli esponenti di quella “generazione perduta” indicata da Hemingway e Stein, quella generazione di giovani scrittori che ha prestato servizio nella guerra. Steinbeck rivolge la sua attenzione soprattutto verso l’America delle contraddizioni, delle lotte per la sopravvivenza quotidiana, ovvero quei temi che meglio sono supportati dalla sua scrittura realista e quasi da giornalista.

To a God Unknown, pubblicato nel 1933 e tradotto da Montale, è una delle sue opere meno conosciute, forse la sua opera più misticheggiante: è la storia di, Joseph Wayne, che lascia la vecchia fattoria del Vermont per traversare l’America e stabilirsi insieme ai fratelli in una fertile vallata della California. Le vicende della famiglia, anche dolorose, fanno da costante sfondo all’idea panteistica della natura, dell’appartenenza alla madre terra. Una terra che può essere la fonte di gioie o di sofferenze, che può dare la vita o la morte, che può essere crudele o compassionevole. Una forza impalpabile, ineffabile, diafana, inafferrabile, che si attualizza nei frutti della terra: è la forza di un Dio sconosciuto che rende tutto questo possibile? Che rende la terra capace di provvedere all’uomo? Steinbeck se lo domanda, anzi ci induce a questa domanda, ci trasporta in questo strano e ineffabile pensiero durante tutta la narrazione, grazie ai suoi personaggi. Joseph poserà il suo agognato figlio appena nato tra i rami più bassi della sua quercia, per devozione alla forza misteriosa che domina quei luoghi e che ne permette la vita: l’albero verrà poi ucciso da Burton, fervido credente in Dio, nel tentativo di distruggere tutto ciò che il suo Dio, invece, condanna. Dopo ciò sulla fattoria di Joseph si abbatterà una pesante siccità, portatrice di morte: la giusta punizione del Dio sconosciuto per averlo oltraggiato? Ma esiste un Dio? Un Dio nascosto tra le pieghe della natura?

 

 

“La Buona Novella”: Il Vangelo secondo De Andrè

Dal Vangelo secondo Fabrizio De André, “La Buona novella”.Si potrebbe affermare senza paura di essere smentiti, che, per complessità del tema trattato, per la profondità delle parole usate e per la bellezza delle musiche composte, siamo di fronte all’album più bello ed importante della storia della musica italiana. “La Buona Novella”, datato 1970, è un’allegoria, un concept-album difficile, ambizioso, maestoso ma anche incredibilmente poetico e commovente. D’altronde non è mai facile parlare di Dio ( altri artisti come Mick Jegger, Renato Zero, Franco Battiato, Francesco Guccini, I Nomadi ne hanno parlato nelle loro canzoni), di fede e di religione senza scadere nella banalità, nel cattivo gusto o peggio, nell’offendere qualcuno. Per ovviare a questo spinoso problema Fabrizio De Andrè sceglie un punto di vista atipico, singolare. Sceglie di mostrare il lato umano di figure da sempre dotate di una forte carica spirituale quali il Cristo, la Vergine Maria, San Giuseppe e i due ladroni. Ma il lato umano di tali personaggi non è certo rintracciabile nei quattro Vangeli Canonici, va cercato altrove ed il buon Faber lo trova nei testi “maledetti” dalla Chiesa, nei libri messi “all’Indice”, nel lato oscuro della cristianità, i cosiddetti Vangeli Apocrifi. Molti di voi si chiederanno cosa sono i Vangeli Apocrifi. Sono, molto semplicemente, quei testi risalenti all’epoca di Cristo che non sono riconosciuti dal Vaticano perché tendenti a descrivere eventi quali la Natività, la Passione e la Resurrezione in maniera molto più “terrena” e molto meno “divina”. Lo stesso De André ha ammesso:

« Quando scrissi “La buona novella” era il 1969. Si era quindi in piena rivolta studentesca; e le persone meno attente – che poi sono sempre la maggioranza di noi -: compagni, amici, coetanei, consideravano quel disco come anacronistico. Mi dicevano: “cosa stai a raccontare della predicazione di Cristo, che noi stiamo sbattendoci perché non ci buttino il libretto nelle gambe con scritto sopra sedici; noi facciamo a botte per cercare di difenderci dall’autoritarismo del potere, dagli abusi, dai soprusi.” …. Non avevano capito – almeno la parte meno attenta di loro, la maggioranza – che La Buona Novella è un’allegoria. Paragonavo le istanze migliori e più ragionevoli del movimento sessantottino, cui io stesso ho partecipato, con quelle, molto più vaste spiritualmente, di un uomo di 1968 anni prima, che proprio per contrastare gli abusi del potere, i soprusi dell’autorità si era fatto inchiodare su una croce, in nome di una fratellanza e di un egualitarismo universali. »

In dieci magnifiche canzoni, introdotte da una maestosa Laudate Dominum, si snoda la vicenda della vita di Gesù dalla nascita fino alla morte sul Golgota. Si parte dall’Infanzia di Maria, il cui titolo dice tutto, ed attraverso il Ritorno di Giuseppe fino alla poeticissima il Sogno di Maria si affronta il tema dell’Annunciazione, del matrimonio combinato e della gravidanza inaspettata (in fondo Maria è una ragazza/madre). La Natività vera e propria è affidata alla splendida e pseudo/femminista (specie nel verso “Femmine un giorno e poi madri per sempre/ Nella stagione che stagioni non sente”) Ave Maria in cui la poetica di De Andrè tocca vertici incredibili legandosi a meraviglia con le note concepite da Giampiero Reverberi. Il lato B tratta della Passione e si apre con la terribile Maria nella bottega del falegname, dove, attraverso un struttura in forma di domanda/risposta, Maria apprende la terribile notizia della condanna a morte del figlio. Via della croce, ovvero l’ascesa al patibolo di Gesù e la straziante Tre Madri, introducono quel capolavoro assoluto che è Il Testamento di Tito, ovvero i Dieci Comandamenti in musica (incredibile!), in cui il ladrone “buono”, Tito appunto, confessa in punto di morte di aver violato, una ad una, le leggi donate dal Signore a Mosè ma di provare pietà per quell’uomo che muore con lui da innocente e di aver finalmente compreso, grazie a quel gesto finale, il vero significato della parola Amore. La chiusura è affidata a Laudate Hominem, una ripresa vera è propria del pezzo di apertura del disco, in cui, grazie al cambio di titolo, si vuole sottolineare la natura prettamente umana del Cristo. Arrangiato superbamente da Giampiero Reverberi ed inciso con l’ausilio dei musicisti della PFM (Premiata Forneria Marconi), La Buona Novella è un album quasi incredibile perché nessuno, né prima né dopo, ha mai “osato” affrontare e, perché no, mettere in discussione uno dei movimenti religiosi più diffusi del mondo. Il rivoluzionario cantautore ligure ha saputo coniugare etica ed estetica. Ma si sa, De André è De André e con quella sua classe, con quel suo tocco, con quel suo genio poteva dire e fare praticamente qualsiasi cosa.

La spiritualità espressa meravigliosamente da De André in questo album, in realtà è sempre stata presente nella lirica del cantautore, molte volte intrecciata con motivi sociali e anarchici come dimostrano La città vecchia del 1965 e Preghiera in gennaio del 1967. De André riesce a rendere anche quel fascinoso alone di mistero che accompagnava  la figura di Gesù (rappresentato come un uomo “vestito di sabbia e di bianco”).

La Buona Novella è una rilettura del Vangelo e del suo messaggio cristiano, insistendo sulla denominazione di Figlio dell’uomo e non di Figlio di  Dio che in verità non è lontana da quella dei Vangeli canonici. De André si dimostra un poeta (come non considerare pura poesia un’opera simile) innamorato dell’essere umano e nemico del potere come lo è  stato Gesù, non di certo un esempio di pio cristiano ma sicuramente un uomo profondo lontano dalla sterile estetica della fede praticata da molti cattolici.

Una visione riduttiva e in un certo senso comoda per chi è laicamente nemico del potere e vicino ai più deboli? (In realtà vi sono molte persone non credenti che sono inconsapevolmente portatori del messaggio cristiano, e ciò farebbe pensare ad un Dio immanente non trascendente) Certamente qualcuno potrebbe pensarlo, chiedendosi perché del Vangelo si prendono solamente gli aspetti che fanno più comodo. Tuttavia nell’ascoltare queste poesie ci si rende conto di come un approccio di questo tipo possa risultare producente e avvinicare la gente alla se non alla fede alla spiritualità. De André, da perfetto autore del ‘900, è uomo degli interrogativi, dei dubbi, non delle risposte, di crisi non di certezza, tranne, forse, una che rappresenta la strada che ci conduce a Dio che può essere percorsa, secondo il cantautore, guardando ai nostri simili, agli altri e quindi all’ uomo Gesù che nel Vangelo secondo Giovanni, 14,1-14 dice :<<Chi ha visto me, ha visto il Padre>>.

Il pensiero di Faber non è poi così lontano da quello di alcuni  teologi come Von Balthasar il quale, facendo da eco a De André, si chiede e risponde: “Chi è il cristiano? Uno che impegna la propria vita per i fratelli, perché egli stesso è debitore della vita al Crocifisso. Ma che cosa può dare seriamente ai fratelli? Non soltanto cose visibili: il suo dono – ciò che è stato dato a lui stesso – affonda nelle cose invisibili di Dio”.

Alessandro Zannini: “L’amante di Cristo”

Si è ispirato alla figura di Monsignor Raffaele Nogaro, lo scrittore e giornalista campano Alessandro Zannini (“Sera e dintorni”, “Storia della fanteria”, “Sulle ali di un gabbiano”, “Il pozzo di Sichem”) per il suo romanzo “L’amante di Cristo” il quale ripercorre la vita e alcuni episodi realmente accaduti anche attraverso personaggi che richiamano alla memoria  figure verosimili come don Peppino Diana, don Puglisi e don Ciotti e che hanno conosciuto  Monsignor Nogaro.

Il volume  è stato presentato lunedì 5 maggio nel salone parrocchiale della Chiesa del Buon Pastore, in piazza Matteotti a Caserta,città natale dello scrittore. Nel romanzo troviamo il cardinale Hòffemberg, la piccola Ilaria, il ras politico Giuseppe Palmieri,e l’indimenticabile don Luigi, sacerdote assassinato dalla camorra. Al centro delle storia ovviamente c’è Nogaro e la sua testimonianza di impegno,il suo modo di vivere il messaggio evangelico, il suo essere sempre in prima linea,  aiutando chi soffre, stando vicino ai più deboli e agli emarginati.  Semplice e battagliero Nogaro rappresenta una figura trasgressiva per il nostro tempo, come tutti quegli uomini di Dio che lottano ogni giorno, rischiando anche la loro vita in nome nel Vangelo, appoggiando le battaglie civili..

Dal romanzo emerge  un forte  messaggio di speranza veicolato dalla celebrata e carismatica figura di Nogaro, nonché una profonda riflessione su alcuni aspetti del Vangelo e sul significato di essere cristiani che inducono inevitabilmente anche noi a porci degli interrogativi. “Conviene” essere cristiani o ciò comporta soffrire di più nel porci continuamente dei dubbi e delle domande alle quali, di fronte alle sofferenze della vita e al male presente nel mondo,  non sappiamo dare risposta? La fede può bastare a colmare le nostre angoscie e i nostri drammi?Di grande interesse risultano anche le pagine dedicati ad espetti di scottante  e spinosa attualità come quello relativo al tragico fenomeno dell’immigrazione.

Realtà e fantasia si alternano ne “L’amante di Cristo” il quale contribuisce a darci una visione più chiara della Chiesa e soprattutto di quella che auspicava Monsignor Nogaro, che non sembra essere così lontana da quella che desidera Papa Francesco. La forza morale del protagonista non può esserci estranea, sia che siamo credenti o meno, così come l’impegno civile; tra accurate descrizioni, attenzione per i gesti dei personaggi, il difficile rapporto con le autorità ecclesiastiche.

L’autore dà spazio anche a pagine divertenti e leggere come quelle che vedono protagonista la piccola Iliaria e i suoi teneri interrogativi riguardo Dio e a cosa vuol dire concretamente essere suoi figli tra le mille difficoltà che si incontrano nel quotidiano, in primis quel “comandamento” difficilissimo se non impossibile da rispettare e mettere in pratica, “ama il tuo nemico” che va al di là di un semplice attegiamento o predisposizione sentimentale.

“Le due zittelle”: l’irriverente trattato teologico di Tommaso Landolfi

Le due zittelle è un racconto breve che trae in inganno sin dal titolo: non solo per la curiosa doppia t, ma anche perché il titolo non rispecchia in pieno quello che poi è lo sviluppo del racconto.
La doppia t è giustificata dallo stesso autore, Tommaso Landolfi, in una nota al testo, dove ammette di aver cercato, con questo escamotage, di spostare la semantica del nome verso il concetto di “zitta”, che è appunto il concetto chiave che caratterizza le due solitarie sorelle.

Landolfi ci presenta le due sorelle unitamente al contesto “polveroso” e nebbioso del paese in cui vivono: i primi due capitoli traggono in inganno su quello che poi sarà l’effetto argomento del libro.
Sì perché le due zittelle, Lilla e Nena,  offrono solo uno sfondo su cui prende vita un teatro molto più complesso: il silenzio esistenziale e anche fonico delle due (Landolfi ribadirà spesso i loro “versi”, fatti da brevi esclamazioni di sussulto) sono il tappeto su cui si muoveranno i veri protagonisti. Una “scimia” e due preti, uno anziano e uno giovane, oltre che la presenza-assenza della loro servitù, la cameriera Bellonia.

Landofi non giustifica il perché della scelta di scrivere “scimia” al posto di scimmia, afferma soltanto di scrivere zittelle con due anche per compensare quella mancanza:  lo scrittore, d’altronde, è stato uno dei maggiori sperimentatori della lingua nel romanzo del novecento. Giustificazioni linguistiche a parte, la scimmia che hanno in caso le due zittelle, è la vera protagonista della vicenda, la miccia che farà esplodere la trama, se di trama si può parlare. La scimmietta è un ricordo del loro fratello, partito per la guerra e morto in battaglia: quella scimmietta fu portata dal fratello al ritorno da una missione e da allora le due sorelle la avevano adottata, facendola vivere in una gabbietta.

A sconvolgere la quiete di quella casa, in cui fanno capolino soltanto pochi altri personaggi, che di tanto in tanto recano le loro visite alle sorelle, ci si mette un evento inaspettato. Vicino alla casa delle sorelle si trova un convento di suore: verrà fuori che la loro scimmietta ruba le ostie consacrate.
Le due zittelle sono convinte che non può essere la scimmietta la colpevole di quegli atti, ma nei giorni a seguire, arriva anche un’ altra suora, mandata dalla madre superiora, a segnalare che il furto sacro si era ancora una volta compiuto. Allora scattano le contromisure: le due zittelle , a turno, sorvegliano per due notti la scimmietta, ma non accade nulla. La terza sera, quando si erano ormai convinte dell’innocenza della bestiolina, accade l’evento: la scimmietta con una incredibile destrezza riesce a liberarsi dal collare e a forzare la serratura della gabbia, ad aprire la finestra e scappare tra i campi, fino a raggiungere il convento. Nenia  assiste alla scena, ma senza dare l’allarme: scruta quasi avidamente  i gesti della scimmietta, non avverte la sorella  per renderla testimone dell’eccezionale avvenimento, perché, giustificherà lei stessa “occorre una certa indulgenza con gli animali”.

In un’altra occasione, le due sorelle, non contente della prova raccolta, che effettivamente poteva essere non acnora schicciante, si recano anche al convento per controllare se effettivametne la scimmietta andasse in quel luogo: qui si assiste a un altro colpo di scena. La scimmietta non solo ruba le ostie, ma fa pipì sull’altare e “dice messa”, ovvero fa i consueti gesti che il parroco fa quando si benedicono le ostie e si alza il calice: insomma le due e la suora, che, acquattate spiano la curiosa bestiolina, convengono che stesse imitando qualcosa che avesse già visto.

Ormai le prove sono inconfutabili. Il problema è cosa fare con la scimmietta: un problema non da poco, che le due zittelle non sanno affrontare. Punirla? Lasciar passare? Abbandonarla? Così chiedono aiuto a don Alessio, giovane prete e a don Tostini, che invece è un anziano frate.
Da questo momento il racconto si trasforma in un trattato di filosofia-teologia: si scontrano due visioni contrapposte di Dio e della Chiesa, degli uomini, degli animali  e del peccato, da parte di don Alessio e don Tostini. Si arriva addirittura  ad affermazioni nietzschiane (“Dio è morto”, sembra leggersi in filigrana, da parte di don Alessio): d’altra parte don Tostini si sentirà male fisicamente nel sentire le affermazioni di don Alessio, al quale risponderà con una inequivocabile frase ma siete pazzi, cosa state discutendo sul libero arbitrio”, che rende l’idea dell’esplosività del dibattito che si consuma tra i due esponenti della chiesa.

Il dibattito vede don Alessio assumere  caratteri quasi demoniaci, il sacerdote  è costretto ad andare via dalla casa e con la conclusione che la scimmietta deve essere uccisa: conclusione a cui è giunto don Tostini, in virtù della sua visione cristiana del peccato, applicato agli animali.

La scena dell’uccisione  potrebbe collegarsi  ai frequenti fratricidi che accadevano nelle tragedie greche: Lilla, vedendo  il coltello trafiggere il corpo della povera bestia, si lascerà andare a questa esclamazione: “Per un attimo è stato come uccidere nostro fratello”. In effetti quella scimmia  rappresentava ormai  il loro fratello morto in battaglia: era diventata una sorta di reincarnazione, a cui le sorelle davano affetto e, appunto, indulgenza. Soltanto in quell’ atto estremo le due sorelle rinsaviscono e si rendono conto di cosa stavano facendo: il loro gesto non è stato spontaneo, ma indotto da don Tostini.

Il racconto si chiude con una panoramica, quasi cinematografica, con una inquadratura che dall’alto si restringe verso il basso, ed evidenzia i particolari del cimitero in cui erano state sepolte le due zittelle, operando un salto temporale non specificato e quasi ineffabile: si chiude così il cerchio della storia, aperto appunto con la presentazione delle due strane donne.

Tutto l’ irriverente racconto è pervaso da uno strisciante surrealismo: la scimmietta, i discorsi di don Alessio. Il momento dell’uccisione della scimmietta assume quasi i tratti di un rito pagano, di un sacrificio al dio per purificarsi dai peccati. Oltraggiosamente geniale.

Gli animali commettono peccato?Il dibattito teologico è aperto.

 

Elisabetta Pedata Grassia: “Fiori in rapsodie”

L’autrice Elisabetta Pedata Grassia

Un inno alla libertà, alla natura, alla bellezza, all’amore  e alla fede la raccolta di poesie  “Fiori in Rapsodie”con cui esordisce la giovane napoletana Elisabetta Pedata  Grassia, impegnata nel sociale nei quartieri difficili di Napoli, e a valorizzare i giovani talenti come lei. Determinata e tenace Elisabetta  ha messo nero su bianco note poetiche cariche di significato ed evocazioni  sia mitologiche che sacre, capaci (soprattutto alcune) di suggestionare il lettore  e di parlare di Dio attraverso la bellezza e la forza della natura.

Il mare, Dio, il vento,  il sole, la sabbia,l’anima, le piccole cose ( l’aquilone, il cappello), gli animali, sono elementi ricorrenti nelle poesie di Elisabetta Pedata Grassia che contribuiscono già da soli a conferire musicalità al verso libero, musicalità accresciuta dalla loro disposizione; l’autrice infatti , come Ungaretti,spesso isola alcune parole caricandole di valore simbolico. Le parole che utilizza Elisabetta  sono rivelatrici, atte ad una pacificazione  ed armonia esteriore ed interiore;  sono vitali perchè esprimono  tutta la pienezza della vita e la perfezione dell’Universo, del Tutto e dell’Uno.

Forte è anche l’influenza della letteratura orientale, Herman Hesse su tutti e lo si percepisce sia dalla compattezza   che  da una certa leggerezza stilistica . Tuttavia l’autrice non propone solamente liriche ma anche racconti brevi  sempre con soffofondo musicale con funzione metaforica. Spiritualità ed essenzialità sono le parole chiave della raccolta che propone anche soundtrack come  “Suzanne”Fabrizio De Andrè. La ricerca  del significato della parola è portata avanti con estrema attenzione, in certi momenti anche con struggimento e inquietudine che dimostrazione il grande coinvolgimento e bisogno emotivo da parte di Elisabetta Pedata Grassia di scrivere, qualità non di poco conto che certifica la sincerità e la genuinità dei più grandi poeti. Naturalmente la giovane scrittrice ne ha di strada da fare ma è su quella buona se solo si vuole considerare il suo approccio con questa “arte”.

Tra le poesie che maggiormente ci hanno colpito riportiamo alcuni versi delle seguenti poesie:

Agli zeri

Possiate cavalcare  sul grande carro

Mentre la notte si distende

Possiate sognare la luce

Quando la vostra voce

si leva al celo

[…]

(Da notare  qui l’anafora “possiate” e l’assenza della punteggiatura).

Ermeticha-Presente Passato Futuro

Cielo gravido

dilata le nuvole

Gambe androgine

Aperte tra le stelle

Fa un gioco dispettoso

la creatura dell’idea

Figlia del motore immobile

[…]

Apparentemente ambigua , questa lirica celebra tutta la potenza del cosmo attraverso un gioco di immagini efficaci volte a rappresentare  l’impetuosità della natura che non conosce limiti temporali.

Cantico del Mare

 Si sporse acrobata

sulla terrazza

Gli occhi due aquile

volavano

Oltre

Nella fissità del tempo

acqua terra

aria e fuoco

s’unirono

[…]

Qui l’autrice  va all’origine del mondo come sottolinea il tempo passato remoto “si sporse”. Riduce all’essenziale il verso non utilizzando il come per la similitudine “gli occhi come due aquile” e dando rilievo all’avverbio “Oltre” erigendolo a concetto filosofico.

Nelle braccia di Dio

Quell’alito di vento

forte sulle ringhiere

le rocce

Soffio umano d’amore

permea le anime

elevate alle nuvole

bianche di zucchero

[…]

In questa lirica viene descritta la sensazione di beatitudine che prova chi si lascia andare nelle braccia di Dio e quindi nell’Amore. Da evidenziare l’isolamento della parola “rocce” per creare una contrapposizione tra elementi leggeri, soavi che rimandano ad una dimensione eterea e di pace ed elementi duri come le rocce che richiamano gli aspetti terreni e la durezza della vita.

Vi invitiamo  a leggere questa preziosa e virtuosa raccolta non solo per poter leggere per intero le sopramenzionate poesie ma per poter scoprire anche le altre suggestive note musicali composte da questa talentuosa ragazza.

Potete trovare anche un’intervista rilasciata da Elisabetta Pedata Grassia  e a cura di Antonella Storti per Il Giornale di Casoria a questo link http://www.casacasoria.it/index.php?option=com_content&view=article&id=3642%3Afiori-in-rapsodie-la-prima-opera-della-scrittrice–elisabetta-pedata-grassia&catid=3%3Acronaca-e-attualita&Itemid=6.

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