Elegia e ironia nella poetica di Montale. “Ho sceso dandoti il braccio….”

Ho sceso, dandoti il braccio… è una delle più note dell’ultima stagione montaliana, in cui il poeta ligure ricorda la sua vita coniugale, allegoricamente simbolizzata dalla discesa delle scale e dal viaggio dell’esistenza, che, sebbene sia stato lungo, al poeta appare breve. La poesia è in versi liberi.

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.

Il mio dura tutt’ora, ne più mi occorrono

le coincidenze, le prenotazioni,

le trappole, gli scorni di chi crede

che la realtà sia quella che si vede.

 

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio

non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.

Con te le ho scese perché sapevo che di noi due

le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,

erano le tue.

 Ho sceso dandoti il braccio… composta nel 1967, è la quinta di Xenia II, dal nome latino che fa riferimento ai “doni votivi” che si facevano a un ospite nel momento in cui lasciava l’ abitazione dove era stato accolto,  si tratta precisamente di una sezione di Satura, una raccolta di poesie uscita nel 1971 in cui vi è un vero e proprio mutamento radicale nello stile e nelle intenzioni di questo straordinario autore rispetto alle sue opere precedenti.

La morte della moglie, Drusilla Tanzi, soprannominata scherzosamente Mosca per un problema alla vista , avvenuta nel 1963, indusse Montale a un mutamento prettamente stilistico ma non solo, ovvero sia iniziò a sperimentare uno stile più ironico e una scrittura di registro maggiormente colloquiale come dimostra Ho sceso dandoti il braccio.., basti pensare allo stesso termine Satura e dunque al carattere miscellaneo,  dal punto di vista formale e contenutistico, dei componimenti.

Nella poesia di Montale inizia dunque a farsi spazio l’ironia, a tratti amara a tratti più propriamente scherzosa ma sui generis che contribuisce a modificare i tratti della sua scrittura e delle sue intenzioni con un mutamento di tono e di registro e dunque non vi è più un linguaggio formalmente alto,  aulico, sublime, classicheggiante ma di respiro più colloquiale, ironico quasi una presa di distacco consapevole dal mondo che lo circonda.

Quando scrivevo i primi libri non sapevo che avrei raggiunto gli ottant’anni.

Passati gli anni, guardandovi dentro ho scoperto che si poteva fare anche altro, l’opposto anche […] ho voluto suonare il pianoforte in un’altra maniera, più discreta, più silenziosa.

Per quanto riguarda la struttura delle poesie vi sono quattro sezioni: Xenia I e II e Satura I e II, le prime due raccolte sono le elegie dedicate alla moglie scomparsa le seguenti invece, sempre per il carattere miscellaneo che caratterizza questa raccolta dal punto di vista contenutistico e formale di cui si è parlato precedentemente, contengono testi che raccontano la sua visione rinnovata della vita e di ciò che lo circonda, con un filtro ironico e di distacco, quasi una raggiunta consapevolezza e una lucida riflessione che ha come scopo quello di prendere atto della realtà del mondo contemporaneo.

In merito a Satura si è parlato spesse volte di contrapposizione e di disarmonia tra elegia e ironia, come se l’elegia, in origine caratterizzata dal verso del lamento ovvero sia il distico elegiaco, l’alternanza di esametri e pentametri che caratterizzavano e davano vita a un canto di dolore non potesse essere accostata a una scrittura ironica e di registro inferiore ma è sufficiente soffermarsi sulla poesia di Montale per comprendere l’erroneità di questa considerazione; è disarmante la sua potenza comunicativa che, pur mutando registro, intenzioni, forma e contesto da vita a delle immagini che nascono e compaiono improvvisamente davanti allo sguardo dei lettori, tale è la straordinarietà di questo autore.

Il talento e la sensibilità di Montale consentono che si adagi sul testo una patina di emozione che permette a sua volta al linguaggio scelto, pur non essendo aulico e classicheggiante, di esprimere perfettamente, grazie alla sua potenza comunicativa, il significato e l’intento delle sue parole scritte per la moglie scomparsa con una semplicità ma allo stesso tempo efficacia disarmante.

“Le carabattole”, di Eugenio Montale

autoritratto di Montale

Diario del ’71-’72 è una delle ultime raccolte di Eugenio Montale che continua in qualche modo la linea poetica di “Satura”; assume toni più attenuati, lievi, sussurrati come segreti ma non abbandona l’ ironia e la parodia. Oscillando tra pessimismo e ottimismo il poeta vuole confrontarsi con il linguaggio della cultura contemporanea; percepisce una società che trascina come un vortice, dove tutto è deciso da ingranaggi incontrollabili e prestabiliti. L’unica forma di comunicazione e di sopravvivenza nella società di massa che sempre più sembra trasformarsi in una trappola, rimane la poesia; eppure diventa impossibile muoversi perché il mondo ha subito una «decozione/di tutto in tutto» e «vede il trionfo della spazzatura». Il poeta allora decide per un «rispettabile prendere le distanze» che rappresenta il fuggire da un presente che sembra non avere più nulla da dare, ma l’unico modo possibile che gli consente di osservare i movimenti, i gesti, i rumori e le voci di una vita oramai artificiale e lontana.

Eppure, nonostante tutto, la poesia non gli garantisce più nessuna salvezza, anche la Musa è stata sporcata dalla lordura e dalla degradazione. Cerca di fissare alla pagina il vuoto, quella percezione di mancanza che travolge il suo tempo. Guarda, osserva e dissacra tutto cioè che è condizionato, illusorio, ogni tentativo di persuasione e di convincimento fallace e grigio; nel piatto modernismo che avanza, le esistenze si susseguono senz’anima, l’umanità pensa e cammina tutta allo stesso modo, è fatta in serie e tutto ciò in cui crede è insensato e senza fede colorato da scialbi e inefficaci dogmi di poca verità. In questa crisi senza freni dove il crollo e la decadenza sono l’unica certezza si affaccia in questa poesia il tema della morte, che si colora di tinte inusuali e fosche.

Il poeta percepisce l’intera umanità come un mondo di morti-viventi o di viventi-morti: «chi sta sul trampolino/è ancora morto,morto chi ritorna»; sembra non esserci davvero più speranza quando scrive che «tutti siamo già morti senza saperlo». L’insopportabile peso della realtà che non ha più spessore sembra travolgere ogni piega dell’esistenza, gli oggetti, i luoghi, i ricordi, il tempo stesso. Eppure in questo pessimismo venato di esistenzialismo e metafisica c’è un luogo nascosto, segreto, che custodisce e immortala la vera sofferenza di Montale. Ed è proprio Nascondigli il titolo della poesia in cui Montale sussurra il suo dolore, il suo dispiacere; dedicata alla moglie, Drusilla Tanzi, morta nel 1963, affettuosamente soprannominata Mosca per lo spessore dei suoi occhiali. In questi versi assistiamo quasi ad una confessione: la quotidianità è difficile da vivere, rimbalza tra gli oggetti cari, e fa stringere il cuore:

Quando non sono certo di essere vivo la certezza è a due passi ma costa pena ritrovarli gli oggetti, una pipa, il cagnuccio di legno di mia moglie, un necrologio del fratello di lei, tre o quattro occhiali di lei ancora!, un tappo di bottiglia che colpì la sua fronte in un lontano cotillon di capodanno a Sils Maria e altre carabattole. Mutano alloggio, entrano nei buchi più nascosti, ad ogni ora hanno rischiato il secchio della spazzatura. Complottando tra loro si sono organizzate per sostenermi, sanno più di me il filo che le lega a chi vorrebbe e non osa disfarsene. Più prossimo negli anni il Gubelin automatico tenta di aggregarvisi, sempre rifiutato. Lo comprammo a Lucerna e lei disse piove troppo a Lucerna non funzionerà mai. E infatti…

Immerso nelle carabattole, “Ossi di seppia” che ancora invadono il suo cammino, Montale è circondato dagli oggetti che gli ricordano la sua Mosca; sono lì, feticci insostituibili di un’esistenza che non c’è più; occhiali che non potranno più vedere, un necrologio che non potrà mai essere letto, un tappo di bottiglia che non colpirà più nessuna fronte; oggetti che complottano per tenere vivo il filo della memoria, amati ed odiati che rischiano di essere buttati via; si nascondono, si negano, si manifestano, sono come la memoria che nonostante faccia male non può essere cancellata. E poi infine appare l’oggetto più prezioso di tutti, un vecchio orologio, imponente simbolo della vita e della morte. Questa volta il tempo si è fermato per il nostro poeta, il Gubelin automatico, ricordo adorato e melanconico, non funziona più; forse si è fermato proprio lì a Lucerna, e ha smesso di funzionare, dispettoso, molesto quasi a ricordargli un tempo che non potrà più tornare.

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