Si terrà il giorno 19 luglio 2021 alle ore 18.00 presso il Museo Civico San Francesco di Sorrento la conferenza dal titolo “L’insostenibilità di Dostoevskij” tenuta dalla dott.ssa sannita Annalina Grasso, laureata in lettere, filologia moderna e giornalismo ed editoria è giornalista, blogger, social media manager, redattrice di testi critici per artisti, direttrice del magazine online ‘900letterario, e collaboratrice di riviste prestigiose quali Juliet Arte la tedesca Zeitblatt Magazin e moderata da Luciano Russo.
Annalina Grasso ama la letteratura soprattutto quella italiana, francese e russa, il cinema, l’arte, la musica e per questo incontro, organizzato dall’Istituto di Cultura Torquato Tasso di Sorrento, fondato nel 1923, ed ente morale dal 1929. La conferenza sarà trasmessa da Positano News.
Obiettivo della conferenza è mostrare l’insostenibilità di Dostoevskij, sia per quanto riguarda la scrittura diretta, sia per il contenuto e le tematiche delle sue opere, i personaggi, senza trascurare la questione inerente alla fede, la critica e la straordinaria attualità di questo grande scrittore, o meglio drammaturgo metafisico che ha affrontato la questione del Male senza girarci troppo intorno.
Sarà approfondito in modo particolare il capolavoro I Demòni, titolo si riferisce appunto agli maligni’ rappresentati da alcuni dei personaggi principali in una San Pietroburgo nichilista.
Come sosteneva Bachtin, sebbene i romanzi di Dostoevskij siano polifonici, in essi tuttavia persiste uno sostrato monologico dato dalla prospettiva dell’autore, procedimento tipico del romanzo europeo.
Nei romanzi dello scrittore russo la coscienza ed il punto di vista dell’autore non puntellano il mondo rappresentato, ma questo invece è creato da diverse coscienze e punti di vista che coesistono.
La narrazione di Dostoevskij inoltre si dipana nello spazio più che nel tempo e i personaggi si evolvono sul piano orizzontale piuttosto che verticale, all’interno del quale i dialoghi sono fondamentali.
“Invece di impadronirti della libertà degli uomini, Tu l’hai accresciuta ancora più! O forse avevi dimenticato che la tranquillità e perfino la morte è più cara all’uomo della libera scelta nella conoscenza del bene e del male? Non c’è nulla di più allettante per l’uomo della libertà della sua coscienza, ma non c’è nulla di più tormentoso”. (Dai Fratelli Karamazov)
“Anja, la segretaria di Dostoevskij” è la straordinaria opera dello scrittore e autore teatrale Giuseppe Manfridi, vincitrice nella sezione Narrativa Edita della VII Edizione del Premio Letterario Città di Como e della I Edizione del Premio Dostoevskij.
Il romanzo è stato inoltre selezionato per il Premio Strega 2020, presentato dallo storico dell’arte Claudio Strinati, che l’ha così descritto:
«Mai banale, mai retorico, mai ostentato ma profondamente serio e convincente, un inno alla letteratura e all’amore, all’intelligenza e alla volontà».
La genesi del romanzo Il giocatore di Dostoevskij
Nell’opera si racconta la turbolenta nascita del romanzo “Il giocatore” (in russo “Igrok”) di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, e allo stesso tempo l’origine di una storia d’amore scandalosa e sofferta, che cambierà l’esistenza del grande scrittore russo.
Anna Grigor’evna Snitkina (chiamata affettuosamente Anja) e Fëdor Dostoevskij amano la letteratura più di qualunque altra cosa al mondo, e in essa trovano il compimento del loro destino; quando egli decide di avvalersi di una stenografa per accelerare il processo di composizione del suo nuovo romanzo, non intuisce ancora che quella ragazza appena diciottenne diventerà fondamentale per la sua scrittura, e presto anche per la sua anima.
I due protagonisti sono finemente caratterizzati, così come i numerosi personaggi secondari, donando loro una tale complessità emotiva da coinvolgere profondamente il lettore nelle loro vicende, e da emanciparli dal loro ruolo di finzione per renderli umani, vivi.
Stile e contenuti
Giuseppe Manfridi ci permette di osservare da vicino l’atto creativo di uno scrittore geniale in perenne lotta con i suoi demoni, provato da una vita di dolore, malattia e indigenza e che «porta la propria storia incisa ovunque nelle carni»; nel racconto della gestazione de “Il giocatore” l’autore esprime il tumulto e l’urgenza della scrittura dostoevskiana che, se da una parte erano insiti nella sua natura, dall’altra erano dettati dall’ingannevole contratto stipulato con il suo editore, il viscido F. T. Stellovskij, che aveva anticipato a Dostoevskij la somma di tremila rubli in cambio dell’accordo che se non avesse consegnato la sua nuova opera in ventisei giorni, avrebbe perso i diritti dei suoi romanzi passati e futuri.
Sullo sfondo di una Pietroburgo magnificente e al contempo decadente e oscura, abitata da fantasmi che scorrazzano insieme ai vivi, e che accompagnano lo scrittore in ogni suo passo – «Sono i suoi morti e i suoi vivi, questi. I morti e i vivi di Fëdor Michajlovič. Nemmeno il diavolo glieli potrà sottrarre» – si mette in scena una raffinata biografia romanzata, caratterizzata da una scrittura visionaria che evoca magistralmente lo spirito di quei tempi; una storia intima e poetica che entra nelle vene e si mischia con il sangue, arriva al cuore e lì permane, testardamente attaccata alle sue pareti.
Sinossi del romanzo
Pietroburgo 1866. Lo scrittore, quasi cinquantenne, Fëdor Michajlovich Dostoevskij è afflitto dall’epilessia e reduce dall’aver firmato un contratto capestro col suo mefistofelico editore: si è impegnato a consegnare un nuovo romanzo nell’arco di un mese.
In caso contrario perderà i diritti su tutte le sue opere passate e future. Consigliato dagli amici, si rivolge a una scuola di stenografia che gli mette a disposizione la migliore delle sue allieve: Anja Grigor’evna, una graziosa adolescente curiosa del mondo, che ha ereditato dal padre la passione per la letteratura. Fra i due, in ventisei giorni, nascerà un amore estremo a dispetto dello scandaloso divario di età.
Anja rimarrà la fedele custode dell’opera di Dostoevskij fino alla propria morte, avvenuta trentasette anni dopo quella del marito.
Vera Macchina del Tempo, questo romanzo sonda il mistero del legame profondo che si stabilì tra Dostoevskij e Anja nel breve tempo della stesura del “Il giocatore”, restituendoci, con una scrittura straordinariamente evocativa, atmosfere, clima, e persino odori e rumori della Pietroburgo del XIX secolo.
Biografia dell’autore
Giuseppe Manfridi è uno scrittore e autore teatrale rappresentato in Italia e all’estero.
Tra le sue commedie di maggior successo si ricordano: “Giacomo il prepotente” (1989), “Ti amo Maria!” (1990), “Zozòs” (1994), “La cena” (in scena dal 1990).
Per il cinema ha firmato la sceneggiatura di “Ultrà” che, con la regia di Ricky Tognazzi, vince l’Orso d’argento al Festival di Berlino nel 1991.
Debutta nella narrativa con “Cronache dal paesaggio” (Gremese, 2006), tra i dodici finalisti al Premio Strega nel 2006, come avverrà di nuovo nel 2008 con “La cuspide di ghiaccio” (Gremese, 2008).
Di recente ha pubblicato “Filastrocche della nera luce. Cronache dalla Shoah” (La Mongolfiera, 2018). Ha pubblicato per La Lepre Edizioni nel 2016 “Anatomia della gaffe”, nel 2017 “Anatomia del colpo di scena” e nel 2019 “Anja, la segretaria di Dostoevskij”.
L’ombra del Passato, edito da Mimesis è l’ultimo romanzo di Stefano Sciacca.
Lo scrittore nasce a Torino nel 1982. Si laurea in giurisprudenza e specializza nelle professioni legali presso l’Università degli Studi di Torino, ha studiato all’Università di Oxford e collaborato con l’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale.
Il 2014 è l’anno della sua opera prima Il Diavolo ha scelto Torino di Robin edizioni. Dello stesso anno La Vendetta di McKoy, Europa edizioni 2014. Gli anni a seguire, dal 2015 al 2018, sono un tripudio di saggi, pubblicazioni e articoli: Fritz Lang, Alfred Hitchcock: vite parallele, Falsopiano 2015; Prima e dopo il Noir, Falsopiano 2016; Tracce di Realismo a Noli: dall’impressionismo di Emilio Praga all’espressionismo di Maria Vincenti, Fondazione culturale Noli 2016; Seneca e Dante, insegnanti sulla via per le stelle; Sir William Shakespeare, buffone e profeta, Mimesis 2018. Numerosi sono gli approfondimenti, videoconversazioni e appendici dedicati al tema del cinema, della storia dell’arte e della letteratura: Edward Hopper, Nighthawks e il cinema noir & Mario Sironi, un’esistenza noir; Cinema e Psiche: Il manipolatore, Valiant 2018; Pillole di GUM, Valiant 2018. Tutti i contributi sono caricati sulla piattaforma Youtube. Al 2018 risale anche la sceneggiatura, scritta con Claudio Artusio, Suicidio allo specchio, selezionata tra i finalisti del TOHorror Film Fest 2018. Proprio oggi, 4 giugno, sarà presentata il suo lavoro L’ombra del passato.
L’Ombra del passato: Sinossi
Torino. La seconda guerra mondiale è finita da poco, restituendo un mondo tutt’altro che normale, un mondo senz’anima. E chi invece, un’anima, ancora la possiede, non può fare a meno di sentirsi a pezzi. Proprio come la città, alla quale si ritrova suo malgrado incatenato.
Michele Artusio è un investigatore privato squattrinato, avido, cinico e miscredente. Eppure conserva, da qualche parte, quanto resta della sua etica professionale. E certe notti questo può rappresentare un bel problema!
Il buio mi avvolgeva come un mare infinito, che ti inghiotte per non restituirti più alla vita.
Era solo un’impressione; lo so. Ma mi sentivo assediato. Troppi pensieri appesantivano il mio passo solitamente di felino predatore. Non ora. Ora sapevo d’essere io la preda. Ogni tanto sfilavo sotto una doccia luminosa; tagliava la notte come una gelida lama di coltello. Conficcata tra le
scapole di un uomo. Lampione dopo lampione; mi dirigevo al Jazz Club. Se solo mai fossi riuscito ad arrivarci sulle mie gambe. A distanza di un braccio dal cono di luce, era nuovamente l’oscurità; e si intravedevano a malapena le cicatrici della guerra. Ormai sul punto di rimarginarsi del tutto. Una
tragedia lontana; il passato è passato. È questo che vorrebbero farci credere. Che madornale fesseria! Il passato non smette mai di seguirti. È un’ombra che ti ossessiona; ti perseguita; esige il prezzo delle tue colpe. E non c’è uomo che non ne abbia. Già, un’ombra. Anche io ne avvertivo una addosso. Ostinata come una zecca, che si aggrappa al pelo di un cane morente. Solo che personalmente non avevo alcuna intenzione di morire. Almeno non per quella notte. Perché quella notte qualcosa ancora non tornava. E lo confermava proprio la sinistra presenza che sentivo sul collo. Troppo imprudente perché non me ne accorgessi. Mentre risuonava nella mia
mente. Inopportuna quanto una banda di ottoni che, senza tanti riguardi, si fosse accodata al seguito d’un feretro.
Artusio si trova nel giro di pochi giorni a lavorare su due casi paralleli.
Franco Cairo è un reduce di guerra sentimentale: non ha più notizie della moglie Teresa e perciò lo incarica di ripescarla, anche se a giudicare dalla fotografia della donna non sembrerebbe proprio valerne la pena. A proposito di donne! Eva Valente è la cliente con le gambe più lunghe che Artusio abbia mai avuto: la poveretta ha perso il sonno a furia di rimpiangere il prezioso diadema appartenuto alla nonna e da questa impegnato pur di far fronte a un debito. Sarebbe quindi il caso di recuperarlo. Artusio è avido: entrambi lo pagano profumatamente e lui, gli occhi che brillano, accetta senza troppe domande. Ben presto, però, intuisce che qualcosa non quadra. Lo pagano ancora. Questa volta per starne fuori. Ma Artusio è anche molto testardo e maledettamente orgoglioso. Ora vuole saperne di più: e, così, eccolo invischiato in un’accusa di duplice omicidio. Il commissario Lombardi gli sta addosso, tra i due non corre buon sangue. Artusio non rispetta le regole – talvolta, forse, neppure la legge – sfotte la polizia e si atteggia a duro. Questa è un’occasione come un’altra per dargli la regolata che merita. Si crede un dritto il nostro Artusio, mentre affronta con disinvoltura menzogne e raggiri, agguati e sparatorie. E intanto quei due casi finiscono per intrecciarsi. Eppure questo non lo turba troppo. Magari, l’aveva persino previsto. Del resto, conosce bene l’animo umano il nostro Artusio e ormai non vi ripone più alcuna fiducia. Adesso, però, è destinato a scoprire quanto ancora il male possa sorprenderlo e l’essere umano deluderlo.
L’Ombra del passato: la poetica del dissenso e della disillusione tipica del cinema noir hollywoodiano
L’ombra del passato è un racconto investigativo ispirato al cinema noir hollywoodiano. Dunque il Noir è un cinema realista, incentrato sulla modernità. L’epoca moderna è l’epoca della promiscuità e dell’uguaglianza formale. La caduta dell’antico regime è stata seguita dalla definitiva affermazione delle istituzioni, pubbliche e private, della borghesia. Nella società moderna non esistono più padroni e servi e gli antichi privilegi d’origine feudale sono stati cancellati. Ma nessuna trasformazione giuridica può stravolgere la natura umana.
Il cinema noir, oltre a essere sociale è anche psicologico: esso indaga l’animo umano, con le debolezze, i molti vizi, le poche virtù. Il cinema noir porta sullo schermo il concetto homo homini lupus e si risolve spesso in un racconto sulla sopraffazione dei più deboli ad opera dei più forti. Esso non risparmia le accuse alle istituzioni del potere, incapaci, indifferenti, corrotte. Allo stesso tempo il noir è spesso il racconto dell’insofferenza dell’individuo nei confronti della società in cui è costretto a vivere e del tentativo, vano e autodistruttivo, di evaderne, riscattandosi da un’esistenza carica di frustrazione, risentimento, dolore. In questa denuncia, ancora fortemente attuale, risiede il maggior fascino della poetica del dissenso che, infatti, è sopravvissuta anche dopo la conclusione del periodo d’oro del cinema noir propriamente detto.
Ma il noir è anche disillusione: non esiste lieto fine e, quando per qualche motivo, non si verifica la morte fisica del protagonista, costui subisce sempre un trauma interiore: a morire è una parte di lui, a morire sono speranze e illusioni riposte nella società e nel prossimo. Quante analogie si potrebbero trovare con il clima di paura e sconcerto che stiamo vivendo mentre fronteggiamo il covid-19 e ci scopriamo inermi, vulnerabili, fragili, come mai avremmo neppure immaginato di essere, circondati d’ogni confort e ritrovato tecnologico di ultima generazione. Eppure attraversiamo l’ennesima crisi della modernità – epoca di promiscuità per eccellenza – che, ancora una volta, esaspera disuguaglianze sociali, alimenta l’odio di classe, fomenta il dissenso e accresce la disillusione. Esiste però una speranza: se la giustizia umana è fredda e distaccata, tutta numeri e logica, talvolta il caso – solo un altro modo di scrivere la parola caos – può però correggerne gli errori, manifestandosi sotto forma di quella che gli anglosassoni definiscono poetic justice. E, sì, operando anche per mano di individui come il nostro Artusio: ribelli e sfrontati, eppure dotati di un codice morale che li costringe a solidarizzare con la sofferenza dei vinti e a smascherare l’ipocrisia benpensante dei vincitori. È il tipo irresistibile e tenebroso del romantico avventuriero e, in fondo, non cambia granché la circostanza che egli si aggiri nella buia jungla d’asfalto, anziché nell’assolato deserto del far west!
La città e l’ispirazione figurativa
“Mentre scrivevo L’ombra del passato, la mia immaginazione si nutriva di riferimenti cinematografici, pittorici e letterari” dice Stefano Sciacca
Quelli cinematografici sono evidenti sin dal titolo del libro: L’ombra del passato, infatti, è anche il titolo italiano di Murder, my Sweet (1944), piccola perla nera hollywoodiana, diretta da Edward Dmytryk, interpretata da Dick Powell e tratta dal romanzo di Raymond Chandler Farewell, my lovely (1940).
Le fonti di ispirazione pittoriche vanno da Edward Hoppere Giorgio de Chirico da una parte; George Grosz ed Ernst Ludwig Kirchner dall’altra. In Particolare di Hopper: i “solitari falchi della notte”, sono un omaggio al capolavoro Nighthawks. L’ufficio di Artusio, la sua “tana” riecheggiano l’atmosfera del quadro Office at night; Ancora di Edward Hopper, Night windows se si pensa al male che, dalla strada, risale e, attraverso una finestra socchiusa, penetra nelle case, persino nel sonno sotto forma di incubo espressionista .
In altri passaggi del romanzo la città de L’ombra del passato risulta frenetica, abbagliante, conturbante. La frenesia urbana che trascina e travolge l’individuo è certamente apparentata con l’atmosfera che seduce e corrompe il provinciale Lucien, nella Parigi moderna delle Illusioni perdute (1837-1843) di Balzac, o con il clima viziato e soffocante che costringe al delitto i protagonisti di Dostoevskij e di Döblin, rispettivamente in Delitto e Castigo (1866) e Berlin Alexanderplatz (1929). Ci sono lo spleen e l’alienazione individuate da Baudelaire quale cifra della moderna esistenza metropolitana e l’indifferenza, la disumanizzazione, la meccanizzazione denunciate da Pirandello nei Quaderni di Serafino Gubbio, operatore (1916).
E, così, eccoci anche al rapporto, spesso coatto e controverso, intrattenuto dai b-movies neri americani e New York, che ormai si era sostituita a Parigi quale instancabile e inarrestabile epicentro della modernità. Costretti a scendere in mezzo al traffico stradale, a farsi largo attraverso i marciapiedi affollati, i cineasti noir hanno imposto all’immaginario collettivo la figura della jungla d’asfalto, della città-pandemonio. Ma, in realtà, l’Europa aveva già manifestato la propria versione dell’inferno urbano, non solo per opera del cinema espressionista tedesco, ma anche attraverso l’arte figurativa di Kirchner (una delle cui numerose vedute urbane è riprodotta sulla copertina del romanzo) e di Grosz, il cui celebre dipinto, Metropolis (1917), rappresenta sì il modello americano, ma ne attesta, al contempo, le inquietanti similitudini con la realtà tedesca, perfettamente documentata nel celebre capolavoro di Walter Ruttmann, Berlin – Die Sinfonie der Großstadt (1927).
L’ombra del passato: il jazz e il linguaggio dell’interiorità
L’ombra del passato possiede una sua spiccata musicalità. Innanzi tutto, in omaggio alla tradizione che lega tra loro letteratura hard-boiled, cinema noir e musica jazz, sono inseriti numerosi richiami a questo genere musicale, da Louis Armstrong a George Gershwin, sino al nostro Buscaglione. Ma c’è di più. Perché, mediante un esperimento linguistico certamente spericolato e, probabilmente, non esente da potenziali censure, ho adottato una sintassi volutamente franta che richiama il ritmo della musica jazz, fatta di improvvisazioni, esitazioni, svolte impreviste, scoppi.
“In particolare, ho fatto un ricorso estremo al “punto e virgola” allo scopo di spezzare lo sviluppo del pensiero del protagonista che narra la vicenda in prima persona, finendo così per suggerire un’associazione tra il modo di operare della mente umana e l’andamento tutt’altro che lineare e armonico, ma travolgente, della musica jazz” racconta l’autore. “Si tratta dell’esito del processo di maturazione letteraria che ho attraversato durante il lavoro su Sir William Shakespeare, buffone e profeta: studiando il linguaggio dell’interiorità elaborato da Seneca e Shakespeare, da Dostoevskij e Pirandello, ho provato a dare la mia interpretazione della forma espressiva che si può attribuire allo sviluppo logico del pensiero e del discorso, giungendo a una conclusione, per così dire, opposta a quella di Joyce”
L’approfondimento psicologico dei caratteri, l’accurata descrizione dell’ambiente sociale e urbano, la riflessione sul senso dell’esistenza umana e sul funzionamento del destino assicurano a L’ombra del passato una forte personalità, che non potrà lasciare indifferente neppure il lettore meno esperto del genere.
Un libro su Dostoevskij? Non ci ho mai pensato, è troppo difficile. A parlare, con fare schivo e disarmante, è Pietro Citati, il più poliedrico e avvincente scrittore italiano dei nostri tempi. La sua penna non ha confini: abita ogni recesso della letteratura mondiale. Di cui coglie, sui quotidiani e in corpose monografie da quasi mezzo secolo, i misteri inesauribili e inafferrabili, la natura fuggevole e cangiante, sbrogliando e ricucendo infinite tele romanzesche. Legge e rilegge, scandaglia vite e scompone testi, di ogni epoca e poetica, inabissandosi nello scheletro di genialità letterarie, per poi riemergere con incastri narrativi prima di lui inimmaginabili: autori e personaggi, romanzi e testi poetici vengono spogliati, sviscerati e ricostruiti (o meglio, riscritti) con un ineguagliabile impulso narrativo che invade, con prepotenza, lo scopo critico dei suoi articoli. Impossibile, dunque, distinguere il Citati critico dal Citati narratore: nelle sue pagine, autore e opera divengono protagonista e trama di un inedito e appassionante romanzo critico.
Una cifra stilistica inconfondibile e straordinaria, quella di Citati, una fascinazione del pensiero che seduce innumerevoli lettori, a volte inesperti, spesso privi di cognizioni letterarie, ma sempre attratti da prose intense e sublimi che, con un lessico vivo e tagliente, mai tenue e fumoso, rifuggono ogni intricata astrazione del pensiero. Sottraendo peso al rigido linguaggio accademico e aderendo con leggerezza all’immediatezza della divulgazione culturale.
Perché non un libro su Dostoevskij? Ci chiediamocon insistenza mentre vedo ergersi, dagli articoli citatiani, non uno scrittore ma un’intera regione della letteratura, in cui giace l’immenso corpo del romanzo. Non abbiamo bisogno di cercare altrove – continua Citati in un articolo del 1983 pubblicato sul Corriere della Sera – : tutte le possibilità psicologiche del romanzo stanno qui insieme a tutti i modi narrativi; così che leggendo Dostoevskij, appendendoci a lui come al nostro unico nume tutelare, cibandoci delle sue pagine, potremo scrivere tutti i libri possibili.
Galvanizzante apologia, incommensurabile esaltazione del maestro immenso e inarrivabile, che con la sua mente tragica e sconvolgente fa tremare i polsi persino al più poetico dei critici, scrittore tra gli scrittori, camaleonte della letteratura che impugna penna e sagacia solo dopo sviscerate trasfigurazioni kafkiane, leopardiane, manzoniane, tolstojane, proustiane, cervantiane e tante, tantissime altre ancora, in un perpetuo vortice metamorfico, di volta in volta fugace e travolgente, in cui il critico si lascia invadere da altrui coscienze e verità, senza mai perdere di vista se stesso.
Per me – spiega Citati, rivelandomi un atteggiamento critico unico nel panorama giornalistico italiano – non c’è alcuna differenza tra scrittore e saggista, perché io divento uno scrittore proprio trasformandomi nello scrittore di cui parlo: sono scrittore in quanto sono saggista, in quanto mi trasformo in Dostoevskij per poter scrivere di lui. In questo senso divento scrittore. Questa infinita forza di trasformazione che è in me mi permette di diventare uno scrittore.
Allora perché non un libro su Dostoevskij?
Non ci ho mai pensato, è troppo difficile, confida con aria dimessa. Eppure, acuminando lo sguardo e leggendo le dense e abbaglianti pagine che ha dedicato negli anni allo scrittore russo, tutti gli articoli pluridecennali lanciati come sassi nel mare magnum del giornalismo culturale, scopriamo che quella monografia, inavvertitamente (a sua insaputa?) e sorprendentemente, Citati l’ha scritta. Sulle pagine culturali dei quotidiani, per lettori comuni. Vincendo la faticosa sfida contro il reazionario elitarismo della letteratura. E dimostrando, facendosi beffe delle teorie prevalenti sul futuro dei giornali, che la carta stampata possiede ancora un’utilità culturale irrinunciabile. È di questo libro invisibile che parliamo, in un’intervista che si rivela un’interessante e coinvolgente disquisizione letteraria.
Lui, Citati, il critico che si insinua con vibrante empatia nell’individualità più intima e serrata di uno scrittore per narrare la genesi di un romanzo che da quell’individualità è stato forgiato; il critico che, a partire dalle intime verità di ogni autore, rischiara i significati più reconditi dei loro capolavori, non poteva non trasfigurarsi nel romanziere che più di chiunque altro intreccia, in maniera imprescindibile, il dato poetico con quello psicologico-biografico. La sconfinata e lacerante sensibilità che assale lo spirito dostoevskiano sin dalla giovinezza, acuendo la percezione del male che genera irrimediabilmente depressione e nevrosi, prorompe, difatti, in una melanconia e in un’inquietudine che invadono la sua scrittura fino a diventarne tessuto di carne e sangue. È una fusione che Citati individua ed esprime mirabilmente.
Racconto la vita di Dostoevskij in certi anni e racconto come ha scritto Dostoevskij negli stessi anni, portando a un’identificazione tra ciò che ha fatto, immaginato, pensato, vissuto e ciò che ha scritto.
Dunque, non mera elencazione di eventi e vicissitudini, ma azione chirurgica, vaglio acuminato e instancabile ricerca di un’esistenza tutta interiore:
mi soffermo non tanto sul racconto della sua vita, quanto sul suo carattere, sull’essenza della sua persona: parto dall’essenza della sua persona biografica e di lì passo all’essenza della sua letteratura.
Come riesca a carpire quest’essenza magmatica e aggrovigliata credo sia il mistero impenetrabile che aleggia intorno alla sua gloria letteraria. Citati confessa:
ammesso che ce la faccia, non le saprei dire come. Comunque cerco di farlo.
Lavorando a tu per tu e di concerto con Dostoevskij, diluendo le due scritture e coordinandole fino a farle echeggiare all’unisono. Il risultato è straordinario. Scarto assente, narrazione amplificata: nelle pagine di Citati intuiamo un Dostoevskij fino a quel momento ignoto. Inesplorato. Infelice ed epilettico come Raskolnikov, disperato e ossessionato dagli abissi dell’intelligenza umana come l’uomo del sottosuolo, algido e diabolico come Stavrogin. Ma i pensieri di Dostoevskij non si proiettano solo sui protagonisti:
ci sono punti in cui abita di più, punti in cui abita meno, ma in realtà Dostoevskij abita tutto il libro.
E lei come fa a rintracciarlo tra le numerose e poliedriche identità che popolano la scena romanzesca? Si tratta di dover ricostruire le idee dello scrittore russo a partire dall’intricata rete dei suoi personaggi, individuando in ognuno di loro la mente geniale, mistica, tragica dell’autore. Lavoro non poco affannoso.
Se Dostoevskij, scrivendo, è onnipresente nei suoi romanzi, io, leggendo, sono onnipresente quanto lui. Così, mentre lui lavora di fantasia, una immensa e mostruosa fantasia, tale che non esiste nell’Ottocento scrittore che abbia una fantasia prodigiosa come quella di Dostoevskij, io lavoro di analisi. Ricostruisco la sua figura attraverso tutte le parole dei suoi racconti; analizzo ogni luogo del testo: lo suddivido, lo leggo e rileggo, cercando di capirne tutti gli aspetti. Inoltre lavoro molto sulle lettere, per me sono una cosa fondamentale. È sulla base delle lettere che analizzo i romanzi.
Consegnandoci, così, un nuovo personaggio letterario, nato dall’incastro narrativo tra autore e personaggi. Un nuovo Dostoevskij che non è soltanto “doppio” (concetto che nello scrittore russo ricorre spesso: a partire dal capolavoro della sua giovinezza, “Il sosia”, l’avrebbe poi inseguito in tutti i suoi scritti, dalle “Memorie del sottosuolo” ai “Fratelli Karamazov”):
doppio è dir poco, perché Dostoevskij, come i suoi romanzi, è sempre molteplice. La critica che faccio è un tentativo molteplice di far rivivere questa cosa molteplice. Questa cosa è non solo analizzata, ma poi anche raccontata, quindi diventa ancora più molteplice.
In questo denso fluire di plurime identità, nella folla di ossessionanti pensieri avviluppati in una sola, sublime e terrificante natura, qual è l’aspetto di Dostoevskij su cui ama soffermarsi?
Difficile dirlo, molto difficile. In realtà non scelgo io di cosa scrivere, ma sono scelto dai suoi diversi aspetti. Senza alcun dubbio, però, posso dire che “I Demòni” sono il miglior libro che Dostoevskij abbia mai scritto.
Lo scrittore di romanzi gialli Umberto Mapelli, nato a Besano, in provincia di Varese 38 anni fa, a soli 13 anni inizia a scrivere i suoi “raccontini” che lo stesso autore ha definito, in retrospettiva, ancora troppo immaturi e dallo stile estremamente semplice. In pochi anni, in seguito anche alle proprie esperienze personali e sentimentali, che il nostro autore specifica essere legate al mondo della notte e dei divertimenti nella disco, cresce e si anima in lui, si viene delineando la fisionomia di scrittore dai lineamenti sempre più definiti. Il ricatto, pubblicato nel 1999, non a caso è ambientato interamente in una sala da ballo ed è frutto del conguaglio dei “raccontini” giovanili con le esperienze successive. La predilezione per il giallo è innata, forse legata alle letture giovanili, ma non esiste dietro questa scelta una consapevolezza d’intenti. Si tratta perciò del frutto di una risposta istintiva alle propria tendenza giallista.
Mapelli ha pubblicato tre opere: Il ricatto, I giorni del santo e L’ombra di Angela. Ma a chi ispirarsi e quali i modelli di un giallista? Lo scrittore li identifica in alcuni dei più grandi scrittori dei secoli passati, anche se ci tiene a specificare che nessuno di questi grandi ha influito in maniera preponderante sul suo stile. Più che modelli diretti a cui rifarsi allora si tratta, per utilizzare l’espressione adottata dall’autore di “succhiare il nettare fecondo che poteva aiutarmi nella composizione delle mie opere”. Ma quali i nomi? Si parte dal giallista britannico Edgar Wallace, passando per il geniale Fedor Dostoevskyj e per finire non dimenticando il nostrano Umberto Eco. Se si parla di opere di autori contemporanei, invece, a Mapelli non viene in mente un autore prediletto. <<La scelta del libro da leggere è istintiva>>, afferma. Si passa quindi dai gialli e dalle storie di spionaggio alla lettura delle biografie dei grandi personaggi della storia per arrivare ai classici intramontabili dell ‘800/’900. Tra i libri sul comodino ci sono Ken Follet, per gli italiani invece un voto di insufficienza quasi, o perlomeno si evince un po’ di scetticismo. La curiosità del giallista si può definire non troppo entusiastica per i libri di De Carlo e Golinelli, segnalati ma sui quali Mapelli non intende sbilanciarsi.
Una caratteristica comune ad artisti e scrittori è quella di cercare di essere qualcun altro. La letteratura, ma anche la più frugale produzione narrativa di massa, cerca spesso un topos, un sito, che sia fisico o meno non è rilevante, in cui traslare o riconoscere se stessi. In questo caso Mapelli si riconosce e supera la propria limitatezza tipica di tutti gli uomini, proiettandosi in un giovane, Roberto Ghiselli, un ragazzo che ricorda al nostro scrittore la sua giovinezza baldanzosa e spensierata, ma non solo. Il protagonista de Il ricatto lavora nelle discoteche, luogo centrale nella giovinezza dell’autore, è affascinante e intraprendente. Un personaggio quindi che, così sembrerebbe, vive sfrecciando a tremila e fregandosene di tutto. In realtà si tratta di un uomo fragile, volubile, che dopo una sconfitta cade in preda allo sconforto. Mapelli si identifica in questo personaggio, contraddittorio in un certo senso perché quasi un viveur, ma allo stesso tempo vittima del materialismo e della vacuità di un mondo fatto di illusioni e carta straccia. In un certo senso Roberto Righelli è un personaggio tipico, se vogliamo, perché non è altro che il disegno della fragilità che oggi ancora ogni giovane che si affaccia al futuro, purtroppo, presenta. Alla domanda: “Cinque aggettivi per Il ricatto?”, l’autore risponde: <<attraente, claustrofobico, intrigante, coinvolgente, evanescente (per il finale “in sospensione”). Un libro da leggere, sicuramente>>.
L’altra opera, L’ombra di Angela, con la quale Mapelli rimane fedele al genere giallo, è ambientato interamente nella Milano degli anni ’80. Anche in questo caso si parla di una città esplorata e amata dallo scrittore nell’età della formazione, dello scontro: l’età adolescenziale. Lo scrittore ci racconta di come molti amici e persone care siano stati tramutati in personaggi nel libro, e di come l’amore giovanile (ovviamente non corrisposto) abbia svolto un ruolo significativo nel far “scattare” la molla creativa dalla quale nacque il nucleo della storia.
Ma cosa ne pensa Umberto Mapelli dello scrittore “digitale”? <<Nessuna differenza, lo scrittore non cambia>>, risponde, nonostante egli riconosca che, grazie ad internet e ai social network, è riuscito ad intrattenere contatti con molti professionisti del settore e a dare maggiore visibilità all’uscita del libro L’ombra di Angela. Se Mapelli abbia mai pubblicato un e-book? <<Mai, per ora. Ma non si esclude che non accada in futuro, se questo può permettere una maggiore diffusione dell’opera>>. Alla domanda cosa preferisce Mapelli scrittore, risponde: <<Io sono affezionato alla pagina di carta e all’odore dell’inchiostro, soprattutto nella lettura. Ma, chissà, forse la mia prossima fatica vedrà la luce proprio in formato digitale.Che la tradizione non vada mai dimenticata, bene dunque la digitalizzazione del sapere letterario, ma mai dimenticare le origini e la materialità dei nostri amatissimi libri. Questa è la vera rivoluzione. Cambiare ma non obliare il passato>>. Infine, cosa consiglia Mapelli al giovane che si avvicina al mondo della scrittura, in questo momento critico? <<Pazienza, tenacia: queste la doti che uno scrittore deve avere per non cadere nello sconforto. Sono molti gli ostacoli da affrontare: da quello dell’autofinanziamento, che può generare delusione e grandi flop, a quello del blocco del foglio bianco, ma anche la strenua ricerca di un potenziale editore che punti sulla nostra opera>>.
Ma alla fine la passione travolge l’inerzia e vince, sempre. Così l’animo dello scrittore afflitto o scoraggiato tornerà sempre a scrivere, come gli occhi tornano a guardare la luce, dopo aver pianto, così un pittore torna a dipingere la sua sposa, dopo mille muse di piacevole occasionalità. Perciò, mai scoraggiarsi futuri scrittori!
Umberto Mapelli di tutto ciò è la prova. Ci invita ad assaporare i suoi gialli, leggendone, tra le righe, le dinamiche di uno scrittore in lotta per far destare la propria opera e mettersi a disposizione di ogni lettore che voglia conoscerla. Uno scrittore in lotta senza armi, come la maggior parte degli artisti viventi (e non solo).
L’originale opera del teorico della letteratura russo Michail Michajlovic Bachtin (Orel, 17 novembre 1895- Mosca, 7 marzo 1975), considerato tra i massimi pensatore del ventesimo secolo, spazia dalla letteratura alla storia passando per la filosofia, elaborando un’ardita analisi del romanzo. Bachtin affronta il problema della creazione letteraria, della forma, del contenuto, della parola, dello spazio e del tempo nel romanzo moderno; in “Estetica e romanzo”inizia la sua riflessione dal romanzo greco e latino e da quello cavalleresco.
L’inesauribile scambio di energie critiche fra teoria e storia produce una gamma vastissima e straordinaria di interpretazioni ed intuizioni, supportate da una metodologia rigorosa ma innovativa. “Estetica e romanzo” potrebbe essere letto come espressione di una filosofia «dialogica» libera e rivoluzionaria.
In “L’autore e l’eroe”, sua opera giovanile, fonda un’analisi fenomenologica del rapporto “io/l’altro”, con sorprendente coerenza.
La critica di Bachtin non è facilmente inseribile in una corrente, egli considera fondamentale ai fini dell’interpretazione del testo, la presa di coscienza del contesto storico. Non si può prescindere dagli eventi storici e non si può leggere un testo in maniera autonoma. Bachtin prende in considerazione tre aspetti: la teoria del linguaggio,la teoria dei generi letterari,e la teoria del comico.Per la prima indispensabile è il dialogo, identificando tutte le forme di scrittura. La teoria dei generi corrisponde a quella del romanzo; genere molto apprezzato dallo studioso russo per la sua modernità e realismo. Propone poi per quanto riguarda la teoria del comico, un approccio alla realtà tramite il riso, sovvertendo i valori tradizionali.
Per lo studioso tutto il linguaggio non può che essere dialogico, comprendendo in questo il rapporto tra autore ed eroe anche estetica ed etica. L’autore in questo senso, non tiene i fili dei suoi personaggi come se fossero burattini, ma scopre e si sorprende insieme a loro; solo il romanzo, per Bachtin, può garantire la massima espressione della forma dialogica.
Senza dubbio Bachtin ha contribuito in gran parte allo studio della semiotica cosi come dell’estetica, evidenziando il ruolo del narratore e la dialogicità dei segni e delle parole all’interno sia dell’opera letteraria che dell’opera d’arte; fondamentale a tal proposito i suoi due saggi su Rabelais e Dostoevskij, rispettivamente “Dostoevskij, poetica e stilistica” e “L’opera di Rabelais e la cultura popolare”. Nel primo il critico russo individua le categorie della poetica dello scrittore/filosofo suo conterraneo , oggetto di molte riflessioni, ma per la prima volta Dostoevskij viene presentato come un innovatore, fautore di un nuovo modo di scrivere chiamato da B. “polifonico”, ovvero a più voci. Nel secondo saggio, Bachtin cerca di comprendere la lingua delle forme e dei simboli carnevaleschi, quella di cui si avvale Rabelais; definendo «realismo grottesco» il sistema di immagini della cultura comica popolare.
La semiotica e l’estetica sono delle scienze naturali e per Bachtin devono essere rifondate sul principio dell“‘intersoggettività” e della “comprensione dialogica attiva” riscontrabili nella parole e nei gesti che ci offre la società e la storia attraverso le innumerevoli relazioni tra Io e l’Altro; le quali influenzano fortemente l’impostazione di tutte le scienze naturali.