‘Una vita violenta’, l’edizione anastatica della Garzanti in occasione del centenario della nascita di Pasolini

Una vita violenta, romanzo del 1959 di Pier Paolo Pasolini, riprende i temi e gli ambienti di Ragazzi di vita e rivela Pasolini al pubblico e alla critica, un libro sentito, soccorso dall’intelligenza e dall’amore da parte dell’autore per i frammenti narrativi, che si rifanno alla tradizione letteraria ottocentesca. Un romanzo, che come avverte lo stesso Pasolini alla fine del libro, in sostanza è una storia realmente accaduta e che avviene ogni giorno.

«La trama di Una vita violenta mi si è fulmineamente delineata una sera del ’53 o ’54… C’era un’aria fradicia e dolente… Camminavo nel fango. E lì, alla fermata dell’autobus che svolta verso Pietralata, ho conosciuto Tommaso. Non si chiamava Tommaso: ma era identico, di faccia, a come poi l’ho dipinto… Come spesso usano fare i giovani romani, prese subito confidenza: e, in pochi minuti mi raccontò tutta la sua storia». (Pier Paolo Pasolini, Le belle bandiere, 1966)

Il romanzo è stato ristampato in occasione dell’anniversario della nascita di Pasolini (il 5 marzo 1922), in copia anastatica dalla casa editrice Garzanti.

La vita di Tommaso e degli altri ragazzi nella Roma del dopoguerra è davvero una vita violenta e spietata. Le emozioni che suscita il protagonista sono davvero forti e il suo tentativo di riscattarsi per avere una vita migliore, ha generato in me emozioni contrastanti viste le sue scelte. Se da una parte si può provare pena e sofferenza per questo “ragazzino”, dall’altra predomina la rabbia.

“Io a bazzicà co’ questi ce guadagno,” pensava tutto paonazzo Tommaso. “Ce guadagno anche de prestiggio! Che, vòi mette annà a pijà un caffè o annà a un cinema co’ questi o cò quei ricottari? Questi, er più disgrazziato sta a panza ar sole, c’ha er padre dottore, avvocato, ingegnere: tutta gente che nun trema!”

Lapalissiana è l’influenza del dialetto romanesco su Pasolini, che domina nei continui e briosi dialoghi ricchi dei tipici intercalare del vernacolo capitolino, di parolacce e di folklore, il quale si riflette anche sulla voce narrante, sporcandone spesso la correttezza dell’italiano ma aumentando sia la veridicità del racconto che l’empatia prodotta nel lettore.

Già per Ragazzi di vita la critica aveva parlato di un superamento del neorealismo, dovuto a una specie di conflagrazione linguistica per cui ogni sentimentalismo e documentarismo residui nel neorealismo erano andati in pezzi. Come si legge nella prefazione all’opera, con Una vita violenta il processo in atto va avanti. L’ambiente con il suo brulicare di episodi e di figure non è più l’oggetto diretto del racconto, ma è in funzione di un unico personaggio centrale, la cui storia, pur nella sua violenza e confusione, è una vera storia, con quanto di epico ma anche di razionale questo significa.

Dato l’ambiente in cui vive-il livello culturale sottoproletario della malavita romana-il giovane protagonista Tommaso non potrà mai giungere a una vera coscienza. Dal tugurio all’appartamento all’INA case, dalle strade di Roma a Regina Coeli, dall’esperienza missina a quella comunista, le contraddizioni attraverso le quali il ragazzo passa non possono che restare puramente esistenziali, se viste dall’interno.

Ma se si giudica oggettivamente, nel nostro momento storico, il loro processo risulterà, nello stesso tempo, dialettico. In qualche modo infatti egli alla fine sarà andato al di là del suo ambiente, avrà superato il mondo della sua fangosa borgata, covo di ogni miseria, vizio e violenza. Rispetto a Ragazzi di vita, inoltre, Una vita violenta appare ancora più libero e complesso: anziché restringersi e semplificarsi dentro i limiti di una storia particolare e tipica, sembra non avere più limiti, nell’atto di impadronirsi mimeticamente dell’enorme sottomondo romano.

Anche per questo romanzo Pier Paolo Pasolini si conferma, come ebbe a dire Emilio Cecchi, un vero pittore dello squallido paesaggio suburbano, dei cantieri sfortunati e in abbandono, dei fiumiciattoli contaminati. Questi motivi conciliano Pasolini ad una calma contemplativa, a un senso di tristezza non più rabbiosa e spasmodica, molto quietamente versata nella cose.

“Non era successo niente: una borgata allagata dalla pioggia, qualche catapecchia sfondata, dove ci stava della gente che, nella vita, ne aveva passate pure di peggio. Ma tutti piangevano, si sentivano spersi, assassinati. Solo in quel pannaccio rosso, tutto zuppo e ingozzito, che Tommaso ributtò lì a un cantone, in mezzo a quella calca di disgraziati, pareva brilluccicare, ancora, un po’ di speranza.”

‘Sei stato felice, Giovanni’, di Giovanni Arpino, un inconsueto romanzo del dopoguerra

Appena si termina la lettura di Sei stato felice, Giovanni, romanzo del 1952 di Giovanni Arpino, di colpo si potrebbe avvertire con forza la necessità di piangere, sentendosi subito dopo più leggeri. Tale reazione per alcuni può risultare abbastanza inconsueta, soprattutto se il libro in questione non è un testo romantico, né drammatico, semmai un’opera neorealista, avventurosa, scritta con disinvoltura e leggerezza, che conduce ad un possibile felicità la quale giustifica il pianto precedente.

Il romanzo di Arpino era in netta contrapposizione con lo stile serio della maggior parte dei romanzi italiani del dopoguerra.

Nel 1950 Giovanni Arpino ha appena 23 anni quando decide di scappare da Torino per approdare a Genova, dove prendendo alloggio in una lurida e sporca pensione, mangiando male ed il minimo indispensabile, in venti giorni partorisce la sua opera prima, per l’appunto “Sei stato felice, Giovanni”. Ricopia in fretta e furia il manoscritto a macchina e lo invia all’Einaudi, dove Italo Calvino non ne è convinto del tutto, ma grazie ad Elio Vittorini, per il quale il romanzo è da stampare “senza esitazioni” il romanzo vedrà la luce.

È proprio a Genova che Arpino decide di ambientare questo romanzo, facendo aggirare Giovanni, il protagonista, ed i suoi due amici Mangiabuchi e Mario, per i suoi vicoli ed il porto, mostrandoci e conducendoci per mano in una città che cerca faticosamente di rialzarsi dai danni della guerra.

Dei tre, Giovanni, è l’unico ad amare la lettura, e fa i salti mortali per avere la propria indipendenza, per vivere in una camera di un povero albergo e potersi ritagliare i propri spazi per leggere. Nonostante sia circondato dalla povertà, da compagnie non di certo illuminanti, e cerchi di vivere alla giornata cercando in continuazione trucchi per sopravvivere, i libri rimangono quella perenne finestra aperta verso la felicità, da lui tanto agognata.

Sono il suo rifugio sicuro che gli permette di poter gridare al mondo la sua diversità da chi, come ci dice riferendosi a Mangiabuchi: “Non sapeva né pensare né non pensare, vivere giorni seduto su uno scalino, solo mangiare e dormire sapeva e neanche bene”.

Se a Giovanni gli avessero sottratto il suo sentirsi diverso, estraneo da tutti, probabilmente non gli sarebbe rimasto più nulla. È la sua unica ancora, alla quale si appiglia con forza fin dalle prime battute. Sono intrise di visioni del futuro queste pagine, colme di paura per quel che sarà e ci sarà, e ci si rende conto facilmente con l’avanzare delle pagine di quanto sia cambiato essenzialmente poco da quel che dovevano provare i giovani nel dopoguerra, dove vi erano mille incertezze e incognite, alla sensazione di spaesamento e solitudine che si ha oggi, nel 2022. Si è tramandata quella perenne sensazione di vagabondaggio del destino, che non volendosi definire o delinearsi naturalmente davanti ai nostri occhi man mano che si cresce, ci fa girovagare senza meta, spaesati, cercando forsennatamente di raggiungerlo.

In ogni epoca, i giovani hanno sempre avuto problemi. Dopotutto sono i nuovi, gli appena arrivati, e come tali devono adattarsi ad un mondo già avviato, lanciato a tutta velocità su binari ben collaudati, e l’adattamento in qualsiasi ambito lo si faccia, non è mai facile. Esser giovani per Arpino è sinonimo di libertà, di notti insonni, di assenza di legami, vuol dire svegliarsi a sonno finito, andare al porto e camminare. Significa pensare in continuazione a come dare una svolta alla propria esistenza, trovare un lavoro che appaghi, che faccia fare una barca di soldi, ma al contempo non averne neanche più di tanto voglia, perché le giornate scorrono troppo in fretta e si ha anche voglia di trastullarsi,
bere, fumare, leggere.

Giovanni non è felice, ed il motivo è semplice, non è soddisfatto di quel che fa e mentre i suoi amici si accontentano di sopravvivere, saltando di giorno in giorno da un lavoro occasionale all’altro, lui soffre e si vede immobile, perché in cuor suo pensa di meritar di più. Quindi non appena si siede ad un bar per bere una birra, sente d’aver appena soddisfatto un bisogno, quello della pigrizia, della nullafacenza, è sereno lì seduto a guardare il mondo che gli scorre di fianco, ma non trascorre molto tempo prima che gridi disperatamente tutta la sua insoddisfazione e voglia di cambiare: “Venir fuori e mettersi per le strade a fare qualcosa, qualsiasi cosa per cui un uomo è un uomo e non solo una mano che dipinge cassette. Ero stato un mucchio di cose, mai un uomo che comincia a muoversi davvero.”

Le prova tutte Giovanni per essere felice, finché stremato nell’ultima parte del romanzo si arrende, e fissando il busto di un poeta che incontra passeggiando, gli parla guardandolo in faccia, senza timori, sfrontato, tirando fuori parole pesanti come mattoni, lasciandole lì ai suoi piedi. Quasi a togliersi un peso, che non gli permetteva più di muoversi.

“Io so solo che sono stato felice e che darei l’anima per poterlo essere ancora un poco. Sicuro, sono stato felice, ma non basta. Non basta mai”. Giovanni vuole andarsene da Genova, e lo fa, prendendo un treno direzione Roma e riponendo tutto quel che ha nella speranza.

La speranza che tutto quel che avrebbe avuto nella capitale sarebbe stato lontano anni luce da quel che aveva avuto fino al giorno prima. Voleva scordarsi della fame, dei debiti, dell’indefinito.

Non dorme in treno, non ci riesce, la speranza è troppa.

Grazie a Giovanni, si può riuscire ad esser felici.

‘I pesci non chiudono gli occhi’, di Erri De Luca

La voglia di crescere, di cambiare, quel desiderio di vedere il corpo maturare, trasformarsi; c’è tutto questo in I pesci non chiudono gli occhi dello scrittore partenopeo Erri De Luca.

“L’infanzia smette ufficialmente quando si aggiunge il primo zero agli anni. Smette ma non succede niente, si sta dentro lo stesso corpo di marmocchio inceppato dalle altre estati, rimescolato dentro e fermo fuori.”

Erri De Luca torna, nel 2011, con un romanzo edito da Feltrinelli, infarcito di frasi che sembrano poesia. Una musica che accompagna una dolce e amara malinconia, sembra attorniare queste pagine. Un uomo che torna indietro con la propria mente, la guerra, il dopoguerra, gli americani, i tedeschi, una città distrutta e un padre che cerca fortuna altrove. Ancora un’isola, probabilmente Ischia, dove De Luca aveva ambientato “Tu, mio”, dove trascorrere l’estate, tra enigmi da risolvere e due nuovi occhi da guardare.

Da quei cinquant’anni tutto è cambiato, tutto o niente. Quel bambino è ancora li, ricorda e sente, sente e ricorda. Vede ancora quegli adulti, conosciuti attraverso i libri del padre, nient’altro che “…bambini deformati da un corpo ingombrante. Erano vulnerabili, criminali, patetici e prevedibili.”  

Nelle parole di De Luca conosciamo un altro piccolo protagonista senza volto, siamo noi, è lui, siamo noi. Un’infanzia fatta di silenzi, di sguardi persi nel vuoto, in quella voglia di cambiare, di apportare al corpo quella trasformazione che la mente già sente sua, in ogni più piccolo centimetro di essa. Ma il corpo resta li, fermo, immobile, e allora resta da scegliere una strada da percorrere per forzarlo, quel cambiamento. Con una rottura dello stesso corpo, solo così, qualcosa, sarebbe cambiato.

Le parole scorrono con dolcezza, attraverso quella malinconia che ci riporta indietro ogni qual volta osserviamo i luoghi che hanno accompagnato la nostra infanzia, quei luoghi fatti di quegli attimi che ci hanno cambiato. E allora il bambino cambia, il corpo inizia la sua trasformazione, “forzata”; attraverso il sangue, le lacrime nascoste, prese di posizione di fronte ad una madre che non sa scegliere, che sembra aver bisogno dell’appoggio di un “bambino” di dieci anni per trovare le sue risposte. O è forse quel bambino, a sentire di doverle dare, quelle risposte.

Il romanzo, racchiuso nella sua dolcezza, ci parla di una storia ordinaria, ma indimenticabile. Poche parole, poche notizie, piccoli accenni, spesso brevi commenti. L’indispensabile per raccontare quei momenti che tutto cambiano.

E poi lui, quel sentimento che sconvolge l’animo, che lo riempie e lo svuota, che smuove dentro, che arricchisce con le sue mille ferite. L’amore, quel solo verbo, “amare”, che il bambino non riesce a comprendere. I grandi se ne riempiono la bocca senza nemmeno sapere cosa sia. Ma quell’estate anche questo cambia. L’ amore arriva e ha due occhi che, il nostro giovane protagonista non riesce a smettere di guardare.

“Ero rimasto immobile a guardarla. “Ma tu non chiudi gli occhi quando baci? I pesci non chiudono gli occhi.””

I racconti di quei momenti che riportano all’ infanzia, si alternano ai pensieri dell’uomo ormai divenuto adulto: lo scrivere di oggi, il salire su un palco a strimpellare la chitarra, la morte dei genitori, la mano di sua madre che posava tiepida sulla fronte, fino all’ultimo. E ancora la madre, che amava tanto gli scrittori e che lo amava, anche come scrittore. Spesso, quando qualcuno dei suoi libri le era particolarmente piaciuto, lo guardava e diceva “Aro’ sì asciuto?” (Da dove sei uscito). E lo stupore, accompagnato da un dolce sorriso, per quell’amore, per quel verbo che, ancora oggi, gli adulti non sono in grado di comprendere.

Lo scrittore si lascia andare ad un certo autocompiacimento, ma le pagine scorrono veloci. I pesci non chiudono gli occhi è nn altro libro da “divorare”, come tutti quelli con cui lo scrittore napoletano ci ha appassionato. E quella lingua, il napoletano, quella che anche chi non la conosce, non può fare a meno di amarla. E così, Erri De Luca, torna a Napoli, noi camminiamo accanto a lui, ascoltiamo quella musica dolce, quella malinconia che accompagna le nostre giornate, gli anni che passano, inesorabili, come il tempo che corre troppo velocemente. Ma a De Luca, come un dono, è stato fatto quel dono che si concede solo ai grandi scrittori. Lui lo ferma il tempo, il nostro tempo, quello passato: ai ricordi andati, rimasti in quell’isola dove, quel tempo da bambini, si fermava per imparare a vivere.

“Capivo all’indietro quello che succedeva dentro i libri, quando uno si accorge della specialità di un’altra persona e concentra su quella l’esclusiva della sua attenzione. Capivo l’insistenza di isolarsi, starsene in due a parlare fitto. Non c’entrava per me il desiderio, quell’amore chiudeva con l’infanzia ma non smuoveva ancora nessun muscolo degli abbracci. Scintillava dentro, mi visitava il vuoto e me lo illuminava.”

“Non ora, non qui”, di Erri De Luca

“Molti particolari non formano un ricordo, molti ricordi non costituiscono un passato.” Torniamo indietro nel tempo attraverso le parole di colui che è stato definito “lo scrittore del decennio“. Erri De Luca, in “Non ora, non qui”, opera che ci sembra di comprendere a fatica nelle sue prime pagine, ci insegna in un silenzio fatto di dolci parole, l’intimità di un ricordo forse sepolto nella memoria. Il tempo è distanza, malinconia. Una malinconia che di dolce non ha più nulla. Un tempo che torna a galla dalla memoria sepolta. Quella memoria che, forse, spesso, cerchiamo di cancellare.

Un bambino di nove anni, il dopoguerra, le difficoltà della vita, una vita crudele che non ha rispetto per niente e nessuno. Un trasloco che lo porta lontano, un primo passaggio verso quell’età adulta che una volta giunta, cerchiamo di allontanare con tutte le nostre forze. Una povertà che si cerca di combattere, di capovolgere. Vista e vissuta da lontano con la sola certezza di essere strappato dalle proprie radici, dalla propria vita, dalla sua Napoli. E poi lei. Una madre che sembra non comprendere. Un figlio lasciato a se stesso, a quelle parole che non vogliono uscire accanto a quel mondo che non sembra volerlo accettare per quello che è.

“Così si snodava il reparto familiare: genitori preceduti dalla figlia e seguiti con lieve ritardo da me.

La difficoltà nel parlare porta con se una fatica incontrollabile di avvicinarsi al mondo.  Perchè questo mondo non ammette quella sensibilità, non ora, non in questo momento. Forse mai. “Non ora, non qui.

Da bambino non ammettevo il passato.” De Luca, con quella dolcezza, quella sensibilità che ci porta ad amare ogni sua parola, ci riporta indietro. A quel rapporto materno che ha condizionato le nostre vite. A quelle paure che ci hanno reso più forti o forse solo più soli. Una solitudine difficile da combattere, impossibile da comprendere.

L’opera prima dell’autore napoletano, ci mostra una madre e un figlio, una foto, un’immagine che nella nostra mente sembra essere sbiadita, ma che diventa più chiara pagina dopo pagina, parola dopo parola. Una donna frustrata dalla propria condizione, dalla propria vita, una donna che non riesce a capire, una donna sola.

Ancora una volta ci siamo noi nelle parole dello scrittore napoletano. Siamo nei suoi protagonisti, una madre e un figlio. Siamo nelle immagini che la nostra mente crea legata ad ogni frase. Siamo nella sua malinconia, nella sua dolcezza, in una morte che sembra giungere lenta e ancora una volta legata al volto materno. Siamo in quei ricordi. In quel legame che non può spezzarsi. Siamo la madre. Siamo il figlio.

Amarezza, tristezza, bellezza. Elementi ricorrenti nelle opere di De Luca, il cui talento sta nel riuscire a coinvolgere tutti, a prescindere dall’età, dal livello di istruzione e dal ceto sociale, ma senza autocompiacenza. “Non ora, non qui” sussurra ai lettori, attraverso una scrittura colta che si nutre di filosofia che per qualcuno può risultare noiosa ma che ci fa comprendere il senso delle parole usate dallo scrittore che riflette sulla società moderna e su quello che conserviamo dentro. In questo senso il romanzo di De Luca è democratico e spiazzante nel finale.

E poi ancora un’immagine. Un finestrino di un autobus; è da li che il nostro protagonista osserva la propria madre. Ora ha sessant’anni. Torna indietro e noi con lui. Un racconto che entra nel racconto. Un momento in cui madre e figlio giungono ad essere coetanei, ma legati da quell’incomprensione che durerà fino all’ultimo istante, fino a quell’ultima parola.

Un romanzo che si presenta con una forza indistruttibile. Una lacrima che scende dopo quell’ultima frase.; è così, è inutile negarlo. Erri De Luca è lo scrittore del millennio.

“Avevi ragione, molte delle cose che mi sono accadute furono errori di tempo e di luogo, cose da dire: non ora, non qui.”

 

Salvio Esposito: “La galleria delle armi”

“La morte era tra noi. Il guardarla, il non nasconderla con paura nel profondo dell’anima, ce la rendeva finalmente per ciò che era, un evento come un altro, talmente semplice da divenire banale”.

Salvio Esposito

Salvio Esposito, psicologo napoletano, riporta a galla il disastro ferroviario avvenuto il 3 Marzo 1944 a Balvano, paesino al confine tra Basilicata e Campania.

“Per me infatti il viaggio da Napoli a Balvano dura da tutta una vita.”  Il dottore Miele Domenico, il dottor Pino, torna indietro con la mente in quel viaggio che non ha avuto voce, mai , perché …questo mondo non da spazio a chi chiede giustizia in dialetto.” Perché questo mondo è abituato a cancellare, sotterrare. Ma il dolore non lo sotterri, come quei  600 corpi ammassati in una fossa comune. In una Napoli del dopoguerra che nulla ha a che vedere con la liberazione, nulla ha in comune con quella speranza che appartiene al cuore di chi cerca di vivere ancora una volta la bellezza e la magia di quella città che il mondo non comprenderà, mai. L’immagine dei sobborghi partenopei costretti a mostrare solo la propria parte peggiore, l’immagine di “vite strappate alla vita”, l’immagine di vite costrette a sopravvivere in un luogo che, ormai, non è più tuo.

“Non era una liberazione, ma una sottomissione a cui la città fu in seguito costretta: sfruttamento della popolazione e malattie veneree: sembravano meglio i tedeschi che gli americani.” Ciò che restava, dopo la Liberazione, erano altri uomini, altri stranieri pronti a comandare su una terra che padroni non ne accetta. E così il contrabbando, quei tentativi e sforzi forse inutili di sopravvivere, con un sorriso malinconico e beffardo.

Ma Pino risale su quel treno, percorrendo quello stesso tratto che, quel maledetto giorno, gli aveva portato via la speranza di una vita priva di quell’insonnia che l’avrebbe accompagnato per sempre. Uno sguardo a quel momento in cui il solo pensiero era legato all’immagine di bestie ammassate sul treno della “disperazione”, della “morte”, un altro treno degli orrori. Ma questa volta è diverso. Pino non è più solo. E tutto continua, in una lettura travolgente, fino a quella pace ritrovata, a quella scelta di percorrere la strada in senso contrario, verso una luce che riporta alla vita, perché non è mai troppo tardi per ricominciare, perché non è mai troppo tardi per restare insieme “…tutto il tempo che vorremo. Tutto il tempo che vorremo”.

Salvio Esposito partendo da una difficile storia d’amore narra di un fatto di cronaca tenuto sotto silenzio per troppo tempo, a 68 anni dalla tragedia ferroviaria con piglio verista e profonda attenzione per i sentimenti e i sogni del suo amato popolo.

“La galleria delle armi” è edito da Marotta&Cafiero.

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