La sofferenza secondo Giuseppe Berto e Guido Morselli: un confronto stilistico

Leggendo Il male oscuro di Giuseppe Berto ci si accorge di come, nei suoi tratti essenziali, l’approccio alla sofferenza psichica sia rimasto sostanzialmente invariato dal tempo in cui l’opera fu scritta. Bisogna che l’autore passi per trecento pagine di romanzo circa – attraversando svariate peripezie, quali farsi aprire la pancia da medici dalle competenze piuttosto discutibili –, prima che si decida ad intraprendere un percorso psicoterapico. Un retaggio, più folcloristico che religioso, spingeva Berto a considerare l’ulcera da cui era affetto come castigo divino.

Lo scrittore fugge dall’ospedale dove è ricoverato il padre poco prima che un cancro all’intestino lo uccida. Narra di quanto fosse infastidito dall’odore sgradevole emanato da quel corpo, ma ancor più dalle recriminazioni che le sorelle e la madre elargivano generosamente, sebbene in una situazione tanto delicata. Da qui il senso di colpa; lo spirito autoritario del padre che migra in un Super-Io severo e schiacciante; il malessere inteso come un’espiazione dovuta. L’ombra nera del genitore si spiega sull’esistenza di Berto, che procede a tentoni incapace di identificare il mostro che lo tiene prigioniero.

Comprendiamo il male del corpo, ma non quello della psiche; e solo chi non ha conosciuto l’intensità di tali crisi si avventerebbe a difendere le ragioni dell’uno sull’altro. Ancora: è assurdo il pensiero stesso che si considerino scisse le due parti. Il disturbo d’ansia generalizzato è paura che impedisce un normale svolgimento della vita, impedisce a chi ne è affetto di uscire a fare la spesa, di incontrare persone. La sensazione di pericolo costante porta a una produzione di adrenalina in eccesso, in modo tale che a metà giornata si è esausti pur non avendo fatto nulla. Concentrarsi su di un’azione semplice risulta impossibile, figuriamoci se si pretende, ad esempio, di studiare. Interviene quindi la paura della paura (ovvero lo stato ansioso indotto dal timore di rivivere una crisi), che rende sgradevoli anche i rari momenti in cui ci si sente più sereni.

Una maggiore possibilità di accesso al sentimento della noia, scardinare il privilegio del negozio sull’ozio, potrebbe forse renderci meno ciechi a noi stessi. È una spiacevole circostanza che fagocita la stessa comunità intellettuale-artistica, che, più di altre, dell’ozio e della noia dovrebbe essere attenta conoscitrice. Ma la chiamata alla produzione rimane pervasiva.

Nello stile di Berto deflagra la sintassi, potremmo dire che egli cerchi una forma che sia la trasposizione letteraria del rimuginìo nevrotico. Eliminando la punteggiatura è il ritmo stesso ad essere abolito. Il testo è un monolitico agglomerato della psiche, inestricabile matassa di pensieri che non dà tregua all’intreccio, che più si affanna nella narrazione e più si aggroviglia. Sul telaio dell’anima i fili dell’infanzia – con gli anni del collegio e del luna park, dei veneziani bene in visita alla provincia, della bicicletta da femmina che deve servire anche alle sorelle – infittiscono con quelli dei tempi più recenti, della guerra e delle avventure erotiche del Berto ormai adulto.

Altro filo è quello che annoda l’opera di Berto a Dissipatio H.G. di Morselli. Si tratta di un atto di opposizione intransigente, che entrambi i testi presuppongono. In Berto – si è visto – il conflitto è con la figura paterna, maresciallo dei carabinieri all’Arma Nei Secoli Fedele, simbolo della Patria, dell’Onore, e di tutte le maiuscole necessarie ad accreditare un portato di valori fascisti che si decompongono nel secondo dopoguerra, e della cui dissoluzione Berto è diretto testimone. Morselli, dal canto suo, si schiera contro un nemico se possibile ancora più temibile: il mondo delle banche; dei cartelloni pubblicitari che ripropongono sotto mentite spoglie – le Bahamas- l’archetipo dell’Isola dei Beati; della spietata, e inarrestabile, corsa del tempo sui quadranti degli orologi della sua Zurigo. Il nemico è qui una società meccanicistica, crudelmente funzionale, fatta di narrazioni sempre più stringenti e pervasive, che relega ai margini ogni realtà incapace a rispondere debitamente al paradigma imposto.

Morselli eredita da Zurigo una passione per il calcolo, segnalata dallo stesso Manganelli in quarta di copertina, che così definisce la scrittura dell’autore: “un gelo mentale matematico”. È in questo snodo della sua fatale lotta che Morselli si allontana drasticamente da Berto: nello stile. Dissipatio H.G. è un costrutto logico di capovolgimenti, paradossi, tautologie severamente irregimentate dalla punteggiatura, che frena e rilancia il lettore secondo la sua volontà. Nella prosa morselliana scopriamo il ticchettio, l’ingegneria orologistica dell’amata e odiata Svizzera, il rintocco delle campane che, più ancora del tempo, segnano la funebre uscita dalla grotta del Sifone, come fosse una nascita alla morte. La struttura della pagina di Morselli suscita il macabro ricordo del rito edificatorio dei babilonesi. La pratica prevedeva che il primo palo spinto nella terra si configgesse nella testa del serpente originario, che si credeva ivi sepolto; in tal modo veniva replicata l’uccisione mitologica di Tiamat per mano di Marduk. Il rito era necessario affinché venisse assicurata la stabilità della costruzione. Morselli morì suicida dopo aver ultimato la stesura di Dissipatio H.G.,; quasi a dire che la salma su cui doveva erigersi l’axis mundi della sua opera non poteva essere che quella dello stesso autore.

 

Lorenzo Orazi

Il miglior scrittore del 2020? Guido Morselli, autore di ‘Dissipatio H.G.’, che ha descritto il nostro futuro prossimo

Guido Morselli è un miracolo e una condanna. Trascina con sé, sempre, una ossessione alla gloria estrema e all’estremo sacrificio. Il primo servizio dell’anno il “New Yorker” – rivista che più autorevole, autoritaria e aristocratica non si può – lo dedica a “The Italian Novelist who Envisioned a World Without Humanity”. 

Il testo è di Alejandro Chacoff; di fatto, Morselli è consacrato dal magazine americano come lo scrittore dell’anno, lo scrittore totalmente postumo che ha descritto il nostro futuro prossimo. “Solo un sommo esperto in solitudine – artistica, fisica, emotiva – avrebbe potuto scrivere un libro così spietatamente realistico su una catastrofe desolante, nella sua strana miscela di ansia e di noia.

Un’esperienza così radicale, infine, ha un prezzo”, scrive l’estasiato recensore. “Dissipatio H.G.” è stato pubblicato in dicembre da New York Review Books; ne hanno parlato tutti negli Usa, eleggendo quel romanzo a una specie di remoto culto. Il caso è serpentino: negli Usa ha vissuto pressoché tutta la vita il fratello di Guido Morselli, Mario, che oggi, fosse vivo, gioirebbe di questa inattesa fama. Si diceva, appunto, del sacrificio estremo e di una sorta di condanna.

La traduttrice americana di Morselli, Frederika Randall – che ha firmato anche l’introduzione al libro – è morta, in maggio, senza assistere al successo della sua fatica. Per inquadrare la ‘vicenda Morselli’, la storia di un genio conturbante, abbiamo chiesto un pensiero a Linda Terziroli, massima studiosa di Morselli in Italia, sua biografa(“Un pacchetto di Gauloises. Una biografia di Guido Morselli” è edito da Castelvecchi nel 2019).

Morselli per tutta la vita fu rifiutato dagli editori. Dissipatio è un testo estremamente lirico, molto vicino al filone filosofico del ‘700; si tratta di un delirio solipsistico e sicuramente Shiel ha contribuito alla costruzione di questo testo, in cui aleggiano sia Leopardi che Beckett. 

Per Morselli tutto è creazione o iificazione. La teoria soggettivista del sentimento come iificazione dell’oggetto (in amore, come in arte) è forse uno degli aspetti piú significativi della filosofia di Sereno, e costituisce il cuore del volume nel Dialogo VI del saggio Realismo e fantasia. Alla base della libera attività creativa e immaginativa ci sarebbe sempre un moto dell’animo, un’impressione incisa sul sentimento, la quale collega strettamente la funzione sensibile con quella affettiva. L’arte sarebbe in intimo rapporto con tale fenomeno; tradotto nella genesi dell’esperienza estetica, esso conferma la natura sentimentale dell’intuizione poetica, della ispirazione, che altro non sarebbe se non
un sentire le cose e gli esseri animati del nostro stesso sentimento: «Sentimento che ci avvince all’oggetto con un legame affine a quello amoroso». Non è difficile avvertirvi echi proustiani; del resto si muove tra Proust e Amiel il primo nucleo compositivo di Uomini e amori, romanzo d’esordio, non pienamente riuscito (anzi quasi sconfessato), e iniziato – come il presente saggio – in Calabria.

Dicono che, un pomeriggio, la fondina della sua pistola sia caduta, con un tonfo sordo, sul pavimento. Stavano spostando la scrivania quando, improvvisamente, la pistola di Guido Morselli è scivolata giù, dal retro di un cassetto. L’impressione, tra i presenti, è stata fortissima. Ma la fondina che, come un abito aveva fasciato la sua pistola per una vita, era vuota, deserta. Nessuno sa che fine abbia fatto la sua Browning 7,65. La ragazza dall’occhio nero, protagonista dei suoi romanzi. Non ho mai trovato il coraggio di fare questa domanda a Mario Morselli, il fratello di Guido, che viveva immerso nel freddo Vermont, vicino al Canada.

Quando la fondina è caduta sul pavimento, un silenzio tragico e pieno di parole ha colpito, in piena faccia, i familiari. Guido Morselli si era tolto la vita quella notte tra il 31 e il primo agosto del 1973, nella casettina dei custodi della villa Morselli di via Limido, a Varese. E ora, improvvisamente, la custodia della rivoltella era capace di un tale fragore nel cuore dei cari. Che, ormai, si sono abituati alle sue sorprese. Alle sue stranezze. Guido Morselli era, del resto, un originale, anzi un originalone. Poteva dare un appuntamento e non presentarsi. Arrivava puntualmente in ritardo a pranzo, a Milano, sottraendo il piatto da sotto il naso di suo padre Giovanni, che non doveva mangiare così tanto. Aveva imparato a guidare l’automobile a quindici anni. Il giorno che si è messo a guidarla di nascosto, suo padre è andato su tutte le furie. Ma le sorprese di Guido Morselli sono continuate anche dopo la sua morte.

La dissipazione del genere umano. Negli States, nel 2017, è uscito The Communist (Il comunista, appunto) nella sua traduzione (e l’Introduzione di Elisabeth McKenzie) per la collana di classici della New York Review Books. Frederika Randall aveva concluso, ormai da un pezzo, la traduzione di Dissipatio H.G. in inglese e ne aveva scritto l’Introduzione. Sarebbe uscito, in teoria, il primo dicembre di quest’anno. Entrambe scorgevamo un’altra profezia. Lei scriveva (era il 23 aprile): “Sono impaziente anch’io ma non c’è niente da fare, non c’è modo di anticipare la pubblicazione”. Con la pandemia si sarebbe accumulato ulteriore ritardo.

Guido Morselli era “un uomo difficile, ma non privo di qualità umane”. La traduttrice lo conosceva attraverso i suoi libri, in virtù di quella difficile conoscenza che è l’arte della traduzione letteraria. La traduttrice è mancata il 12 maggio di quest’anno. Ha salutato dal cielo la pubblicazione di Dissipatio H.G. in terra americana. Il libro è uscito lo scorso dicembre. Orfano due volte, dell’autore come della sua traduttrice. Il pacchetto di Gauloises è finito. Frederika Randall teneva sulla scrivania una foto di Guido Morselli.

«Sono orgoglioso di sentirmi un riepilogo di uomini», annotò Morselli nel suo Diario: ecco, nella capacità di vivere, sperimentare e raccontare una molteplicità di esperienze e di individui, nella possibilità di viaggiare nel passato e nel futuro, è il marchio di fabbrica della scrittura morselliana: pulita, trasparente, dalla parola pertinente, ma lieve. Scrittura che non valse a salvargli la vita; in una nota del Diario datata 6 novembre 1959, il bilancio era già ampiamente negativo:

«Tutto è inutile. Ho lavorato senza mai un risultato; ho oziato, la mia vita si è svolta nella identica maniera. Ho pregato, non ho ottenuto nulla; ho bestemmiato, non ho ottenuto nulla. Sono stato egoista sino a dimenticarmi dell’esistenza degli altri; nulla è cambiato né in me né intorno a me. Ho amato, sino a dimenticarmi di me stesso; nulla è cambiato in me né intorno a me. Ho fatto qualche poco di bene, non sono stato compensato; ho fatto del male, non sono stato punito. Tutto è ugualmente inutile».

 

Fonte; Linda Terziroli

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