Maria Pia Selvaggio direttrice editoriale di ‘2000diciassette’: ‘L’editoria avrebbe bisogno di una stabilizzazione, di regole nuove e di incentivi’

Maria Pia Selvaggio è direttrice editoriale della casa editrice 2000diciasette. Editrice ma anche scrittrice, la sannita Maria Pia Selvaggio nasce a Telese Terme (BN).

La sua prima opera risale 2006, Il Sapore del Silenzio. A seguire la raccolta di racconti Borgofarsa (2007); L’Arcistrea (2008) dedicato alla janara beneventana Bellezza Orsini; Lei si chiama Anna (2010), romanzo ispirato alla tragedia di Via Puccini (Roma), che ha visto protagonisti Anna Fallarino ed il marchese Camillo Casati Stampa di Soncino; nel 2011 partecipa a varie antologie con i racconti Larissa e Le Sette Ore ispirato ad una vicenda vera.

Nel 2012 edita il romanzo Ai Templari il Settimo Libro che pubblica con il gruppo Publiedi-Raieri-Panorama-Si di Giuseppe Angelica. Intanto inizia la stesura del romanzo Le Padrone di Casa.

Nel 2014 Maria Pia Selvaggio entra a far parte di un progetto europeo che la vede impegnata con il teatro attraverso le opere Hamida rappresentata in Belgio e Francia; ancora nel 2016 la seconda opera drammaturgica Kariclea messa in scena a Viterbo, Firenze, Grecia, Spagna e Bruxelles. Nel 2017 decide di dare in stampa con la casa editrice Edizioni 2000diciassette, Le Padrone di Casa.

2000diciassette è una preziosa realtà editoriale, testimonianza dell’impegno e del lavoro portato avanti a livello nazionale ed internazionale da editori coraggiosi e innovativi che vogliono valorizzare il territorio in cui vivono, insieme ai loro talenti.

 

Quando e come è nata 2000diciassette e su quali scrittori punta maggiormente? È stato complicato fondare una casa editrice nella provincia beneventana?

La casa editrice 2000diciassette nasce nel gennaio 2017 a Telese Terme (BN) e il nome sancisce l’anno di nascita e di rinascita personale della sua fondatrice. Ero stata pioniera della letteratura al femminile nel Sannio, la prima donna a pubblicare in Valle Telesina nel 2005. Ci volle molto coraggio e fui sottoposta a molte critiche, ma ricevetti anche molti incoraggiamenti. Lo stesso coraggio mi ha portato, anni dopo, a tentare di valorizzare il territorio, proponendo al mondo la lettura di autori sanniti. La finalità della casa editrice è quella di un ripristino della letteratura Sannita, che ha visto autori eccelsi quali Telesio, di cui si sono perse le tracce letterarie, ma che fonti quali Burger e Beloch citano nei loro studi, attraverso autori emergenti, per poterla proiettare nel mondo e nello stesso tempo favorire la lettura e la distribuzione di autori nazionali ed internazionali. Il nostro motto è: Dal Sannio, nel Sannio. I fondatori: Marcella De Mercurio, Pier Luigi Perrottelli, Jessica Vitelli, Luigi Morone e Christian D’Occhio, insieme allo staff di correttori e giornalisti, cercano di rendere sempre efficaci e propositive le proposte editoriali. Tutti gli autori presenti nelle collane editoriali hanno propri spazi e peculiarità particolari, che rendono i loro lavori letterari unici nel panorama culturale.

Quanto è importante per il territorio e per gli scrittori poter avere come riferimento la vostra casa editrice 2000diciassette?

Mi sorge spontanea l’affermazione trita e ritrita: “nessuno è profeta in patria”, ma devo affermare con sincerità che: si, non è stato facile e non lo è tuttora, dopo cinque anni dalla nascita della casa editrice farsi spazio in realtà dove a contestualizzare la cultura sono “circoli mecenatici” chiusi alle novità letterarie e culturali, soprattutto se considerate provenienti dal “basso”. Noi 2000diciassette diamo “inchiostro” e possibilità a chi non avrebbe mai il coraggio di esprimersi se non supportati, diamo voce ai fragili, a coloro che si sentono esclusi, ma che hanno tanta ricchezza e cultura da trasmettere. Stiamo dando vita a sogni che solo attraverso la scrittura, tante volte, possono essere realizzati. Siamo lontani da tecniche di “ego-cultura”, di cultura fatta di provincialismo e corse alle presentazioni più appariscenti, lontani da superficialità e bigottismo. Amiamo la scrittura genuina, la competenza profonda senza presunzione e l’apertura verso ampi spazi culturali. Abbiamo autori nazionali e internazionali e da poco abbiamo sancito una rete letteraria con poeti e scrittori francesi

Qual è la risposta del pubblico e del territorio alle iniziative della vostra casa editrice?

Si fa sempre molta fatica a scardinare quelli che sono luoghi comuni legati ad una visione provinciale delle manifestazioni letterarie e culturali, legate, mi ripeto, ad un certo mecenatismo borghese, ma due sono i punti di forza che su cui poggiamo le nostre innovazioni editoriali: inclusione e sinergia. Non senza un po’ di orgoglio, possiamo affermare che in parte siamo riusciti a sollecitare un pubblico sempre più ampio di lettori, uditori e scrittori del territorio, proponendo canovacci di presentazioni sempre più ampi ed inclusivi, dove a partecipare, sempre più spesso, sono anche persone che avevano un’idea “soporifera” degli eventi legati alle letture ed ai libri, o peggio, ne avevano un’idea esclusivamente “celebrativa”. Agli autori che editano con 2000diciassette noi forniamo le ali, accompagnammo il “volo” e spesso alcuni di loro riescono a trovare il coraggio per proporsi anche a casa editrici che credono superiori, complice l’idea che uscire fuori e percorrere altri tratturi editoriali sia meglio: questo per noi è fonte di immensa soddisfazione.

Come scegliete gli autori da pubblicare e secondo quali parametri?

Gli autori propongono le loro opere e un team di esperti, presieduto dal curatore di ogni collana, decide la pubblicazione, a seguire l’opera viene sottoposta al Direttore Editoriale. Abbiamo collane editoriali che vanno dalla narrativa, romanzi e racconti brevi, alla saggistica; dalla poesia al poema moderno, sono presenti in catalogo anche delle opere teatrali. Capita che qualche titolo nasca da eventi o progetti in corso, abbiamo delle antologie che toccano svariati temi: dall’importanza del cioccolato “Je suis Chocolat”, autori vari, all’autunno con “d’Autunno”; per alleviare il senso di solitudine provocato dalla pandemia, in pieno regime pandemico abbiamo editato “A porte chiuse”, ove autori di tutta Italia si sono confrontati in un abbraccio comune, fatal catena d’affetto e d’intenti.

Cosa pensa dell’editoria italiana?

Il problema della lettura in Italia si intreccia con caratteristiche culturali e socio-demografiche; la popolazione diminuisce e diminuiscono i lettori, bisogna diffondere la consapevolezza che chi legge fa più strada. L’editoria avrebbe bisogno di una stabilizzazione, di regole nuove, di incentivi che troppe volte vengono meno. I nuovi editori sono davvero degli eroi, in un mercato che diventa sempre più competitivo e saturo. In buona sostanza, chi ha più micce economiche sopravvive e i piccoli e medi editori si “arrangiano” per rimanere a galla. Troppo spesso, gli scrittori pubblicati da medie o piccole case editrici sono infinitamente più bravi di scrittori a cui è destinata fama nazionale, ma la Storia insegna che è un fenomeno avvenuto e ripetuto nel corso dei secoli, basti pensare agli autori cardine della letteratura italiana, per accorgersi che sono morti in povertà e qualcuno senza la fama che ha meritato a-posteriori. Credo sia importante aiutare le biblioteche, che possono essere quei punti diffusi di mediazione della lettura sul territorio per tutti i cittadini.

Quale tra le vostre collane riscuote maggior successo? Tra di esse se ne annovera una denominata Fragili? Perché questa scelta?

Il memoire. La collana dedicata al memoire rappresenta il 60% delle bozze letterarie che riceviamo, seguita dalla collana di poesie, romanzi e racconti. Una collana esclusivamente dedicata alle “fragilità”, nata circa tre anni fa, è divenuta forza motrice per coloro che spesso hanno timore a palesare le loro storie, a raccontarsi, a denunciare. Bullismo, sordità, accoglienza degli stranieri, handicap fisici, depressione, tutti problemi legati al sociale e rappresentati in prima persona da chi vive giornalmente i vari disagi. Per la prima volta in Italia una collana editoriale esclusivamente dedicata a tematiche sommerse, ma che hanno bisogno di essere raccontate. In questo ambito ci siamo mossi attraverso una rassegna “ConTesti”, che ha raccolto consensi da tutta Italia. Borghi della lettura ha accolto questo progetto con entusiasmo, adottando simbolicamente tre nostri autori. Un’altra collana “Ruah” riguardante la Storia delle Religioni, curata dal Teologo Christian D’Occhio, sta riscuotendo molti consensi. Personalmente, ogni nuovo autore mi emoziona, consapevole che accanto a me e tra fogli sparsi, pulsa un’anima.

Ci può dare qualche anticipazione sulla prossima pubblicazione in uscita e suoi progetti futuri?

Nei nostri progetti futuri l’idea di una rete con il mondo editoriale europeo, per uno scambio costruttivo e ampio. Per l’anno prossimo già tantissime le proposte ricevute che riguardano i vari generi e le varie collane. Molti i giovani che si avvicinano al mondo della scrittura e questo ci riempie di orgoglio: essere forieri di nuovi talenti è il sogno di tutti gli editori. Molti i titoli che saranno presentati, e tra i nomi che proporremo anche scrittori stranieri. La prossima uscita in ordine di tempi? Non potendo preannunciare tutte le uscite, che saranno abbondantemente pubblicizzate di volta in volta, annuncio la mia. Da tre anni ero al lavoro su un carteggio dal fronte fra Carlo Emilio Gadda e la zia Isabella Rappi Lehr, per concessione dell’archivio contemporaneo Vieusseux, dell’erede di Carlo E. Gadda: Arnaldo Liberati e con l’approvazione dell’Università La Sapienza di Roma, che ho terminato in questi giorni e che vedrà la luce nel mese di gennaio. Un lavoro difficile su una delle personalità più complesse della letteratura italiana.

 

Per consultare il catalogo della casa editrice 2000diciassette:https://www.edizioni2000diciassette.com/catalogo/

 

Gli editori italiani al tempo del self publishing

Nonostante le statistiche e i numeri forniti da alcune associazioni di editori che riportano una crescita complessiva delle vendite, il mercato del libro sta soffrendo un crollo epocale che non riguarda soltanto il calo dei lettori, ma la crisi dell’oggetto-libro in quanto media, che oggi deve competere con videogiochi, televisione, film, Facebook, Instagram, Wikipedia, Netflix, siti di informazione gratuiti e una sterminata serie di altre realtà. Non è un caso se in questi ultimi tempi assistiamo alla decimazione delle nostre librerie.

Insieme alle librerie di catena (nell’ultimo anno due Feltrinelli hanno chiuso i battenti nella Capitale), ogni anno chiudono centinaia di librerie storiche, come è il caso della Libreria del Viaggiatore in via del Pellegrino a Roma, o quello ancora più recente della torinese Paravia, che aprì per la prima volta la saracinesca nel 1802.

Questa emorragia viene però annualmente offuscata sia dai risultati di affluenza di pubblico ai grandi eventi fieristici inerenti al libro, che dai dati di crescita (+ 2% del fatturato nel 2019, sic!) riportati dall’AIE (Associazione Italiana Editori), senza contare però che c’è un calo esponenziale dei lettori forti e che ogni nuovo nato è un consumatore digitale e non di carta stampata. Ma a chi possiamo imputare la colpa di questa crisi, che ha portato le librerie a perdere nell’arco di un decennio il 10% delle vendite del mercato, passando dal 79% nel 2007 al 69% nel 2018?

Da un lato c’è chi dà la colpa alla “gente che non legge più”, quindi a quello che i più colti chiamano analfabetismo di ritorno, un problema legato ad una crisi di cittadinanza, al fallimento del nostro sistema culturale ed educativo. C’è chi invece dà la colpa ad Amazon, ai prezzi troppo competitivi che si può permettere questa piattaforma (eliminando di fatto l’intermediario librario dalla filiera) e ai vantaggi fiscali che il suo sterminato potere gli concede di fronte alle pressioni, anch’esse deboli, dei governi. Chi dà la colpa ai distributori, che si mangiano fette enormi dei proventi sul libro. E c’è chi, in definitiva, dà la colpa ai librai stessi, incapaci di gestire la libreria come si farebbe con una qualsiasi altra impresa. Qualcuno invece dovrebbe dare la colpa agli editori, che invocano la crisi permanente elencando i motivi sopracitati ma senza mai soffermarsi sul problema ontologico che riguarda la loro stessa professione.

A cosa serve, oggi, un editore? Oggi che esiste il selfpublishing, e che ognuno può pubblicare i propri contenuti online, oggi che il lettore è diventato un prosumer, un creatore di contenuti, prima che un suo fruitore? Oggi che ci sono più scrittori che lettori? Oggi che il 90% dei libri immessi sul mercato editoriale vende meno di 100 copie? Se questo “dannato” prodotto libro non si vende più, perché obsoleto, costoso, di scarsa qualità, perché non competitivo rispetto ad altri media, o per qualsiasi altro valido motivo, la colpa è anche, e in misura maggiore, dell’editore, il produttore stesso di quel bene che sul mercato trova sempre meno posto.

Non è forse l’offerta editoriale italiana a essere in crisi? Sicuramente questo mercato soffre di una crisi di sovraccumulazione. In Italia, rispetto alle percentuali di lettori (solo il 60% della popolazione legge almeno un libro all’anno), si pubblicano troppi libri. E pochissimi superano le centinaia di copie vendute.

Questa discrepanza genera un turnover incessante nelle librerie, che ogni settimana vengono stravolte dall’immensa mole di novità che immediatamente si perde negli scaffali fino a sparire una volta arrivato il carico di novità successive. L’ampiezza sterminata dell’offerta spaventa il cliente che entra in libreria per comprare un libro per scopi ludici, di intrattenimento, oppure a scopi culturali, ed esce più spaesato e scoraggiato di prima.

E se il problema fosse anche la scarsa qualità dell’offerta? Se in questa immensa mole di pubblicazioni gli editori non riuscissero ad intercettare e selezionare qualcosa di veramente valido che susciti un reale interesse sul mercato? A parte i casi isolati di best-seller (citiamo ad esempio la Ferrante) che da soli hanno contribuito a mettere il segno positivo sulle vendite di libri degli ultimi anni, questo gioco a ribasso dell’editoria, che insegue il trend di impoverimento culturale della popolazione, non è forse un cane che si morde la coda?

Gli editori, oggi, per competere con le altre piattaforme digitali summenzionate, non cercano strade alternative, ma vanno dietro ai loro nuovi competitor. Non si cerca di incentivare una lettura forte, solitaria, ma una lettura interconnessa, frammentaria e interstiziale, come se il libro fosse un videogioco o una serie TV, questo perché come scritto dal rapporto dell’AIE, i più giovani preferiscono
storie brevi o contraddistinte da trame e personaggi forti e facilmente riconoscibili, ritmi narrativi veloci e l’immagine rispetto alla parola scritta. La dimensione del mercato deve confrontarsi con un altro indicatore: il nostro Paese si colloca all’ultimo posto per il livello di comprensione dei testi.

 

Lorenzo Vitelli

La penosa situazione del Libro in Italia

Madame Bovary si può dire muoia letteralmente di buone letture. Oggi non c’è pericolo, non perché l’eccesso di zelo in amore non continui a mietere vittime, ma perché di buone letture in giro se ne vedono ben poche. Molto si è parlato – anche troppo – di crisi del libro e crisi della lettura. Stracciarsi costante di vesti e capelli: bisogna incentivare alla lettura, si organizzano le giornate del libro, i festival e le fiere e le campagne pubblicitarie e io leggo perché e tu perché non leggi e quanto è bello leggere e come fanno bene i libri… Diciamoci la verità, una volta tanto: si legge poco perché i libri nuovi fanno perlopiù schifo e i libri vecchi quasi nessuno li vuole toccare, poiché la scuola instilla il terrore verso i classici. Altre spiegazioni sono importanti ma secondarie. Tutti se la prendono con chi non legge ma pochi con gli scrittori che scrivono coi piedi e con gli editori che pubblicano immondizia.

Una situazione del genere è ancor più paradossale, a ben guardare, se si considera che il libro non ha mai goduto di buona fama come oggi. Tutti vogliono pubblicare tanto che in molti pagano per farsi stampare, c’è chi si fa scrivere il libro dal ghost-writer e chi si inventa di tutto pur di riempire un tomerello di pagine. 70mila novità editoriali l’anno solo in Italia: settantamila, un numero che fa paura. Togliendo domeniche e festivi, fa più di duecento nuovi libri al giorno. Lì dove i lettori sono pochi (solo il 40% degli italiani legge almeno un libro l’anno) e chi legge frequentemente è solo un pugno di persone, si pubblicano duecento titoli al giorno.

E chi li leggerà mai? Infatti la stragrande maggioranza finisce al macero senza neppure una copia venduta. Ginevra Bompiani ha già lasciato detto che “letteratura oggi è solo narcisismo”, e non altrimenti si spiega come si possano scrivere tali e tanti libri, ben sapendo che non saranno letti. L’intero mondo del libro è una contraddizione così grande da doverla studiare seriamente, per capire che senso ha oggi in Italia quell’oggetto che per secoli è stato l’unico mezzo di trasmissione e conservazione del sapere. Sette punti per constatare lo stato pietoso del libro in Italia.

Il rapporto di una società con il libro andrebbe studiato dagli psicanalisti. Sarebbero gli unici a poterci forse spiegare come il libro si sia potuto trasformare in feticcio, tanto odiato e tanto adorato. Il libro più venduto su Amazon nelle ultime settimane è un volume di Giulia De Lellis (influencer e volto di Uomini e Donne, una che ha dichiarato di non aver mai letto un libro in vita sua) che uscirà a settembre per Mondadori: in cima alle classifiche ancor prima di essere pubblicato.

Tutti scrivono libri, anche chi non legge e in molti casi chi non ha nulla da dire. Pubblicano i cantanti, i giornalisti, i politici, i calciatori, gli attori, e le case editrici fanno a gara per accaparrarseli. Ma se i lettori in Italia sono specie protetta, perché tutti si affannano a scrivere? Si narra che Vittorio Emanuele II disse che “un mezzo sigaro e una croce da cavaliere non si negano a nessuno”; oggi non si negano un selfie e la pubblicazione di un libro. Come il titolo di Cav. e la spilla al bavero conferivano tono e status, oggi il libro assolve alla frustrante funzione sociale. Frustrante sì, perché non c’è da esultare molto nel sapere di aver scritto un libro inutile che presto sparirà dalle librerie, letto da persone che non avevano di meglio da fare e che se ne dimenticheranno subito. Tanto più che, se questi non leggono, ma chi è il pazzo che li fa scrivere?

Non vogliamo giungere fino all’estremismo di Carmelo Bene che, a proposito dell’Ulisse di Joyce, disse:

Mi auguravo nel mio candore, giovanissimo, che dopo questo libro – dico: finalmente nessuno più scriverà; finalmente si ripubblicheranno i classici, come si deve; finalmente la gente in Italia rileggerà i classici. Invece no, c’è stata un’inflazione editoriale.

Però ci sarebbe da darsi una regolata, in un paese dove l’ignoranza della tradizione culturale, dell’origine linguistica e delle radici storiche è così radicale. Roberto Cotroneo recentemente notava come nel film JFK a un certo punto si chieda a un avvocato se abbia letto Shakespeare e questo risponda piccato, quasi indignato. Ovvio che ha letto Shakespeare: è un avvocato americano. Come sarebbe ovvio per un francese aver letto qualcosa di Flaubert, Stendhal o Zola; per un tedesco Goethe, Hӧlderlin o Mann; mentre per un italiano, chissà perché, aver letto Dante, Galileo, Leopardi o Manzoni è casualità più unica che rara. In questo la sedicente industria culturale non aiuta per niente. La scuola poi, se può fare qualcosa per dissuadere dalla lettura, lo fa benissimo.

Altra faccenda è quella strettamente intellettuale: il deperimento dell’interesse culturale e l’atrofizzazione del cervello collettivo che possiamo genericamente imputare a omogeneizzazione sub-culturale, digitalizzazione e disintermediazione. Un mondo in cui il virtuale era raccolto unicamente tra le pagine di carta dava per forza consuetudine con i libri e col linguaggio scritto; oggi che il virtuale alberga tra i tocchi di uno schermo, la parola perde centralità a tutto vantaggio dell’immagine. Mutuando l’opera One and Three Chairs di Kosuth, dalla sedia materiale siamo passati alla sua definizione scritta e oggi alla sua fotografia: nulla più che l’immagine del mondo, la sua raffigurazione mimetica nell’incapacità di definirlo o di ricrearlo con la fantasia.

Nessun piagnisteo sulla tecnologia, però: nulla vieta di usare lo smartphone per cercare informazioni di alta cultura; se lo si usa per giocare a giochini dementi e traccheggiare su Facebook lo smartphone ha poche colpe. Stupido è chi lo stupido fa. Siano invece lodati YouTube e Google che mi hanno permesso di ascoltare interviste e conferenze e di cercare autori, libri e articoli che qualcuno non avrebbe mai conosciuto altrimenti.

Certo però c’è un problema di attenzione nelle ultimissime generazioni, diversi studi ne denunciano la capacità di concentrazione drammaticamente bassa. Ma è pur vero che è oggettivamente difficile oggi leggere certi cari vecchi libri.

Si riporta di alcuni bambini che, avendo tra le mani libri illustrati, fanno per allargare le immagini con le dita. Non sanno che la carta non si zooma, che non viene verso di te ma devi tuffartici dentro, che non la puoi scorrere ma solo assorbire lentamente, che non è interattiva ma statica e monodimensionale. In una parola, è eterna. Quei bambini difficilmente leggeranno libri, perché questi parleranno loro di un mondo che non conoscono, alieno e noioso. Tutte le rivoluzioni comportano vittime: la rivoluzione digitale uccide il libro. Non è colpa di nessuno in particolare, è un intero mondo a cambiare.

È arcinoto che i grandi editori un tempo pubblicavano robette per fare soldi e autori di spessore per prestigio e mecenatismo: Mondadori pubblicava romanzi popolari per foraggiare i Meridiani e Lo Specchio, Livio Garzanti una buona dose di ciofeche ma anche Gadda, Arbasino, Parise.

Uno scafato lettore oggi si trova in grande difficoltà di fronte agli editori: “chi ha tradito, tradirà” dicevano certi fascisti. Come avere fiducia in Rizzoli dopo che ha pubblicato gli imprescindibili libri del Signor Distruggere, del Terrone Fuori Sede e di Ibrahimovic? Come affidarsi a Mondadori se pubblica i libri di Luì e Sofì, che scopro essere degli youtuber, e della già citata De Lellis? Passino i libri popolari, ma qui sembra proprio che si stia raschiando il fondo del barile. Lo facessero per mettere al sicuro il bilancio e poter pubblicare scrittori da novanta lo capirei benissimo. Il problema è che mancano gli scrittori da novanta, e quando ci sono è quasi impossibile accorgersene, visto che appaiono per un attimo soltanto, come il fotogramma di un film, nel flusso editoriale che ci sommerge di volumi e spedisce tutti al macero.

Generalizzare è un male, ci sono editori che non sbagliano un colpo come Adelphi, il Saggiatore, Laterza, Raffaello Cortina e altri. La grande editoria però, quella che riempie i banchi all’ingresso delle librerie, è in quelle condizioni lì. Per qualcuno è normale che sia così, dal momento che la letteratura evidentemente non interessa più nessuno.

Solamente non è vero: basta pensare a quanto hanno inciso l’immaginario collettivo scrittori contemporanei come Roth, Houellebecq o Camilleri, o ai milioni di ragazzini stregati da Harry Potter. La letteratura sortisce sempre un effetto conturbante: bisogna avere però qualcosa da dire e bisogna dirlo bene.

La critica non sappiamo più cosa sia e non ci aiuta per niente, anche perché scrittori di dubbia qualità recensiscono amici che hanno pubblicato con l’editor amico in comune per l’editore che stampa i libri di entrambi. Più che esercizio di critica è uno scambio di favori dominato dal do ut des preventivo: ti elogio, così ti sentirai obbligato a elogiarmi anche tu.

Le riviste culturali sono stramorte, le terze pagine dei quotidiani sono la gazzetta ufficiale dell’editoria, programmi in tv e radio sono rarissimi e di siti in grado di reggere il compito ce n’è pochi. In buona sostanza oggi si fa letteratura senza critica, cioè senza qualcuno che concepisce e interpreta i canoni attuali e spiega ai lettori su quali vie si inerpica la letteratura e cosa hanno da dire i nuovi artisti. E non può essere altrimenti, essendo tutti amici e amici degli amici: come si può fare critica onesta a queste condizioni?

Basta osservare il Rotary Club delle lettere, quel circolo magico fatto di Feltrinelli, Einaudi, Repubblica e Rai Tre. Ecco allora Alberto Asor Rosa (Einaudi) che recensisce sulla Repubblica il libercolo di poesie dell’amico Scalfari (Einaudi) e Corrado Augias (Einaudi e Repubblica) che invita a Quante storie su Rai Tre quasi solo collaboratori del suo stesso giornale. Elogi sperticati nel massimo cortocircuito di un mondo chiuso e impermeabile. Nel paese in cui le lettere sono un Fort Apache da difendere coi cannoni, guai a dire che il re è nudo. Attendiamo il ragionier Fantozzi che possa urlare “questa editoria è una cagata pazzesca”.

Alla fine nessuno controlla. Tanto, come ancora notava il buon Cotroneo, le case editrici devono pubblicare così tanti libri che non hanno neppure il tempo di leggerli tutti, si affidano alla fama degli autori e alla bontà di eventuali recensori, che non hanno nemmeno loro il tempo di leggerli e seppure dovessero stroncarli nessuno li ascolterebbe. Quando non riciclano autori rodati, gli editori cercano senza sosta esordienti da confezionare con abile marketing per garantirsi un pacchetto di copie da piazzare. In libreria è tutto un “caso editoriale” e una “rivelazione dell’anno” e un “esordio folgorante”, quando in realtà si tratta di fetecchie ineguagliabili.

Il risultato è presto detto. Un lettore entra in libreria, è sopraffatto dai nuovi titoli, da nomi mai visti prima e non ha mappa e bussola per orientarsi. Alla fine si perde tra i tomi presentati come le chincaglie di Tiger, trattati alla stregua delle magliette di H&M, e, spaesato, se ne va.

Le nuove uscite sono per la maggiore maschiofobiche. Come fossimo nel ‘700 – i trattati all’uomo e i romanzi alle donne – gli scaffali delle librerie traboccano di libri con donne protagoniste scritti da donne per un pubblico di donne. Quelle montagne di libri dai colori pastello, in copertina la foto di una donna in un paesaggio desolato, con titoli che paiono presi a caso dai Baci Perugina… Per entrare in certe librerie un uomo deve lasciare il testosterone all’ingresso, insieme al cane e all’ombrello. Le rare novità meno femminee spesso consistono nel mistero in monastero o nel noir, che ormai allappa più di un salame.

 

Alessio Trabucco

Paolo Ivaldi, editore di ‘Achille e la tartaruga” presente al Salone del Libro di Torino: “Il miglior boicottaggio non è impedire ad altri di sedersi”

Paolo Ivaldi è un piccolo editore indipendente di Torino con all’attivo 60 pubblicazioni in 10 anni, e che (fortunatamente per lui), non vive di sola editoria; nel 2008 ha fondato la casa editrice Achille e la tartaruga (presente al controverso Salone del Libro di Torino, su cui calerà il sipario il 13 maggio), di cui ciascuna Collana si rifà al tema del paradosso di Zenone, che esprime le contraddizioni della cultura occidentale. Ivaldi si occupa soprattutto d’arte ma non ha rinunciato al suo sogno e alla sua genuina passione per la scrittura. La sua casa editrice mira a realizzare un prodotto di buona qualità, in un mercato dove la percentuale dei piccoli editori che in questo momento sono in netta difficoltà e che potrebbero sparire nei prossimi anni, se non mesi, sono circa il 40 per cento, secondo stime attendibili. Alcuni editori riescono a restare a galla, attuando pratiche che funzionano, facendo fruttare le proprie idee e la propria creatività, non facendosi travolgere dalla crisi. In questo senso Ivaldi è andato oltre il prodotto librario in se, editando anche un mensile online: La storia e la bellezza.

Logo casa editrice Achille e la tartaruga

 

1. Perché nel 2009 ha deciso di fondare una casa editrice?

Già da diversi anni ne parlavo con amici con i quali condividevo l’interesse per la scrittura, all’epoca organizzavamo incontri, cene, laboratori durante i quali scrivevamo e leggevamo. Tuttora ancora succede ma sempre più di rado. Mi ero laureato non da molto e deluso dal mondo della ricerca ho pensato che l’unica strada per me poteva essere crescere per migliorare qualcosa in cui credevo io. Poi il mio sogno segreto fin dalla più tenera età è sempre stato quello di progettare una casa editrice, possibilmente a tema. Ho scelto il tema di Achille e la tartaruga perché il paradosso di Zenone, esprime le contraddizioni e la sensazione di scacco in cui si trova oggi la cultura e il pensiero Occidentale.

2. Cosa distingue la sua casa editrice dalle altre?

Non è facile paragonare la propria esperienza con quella altrui. Posso dire che cerco di realizzare un prodotto di buona qualità, artigianale per molti versi, selezionato nei contenuti e anche di piacevole fattura. E di offrirlo ai lettori a un buon prezzo. Non pubblico tutto quello che mi viene proposto e talvolta capita di rifiutare vantaggiose offerte di pubblicazione, per i motivi più diversi.

3. Trova delle affinità particolari tra mondo dell’editoria e mondo dell’arte, quest’ultima sua attività principale?

Il “Sistema” Italia, non so se sia così anche all’estero, è un sistema molto bloccato e questo vale anche per l’editoria e per l’arte, penso ancora di più per il mondo dello spettacolo o dello sport. Il mondo dell’editoria è diviso in due realtà assai ben separate. I cinque principali gruppi editoriali italiani si dividono il 95% del fatturato totale e quindi quando si parla di editoria bisogna avere ben chiaro a quale delle due realtà ci stiamo riferendo perché è evidente che anche le regole del gioco siano di conseguenza assai diverse.

4. Tre autori che avrebbe voluto pubblicare

Se si tratta di un gioco che non ha limiti penso ai classici: ad esempio un libro che mi ha segnato profondamente come lettore è Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki. Fra gli autori italiani invece mi sarebbe piaciuto molto conoscere di persona Calvino, nei suoi racconti in particolare mi sento come a casa. Per citare un contemporaneo invece mi ha molto colpito Domani nella battaglia pensa a me di J. Marìas che pure essendo un racconto sostanzialmente realistico è avvolto in una atmosfera irreale molto suggestiva. E poi Nooteboom che ho avuto la fortuna di incontrare personalmente. E infine Pessoa, non posso non citare Pessoa, anche se siamo già a cinque. Ho scelto tutti narratori con l’eccezione di Pessoa, perché come lettore vedo scrittori poco coraggiosi che sembrano non avere la sufficiente personalità per sperimentare o inventare nuove strade. Sono appiattiti sull’attualità che non è interessante, non serve uno scrittore per raccontarla, è sufficiente un cronista. Lo scrittore dovrebbe anticiparla se possibile inventarla, il materiale sul quale si basa la letteratura non è il reale ma il possibile. Non ho parlato dei saggi e non ho citato la poesia perché a mio modo di vedere l’arte si avvicina alla verità più della scienza e più della filosofia e il banco di prova di uno scrittore è il romanzo più della poesia.

5. Se non avesse la “protezione” del suo lavoro principale, Lei si sentirebbe di appartenere a quale di queste categorie: editore che resiste, editore prova ad innovare, editore che soffre?

Nella mia attività editoriale ciò che più mi pesa è il fatto di essere da solo. In parte è dovuto al caso, in parte alle circostanze in parte è proprio un’esigenza mia. Oltre ad avere dei vantaggi questo è anche un grande svantaggio perché il lavoro non può essere legato o dipendere troppo da come io mi sento in positivo o in negativo o peggio dalle situazioni della mia vita. È come salire su un treno che a un certo si ferma in aperta campagna, non ci sono stazioni nel raggio di chilometri, non si può scendere, le porte e i finestrini sono bloccati. Passano i minuti e fra i passeggeri comincia a diffondersi un certo sconforto (ho pubblicato circa 60 libri in questi dieci anni di attività e non ho mai conosciuto un autore che, a pieno diritto, non fosse impaziente di vedere presto l’uscita del proprio libro); poi a un certo punto il treno riparte misteriosamente così come si era fermato e tutto viene in fretta dimenticato e insieme al sollievo ci dimentica anche di non aver compreso il motivo della sosta.

6. Cosa ne pensa della polemica stucchevole nata intorno alla presenza della casa editrice Altaforte? Nonostante le polemiche il libro di Salvini sta andando molto bene, come i libri sul Duce, pubblicati da grandi case editrici (non esenti da strafalcioni storici)…

La vicenda è iniziata e si è conclusa a mio modo di vedere nel peggiore dei modi. Il miglior boicottaggio non è lasciare una sedia vuota, o impedire ad altri di sedersi, rischiamo come sempre di ottenere l’effetto contrario. Se questo editore, che non conosco nel caso specifico, ha la possibilità di pubblicare testi significa che la sua attività non è illegale, per quanto io personalmente ne posso capire. Se non mi piace o non mi interessa non è sufficiente ignorare e rivolgersi altrove? Se ho timore che le sue idee si diffondano creando disagio e instabilità sociale l’unica vera risposta è la cultura, cercare di fare noi per primi le cose bene e diffondere consapevolezza in quelli che possiamo raggiungere, guardandoci non solo dal fascismo in senso stretto (quello che alberga dentro di noi come sosteneva Umberto Eco) ma dai diversi tipi di fascismo che ci circondano. Fra l’altro Ezra Pound è stato tutto fuorché fascista nelle sue idee, nei suoi scritti, e nel sangue che ha versato lui stesso per amore della libertà. La libertà è l’esatto opposto del fascismo.

8. La sua più grande soddisfazione nell’ambito editoriale?

Ho fatto esperimenti molto interessanti con il teatro che è un genere tutt’altro che commerciale; ho pubblicato i testi inediti di alcuni spettacoli e li ho accompagnati alle rappresentazioni, utilizzando lo spettacolo stesso come evento per il libro. E al pubblico piaciuto molto, quindi questo significa che in Italia i lettori non è vero che non ci sono, magari piuttosto è l’offerta culturale a non essere abbastanza allettante.

9. Come vede l’editoria italiana tra 10 anni?

Secondo me gli editori italiani stanno commettendo l’errore ma qualcuno per fortuna se n’è accorto, di trascurare gli ebook e i libri multimediali. Può darsi anche che fra dieci anni il web sarà molto meno importante di oggi o soppiantato da nuove tecnologie che nemmeno sono all’orizzonte ma bisogna attrezzarci bene oggi, se vogliamo essere competitivi in futuro.

 

 

L’editore-scrittore Roberto Calasso: “In un mondo senza il sacro siamo diventati solo turisti”

Milano. “Dal maggio del ’45 a oggi si è entrati in una zona che non ha nome, per questo è l’innominabile attuale”. Roberto Calasso siede nel suo ufficio all’Adelphi, nel centro di Milano. Sulla scrivania l’ennesimo caffè, davanti gli scaffali con quel che resta della biblioteca di Bobi Bazlen, il codice genetico da cui è fiorita la casa editrice da sempre più inattuale e più attuale d’Italia. Attuale è parola che ricorre spesso. A partire dal titolo del nuovo libro L’innominabile attuale appunto, seguito ideale del profetico La rovina di Kasch del 1983. In questo tempo senza nome vive l’ultima evoluzione dell’Homo sapiens, quello che Calasso definisce Homo saecularis: noi. “Homo saecularis – dice – è un risultato molto sofisticato della storia. Per arrivare a lui bisogna essersi scrollati di dosso una quantità di pesi. E questa mancanza di gravami di vario genere – religioso, politico, tradizionale – non ha prodotto soddisfazione o felicità, ma una specie di panico. La vittoria della secolarità, che ormai pervade tutto il mondo, è paradossale. Homo saecularis si è trovato di fronte un mondo che non è in grado di trattare. Ha vinto ma gli manca qualcosa di essenziale, domina ma si rivolta contro se stesso. Tutti i nomi che usa sono inadeguati e richiederebbero quella “rettifica” che secondo Confucio era il primo compito del pensiero. Di qui il titolo del libro, che si è imposto dopo 34 anni di latenza”.

Il libro di Roberto Calasso è diviso in due parti. La seconda è una polifonia di voci (Virginia Woolf, Simone Weil, Walter Benjamin, Céline), che descrivono momenti di ciò che avveniva dal ’33 al ’45, dalla presa del potere di Hitler sino alla fine della Seconda guerra mondiale. La prima parte invece è tutta sul presente. “Le due parti – spiega Calasso – sono l’una il contrappeso dell’altra. La prima vagherebbe un po’ nell’aria, parlando di questo mondo senza appigli fermi, se non si presupponesse l’altra, che è un ultimo, tremendo scontro, come fra rocce che cozzano tentando di distruggersi e autodistruggendosi. Chi non conosce quel presupposto non vede il basamento di quanto sta succedendo oggi”.

 

Una categoria che utilizza è quella del turista. Perché?
Il mondo di Homo saecularis non ha una categoria che lo rappresenti. Non si può dire che tali siano l’impiegato, l’operaio, il manager, il politico. Turista, invece, è l’unica categoria che copre tutto. Il turista di cui parlo non è solo quello che viaggia, ma il modello antropologico della realtà virtuale. I tecnici della realtà virtuale parlano di una “realtà aumentata”, che però si fonda su una realtà diminuita, a cui è stato sottratto un carattere imprescindibile: l’irreversibilità. Su questa via si incontrano sia il bigotto dell’iperconnessione sia l’energumeno che vuole mettere a posto il mondo.

L’Homo saecularis si rivolta anche contro la democrazia.
La democrazia formale è l’unico modello che rende vivibile il mondo, anche se, per pure ragioni demografiche, è pressoché impraticabile. Comunque, se non ci fosse, per esempio in India vi sarebbe il massacro continuo. È l’ultimo sbarramento per rendere la vita tollerabile, al di fuori ci sono solo tortura e regimi di polizia. Ma ogni democrazia deve difendersi da enormi forze contrarie.

Uno dei capisaldi democratici in discussione è l’idea che la rappresentanza sia superata dalla partecipazione diretta.
La mediazione è decisiva. Non rispettarla è una forma di pensiero ignaro, perché la mediazione è ciò che ci costituisce, anche se viene continuamente svillaneggiata come fosse ciò che falsifica tutto. Ma la nostra percezione è già una mediazione, in senso fisiologico. Per vedere qualcosa operiamo un filtraggio. Se non lo si ha presente, si finisce per pensare che la mediazione sia l’agente che ti imbroglia, il giornalista ingannatore, il politico o, come è accaduto, il maligno ebreo. È triste. Questa avversione indica che è diventato più grezzo il tessuto del pensare. Nel disintermediarsi del mondo, chi non ha il dono della refrattarietà si lascia facilmente ingannare. E prende la sua voce per vox populi. Homo saecularis si è sbarazzato delle religioni, ma è tremendamente credulo.

Una delle cause è la rivoluzione digitale.
È un immenso rivolgimento. Di cui stiamo vedendo solo l’inizio. Nella Silicon Valley, che è il suo epicentro, si assiste a un fenomeno che non ha precedenti. Ci sono alcuni imprenditori, che possono anche essere considerati come intellettuali audaci o imbonitori farneticanti, a seconda delle prospettive, e questi imprenditori avviano investimenti che modificano il mondo giorno per giorno. Sotto il nome di intelligenza artificiale si raccoglie oggi non più, come negli anni Settanta, una sorta di dottrina esoterica, ma una potenza economica dirompente. Laggiù non si parla e non si scrive d’altro che del momento, in parte desiderato in parte temuto, e per molti piuttosto vicino, in cui le macchine saranno più intelligenti di noi. A rimanere esclusa è la parola più importante: coscienza. Su che cosa sia e come funzioni nessun neuroscienziato è riuscito a dire qualcosa che vada oltre un goffo balbettio. Sarebbe d’aiuto per tutti leggere le Upanisha.

Che cosa pensa dell’attuale stato dell’Europa?
Spero che l’Europa continui a esserci come misura di autodifesa minima, ma ne vedo l’impotenza totale. La politica europea è solo reattiva, non attiva. Un tentativo di reagire a fatti soverchianti. Alti funzionari tentano di tenerli sotto controllo, ma quando si comincia a usare l’espressione “tenere sotto controllo” vuol dire che tutto è già fuori controllo.

Le categorie che lei utilizza per nominare i nostri tempi sono decisamente inattuali. Per esempio l’idea di sacrificio. Come può un concetto così arcaico essere utile per descrivere l’attualità?
Il sacrificio è la cosa più difficile da pensare che abbia mai incontrato. Non è certo una mia invenzione, lo si ritrova ovunque nella storia. Per un lunghissimo periodo le civiltà più distanti sono accomunate dal fatto che in forme diverse tutte praticano il sacrificio, dalla Cina all’India alla Grecia alla Palestina. Poi c’è una svolta: con Gesù il sacrificio vuole finire per sempre e diventa, nella messa, memoria del sacrificio. Ma al tempo stesso la morte di Gesù è un ritorno alle origini del sacrificio, dove è il dio a sacrificarsi. Infine c’è l’oggi, in cui la pratica rituale è espunta, non ha diritto di cittadinanza. Ma l’assassinio-suicidio dei terroristi islamici, minaccia che continua a paralizzare il mondo, è una evidente forma sacrificale, dove la vittima è l’attentatore e tutti coloro che da lui vengono uccisi sono il frutto del sacrificio. Il sacrificio non scompare perché la società secolare ha deciso di non usarlo più come atto rituale. Torna in altre forme. Il terrorismo – e soprattutto la guerra, a partire dalla Prima guerra mondiale. Se legge Gli ultimi giorni dell’umanità di Kraus, si parla più di sacrifici che di battaglie. Poi nella Seconda guerra mondiale il sacrificio diventa opera di disinfestazione, con i campi di sterminio. Che, per un orripilante equivoco, si continua a chiamare con la stessa parola che designa il sacrificio di ringraziamento celebrato da Noè dopo il diluvio: olocausto.

Dov’è oggi il sacrificio?
Non è più una categoria religiosa. Se il religioso implica un contatto con l’invisibile, nel caso del terrorismo islamico questo non sussiste. Il frutto del sacrificio non è più nell’invisibile, ma nella moltiplicazione degli uccisi nel mondo visibile. Ma il sacrificio continua a esserci, la società non riesce a vivere senza.

Ma la ragione ultima del terrorismo islamico è generalmente considerata religiosa.
Definizione che mi sembra impropria. All’origine, c’è piuttosto il bisogno di una vendetta globale, un rigetto del mondo occidentale. Un certo numero di persone, in una fascia di paesi che va dal Marocco all’Indonesia e comprende più di un miliardo e mezzo di abitanti, si sente sopraffatta, esautorata. Nel modo di vita, di essere. Così nel libro parlo anche di pornografia, non meno importante della conquista economica. Il fatto che da un momento all’altro, in paesi dai rapporti molto tortuosi con l’eros, la visione di un numero sterminato di corpi femminili nudi che compiono atti sessuali diventasse accessibile gratuitamente in rete nel giro di pochi secondi è stato uno shock enorme, che irrideva il desiderio nel momento in cui lo suscitava.

Lei ha scritto che quando la cultura viene accostata all’utile, la vera cultura muore.
La parola “utile” è il disastro su cui si fonda tutta l’economia e risale a Bentham, suo progenitore, spesso ignorato. Il calcolo costi- benefici in un certo ordine di cose è totalmente sviante. Nell’ordine del piacere, come di tutte le cose fondamentali della vita, non si può applicare.

Ma nel suo libro lei parla dei refrattari a questo stato di cose, quelli che non si ritrovano nella figura dell’Homo saecularis. Sono sperduti, soli, neanche l’università, lei scrive, è un luogo dove trovare ascolto.
Mi sembra che l’università come istituzione stia perdendo ogni linfa vitale, non solo in Italia, ma ovunque. So che vi operano tuttora persone di grande qualità, ma soffrendo.

Cito da una sua intervista: “Negli anni Cinquanta in Italia vi erano tre aggregazioni: quella marxista, quella laico-liberale e quella cattolica. I marxisti, se erano intelligenti, leggevano i libri Einaudi, o comunque “Il contemporaneo”. I laici-liberali leggevano “Il Mondo” e i cattolici, tendenzialmente, leggevano assai poco. I democristiani erano appagati dalla pura gestione del potere e avevano capito che la cosa più accorta era quella di lasciare la cultura alla sinistra”.
Penso ancora che la descrizione sia esatta. Ma riconosco che in quegli anni erano vive e attive persone ben più significative rispetto a oggi. Tuttavia provavo una certa insofferenza per quel mondo tripartito. A cui Adelphi si è opposta fin dall’inizio, tenendosene fuori.

I libri Adelphi hanno accompagnato in modo trasversale gli italiani, compresa la classe dirigente del paese. Secondo lei quanto hanno inciso culturalmente?
Faccio fatica a riconoscere una classe dirigente nell’Italia di oggi e certamente non la collego con ciò che pubblichiamo. Mi interessa solo l’efficacia sui singoli. Le persone che leggono i nostri libri sono le più varie. Talvolta si incontrano e si riconoscono tra loro. Ma non ho mai contato su un effetto sociale o politico. L’editore come pedagogo è una concezione per me del tutto estranea.

Non si sente solo?
Non tanto, perché considero un prodigio ricorrente che i libri ancora si vendano. Sono tentato di pensare che un certo numero di persone congeniali a quello che pubblichiamo ci sia ancora. E non sono poche – anche se non così percepibili. Ignoti lettori nell’innominabile attuale.

 

Fonte: http://www.repubblica.it/cultura/2017/09/30/news/roberto_calasso_in_un_mondo_senza_il_sacro_siamo_diventati_solo_turisti_-176947727/

Italia, un paese di scrittori: un intervento della scrittrice Anna Maria Ortese

Non c’è forse, dopo l’Italia, un altro Paese al mondo dove ciascun abitante abbia come massima ambizione lo scrivere, e ce n’è pochi altri dove quel che ciascuno scrive – pura smania di dilettante o regolarissima professione – scivoli, per così dire, sull’ attenzione dell’ altro, come la pioggia su un vetro. Ma scivola è un’ espressione indulgente: inquieta, offende, avvilisce, si vorrebbe dire.

Ogni abitante-scrittore se ne sta sul suo manoscritto come il bambino, a tavola, col mento nella sua scodella, sogguardando la scodella, cioè il manoscritto, dell’ altro: e se quello è più colmo, sono occhiatacce, lacrime… si sente parlare del tale, del tal altro che ha pubblicato o sta per pubblicare un nuovo libro. Subito, chi ha questa italianissima passione dello scrivere, o dello scrivere ha fatto il suo mestiere, si precipita a vedere di che si tratta, e in che cosa il rivale si mostri inferiore a quel che se ne dice, o si temi.

Se il sospetto, la paura, si rivelano infondati, è un sollievo tinteggiato di nobile comprensione: «Un buon libro… Hai letto l’ultimo libro di T.? Certo potrebbe far meglio… L’ho sfogliato appena – e me ne dispiace – ma non ho mai il tempo di leggere…». Ed è vero: perché se appena alle prime pagine il rivale appare quel che si desidera – un mediocre – cessato l’allarme, la sua modesta fatica non interessa più. Quando già alle prime pagine, invece, lo scrittore-lettore si rende conto di trovarsi di fronte a un’ autentica novità e forza, il colpo che ne riceve è così brusco che, lì per lì, non riesce a fiatare, e se ne sta zitto e disfatto nel suo angolo. Di continuare non se ne parla, prova una specie di nausea. In un secondo momento, però, scoppia la reazione: si tratta di un’ opera indegna, una vera truffa letteraria, «ma dove andiamo a finire di questo passo… vedrai che a quello gli danno un premio…», e così via.

E il premio qualche volta arriva, e allora è un dolore, un lutto generale, e si cominciano a scrivere articoli abilissimi dove si parla perfino del primissimo elzeviro dello studente di Caltagirone, o si elevano entusiastiche lodi all’ingegno di V., che, novantenne, ha ristampato l’intera mole delle sue opere, insipide e pesanti come patate: e solo si tace il nome del vero colpevole, l’ultimo arrivato, che non è stato al gioco d’infilare le parole l’una dopo l’altra, semplicemente, ma ha «adoperato» la parola, l’ha mortificata mettendola al servizio di alcuni interessi.

Interessi! Non è che gli scrittori italiani non ne abbiano, e anche belli e vivi: ma nulla, ad essi, per tradizione e per gusto, è più caro del piacere di scrivere; e si sa come gli interessi, le passioni, le ire, la costante ricerca di una verità che non sia soltanto quella della nostra pelle, ma la verità tua e mia, siano contrari a questo raffinatissimo tipo di piacere. Raffinatissimo per i vecchi, naturalmente. Per i giovani, e non mi riferisco, s’intende, a una giovinezza di soli anni, scrivere, se ci sono delle passioni o delle collere da raccontare, è anche un piacere, ma per caso.

Non scrive per provare piacere, insomma, un giovane: scrive per farsi uomo, uomo che esprime gli altri, che riveli in sé gli altri, che sia un’aggiunta al patrimonio degli altri. Si capisce così, data questa tendenza degli italiani a concepire lo scrivere come un piacere, perché da noi tutti scrivano e nessuno legga, e quello che minaccia di farsi leggere dagli altri che non siano gli scrittori colleghi sia considerato un intruso e gli si tolga magari il saluto (…); si capisce perché la nostra letteratura sia in genere un soliloquio, uno sfogo forbito oppure curioso, mai un’autentica voce, un richiamo, un grido che turbi, una parola che rompa la nebbia in cui dormono le coscienze, il lampo di un giorno nuovo.

Noi scriviamo per piacere a noi stessi, nel migliore dei casi; nel peggiore, agli altri: quando avremmo bisogno ogni giorno di ripeterci che siamo la più fastidiosa espressione della nullità, nella più arretrata e insignificante delle nazioni.
Esemplare espressione di un costume e anche di un Paese dove le lettere, nella loro generalità, non furono mai fini a se stesse, ma modo di esprimersi di quegli interessi e passioni che, soli, fanno umana la vita dell’uomo, e proprio per questo diventano a volte altissima letteratura, è il carteggio M. Gorki – A. Cechov. (…) Cechov e Gorki non erano soltanto due illustri letterati, in certo senso non lo erano affatto, erano due enormi scrittori, non vivevano per scrivere, ma scrivevano per vivere normalmente, per divenire, per realizzarsi come uomini veramente liberi, come spiriti in cui moltitudini di uomini si sarebbero ritrovati, riconosciuti, e sarebbero a loro volta divenuti sinceri, onesti, liberi. E per questo, perché essi non avevano altro scopo, i libri e le regole dello studio, del mestiere di scrivere, ritornavano, come dovrebbe essere, al ruolo di secchi strumenti, e per la vita guardata allo specchio non c’era posto. Contava la vita nuda.
Contava l’immersione continua nel mare doloroso del mondo, contava il coraggio con cui si affrontava la vista di tutto il male, le sofferenze, le vergogne possibili; e il collega era semplicemente, nella grande lotta contro tutto ciò che opprime l’uomo, un compagno, la cui opera, a quel fine, era importante quanto la propria. Perché si proponeva qualche fine, allora, l’intelligenza. Un fine superiore al piacere, alla pelle. Ed ecco l’interesse profondo di uno per l’altro, il rispetto, l’ammirazione, la solidarietà, il bene. Cose che fanno sorridere, adesso. Ma a leggere, in segreto, questo carteggio, ecco che il cuore si mette a battere, e non siamo più nel nostro Paese, e neppure nel nostro tempo, siamo molto lontano, non si vedono manifesti, ma si odono voci: e gli occhi splendono, le mani ardono.

 

Questo e altri vecchi interventi della Ortese si possono trovare oggi raccolti nel volume “Da Moby Dick all’Orsa Bianca”, edito da Adelphi.

 

Fonte: intervento di Anna Maria Ortese-dowtonbaker

Perchè si pubblicano tanti libri in Italia se quasi nessuno li legge?

Ci si lamenta spesso dello stato dell’editoria in Italia, con le principali problematiche che potrebbero essere riassunte con: troppe pubblicazioni, troppi pochi lettori. Che si pubblichino troppi libri è una cosa che in molti continuano a ribadire da tempo, specialmente considerando che al contrario le vendite sono ai minimi storici (la stragrande maggioranza dei libri usciti non arriva alle 500 copie).
Ma siamo davvero in una situazione così particolare solo nel nostro paese? Oppure è un trend purtroppo comune anche in altre nazioni (che spesso invece sembrano molto più virtuose)? E soprattutto, se la situazione è così drammatica, perchè si continuano a pubblicare tantissimi libri?

Le pubblicazioni di libri in Europa

Partiamo dalla base: quanti libri si pubblicano ogni anno nel mondo? Tanti. Anzi tantissimi. Come vediamo dalla grafica generale (frutto di Bookstr), la Cina guida nettamente questa speciale classifica con 440 mila titoli pubblicati ogni anno (ma sono anche un settimo della popolazione mondiale), staccando gli USA che seguono con poco più di 300 mila libri, e i cugini dello UK con 180 mila e i Russi con 120 mila.

E l’Italia? Sono oltre 60 mila i libri pubblicati nel nostro paese ogni anno (i dati del 2015 sono ancora più in rialzo, intorno ai 65 mila), circa 20 mila in meno della Germania e altrettanti in più invece di Francia e Spagna. Numeri e differenze che più o meno potevamo aspettarci in effetti. Ma come possiamo immaginare, molto dipende anche dal numero di abitanti di ogni nazione, in questo senso infatti, se analizziamo il numero di pubblicazioni “pro-capite”, ecco che il Regno Unito diventa il paese al mondo dove si pubblicano più libri (2.875 per milione), mentre l’Italia è intorno alla decima posizione con circa 1.000 libri per milione di abitanti.

Sono ovviamente dati indicativi della situazione attuale (i dati si riferiscono al 2013/14 e sono soggetti comunque a qualche differenza), ma ancora di più valgono il giusto se non correlati direttamente a un’altra informazione importante: quanti di questi libri verranno poi letti?

Quanto si legge in Europa?

Da qui anche la domanda iniziale: siamo poi noi italiani così indietro nella lettura? Per analizzare meglio questo punto, ci aiutiamo con i dati del World Culture Score Index. Ecco la mappa del mondo cambia radicalmente. Molti dei paesi che erano al vertice in quanto a numero di pubblicazioni, sono invece tra i posti dove i lettori, leggono di meno (vedi il Regno Unito che risulta nell’ultima fascia in quanto a Ore lette per Settimana). Per quanto non sia eccellente anche la nostra situazione (solo 5,36 ore di lettura settimanali in media, proprio sulla soglia dell’ultima fascia), siamo purtroppo in ottima compagnia.  In Europa, Spagna e Germania non stanno molto meglio di noi, oltre oceano i tanto stimanti States hanno praticamente la nostra stessa media. Stesso discorso per il Canada.

La vera sorpresa forse sono i mercati asiatici dove India, Cina e Thailandia sono tra i lettori più virtuosi, insieme a degli insospettabili egiziani e alcuni paesi dell’est Europa.  Inutile dire che anche questi dati sono da prendere con le molle (frutto di un campione non certo assoluto), ma temo rendano piuttosto bene l’andamento globale. C’è da essere contenti quindi? Mal comune mezzo gaudio? No, ovviamente. Ma fa bene considerare questa problematica di binomio “troppe pubblicazioni/pochi lettori” non solo nel nostro orticello nazionale ma anche in ottica più globale.
Perché pubblicare tanti libri allora? Un dato su tutti: più della metà della popolazione italiana non legge alcun libro. Se come abbiamo visto sopra, aggiungiamo che anche nell’altra metà i lettori forti sono pochissimi, mentre le pubblicazioni sono sempre in aumento, la domanda che sorge spontanea è… perché? Per quale motivo si continuano a pubblicare libri che poi nessuno comprerà?

Piacerebbe dire che c’è una sorta di filantropia editoriale, che vuole fare in modo che nessun sogno letterario rimanga chiuso in un cassetto pubblicando tutti coloro lo desiderino più di un po’. Ma non è ovviamente la motivazione che spinge in questa (drammatica) direzione. La probabile verità (o quella che più vi si avvicina) è che sia il mercato stesso a fomentare sempre più nuove pubblicazioni per permettere alle case editrici di sostenersi economicamente, in un malato circolo vizioso. In che modo? C’è da comprendere meglio intanto come funziona il mercato nostrano. Proviamo vedere praticamente la filiera che si attiva ogni qual volta si pubblica un libro.

L’autore e l’Editore si accordano per un contratto (se a pagamento è il momento in cui l’autore sborserà la sua parte all’editore (che si garantirà così una copertura delle spese in cambio di un numero di copie e di una piccola percentuale sui diritti di autore), se è gratuita si concorderanno i termini ed eventuali compensi. In ogni caso, di solito l’autore non prende più del 5% sul prezzo di copertina.
L’editore provvederà a editing, copertina e stampa (tutti questi costi sono di solito a carico dell’editore: per ogni libro in vendita a 10€ possiamo dire che circa il 10-15% va in costi per la stampa).
L’editore manderà i suoi libri stampati dal distributore di riferimento (in questo caso, circa il 60% del costo del libro va sotto forma di sconto al distributore, per cui di fatto, all’editore ogni 10€ di libro rimangono in questa fase circa 4€). Il distributore rivenderà i libri al libraio (di solito con uno sconto del 30-40% a seconda della libreria, con il libraio che pagherà questi libri solo 90-120 giorni dopo, sempre a seconda degli accordi). Il libraio mette in vendita il libro al pubblico.

Dopo circa un mese, complice il bisogno di nuovi libri e nuova liquidità, il libraio comincerà a fare il famoso RESO degli invenduti, in modo da poterli scalare dal conto che dovrà pagare (pagherà quindi SOLO i libri venduti ovviamente, scalando il Reso dal totale della fattura).
Il distributore ritira i libri dal libraio e comunica i dati del reale venduto (e quindi quanti soldi incasserà) all’editore che dovrà decidere se: lasciarli dal distributore, farseli riportare (da tenere in magazzino o per il macero). In tutti questi passaggi ovviamente, il distributore è l’unico che ci guadagna.
L’editore, che ha dovuto tirare fuori tutti i soldi per ogni passaggio, farà i conti con il venduto e tirerà le somme di quanto soldi sono tornati indietro: di solito non più del 50% di copie vendute. A essere ottimisti.

Bene. Se avete seguito tutti i passaggi a questo punto qualcuno potrebbe già aver capito dove sta il problema e anche quale sia stata la soluzione attuata fino ad ora. Ma forse facendo un esempio pratico con dei numeri, viene ancora più facile.

L’editore pubblica un nuovo libro con il suo autore, in 1000 COPIE (consideriamo quello che dovrebbe essere, ovvero un’edizione NON a pagamento per l’autore che riceve invece un 5% di diritti di autore) fissando come 10€ il prezzo di copertina del libro. Editor e grafico completano il libro e l’editore lo manda in stampa pagando alla tipografia circa 1.500€. [saldo editore = -1.500€]
A questo punto il distributore “compra” le 1000 copie stampate dall’editore, scalando però il 60% del prezzo di copertina come margine. La fattura emessa non sarà pagata subito ma a (circa) 120 giorni. [saldo editore = -1.500€; da avere 120 giorni = 4.000€; distributore = -4.000€ di fatture a 120 gg]
Il distributore si occupa ora di rivendere le 1,000 copie alle librerie (poniamo con sconto del 40%). I librai fanno quindi fattura a 120gg per un totale di circa 6.000€ al distributore. [saldo editore = -1.500€; da avere 120 giorni = 4.000€; saldo distributore = +2.000€ di fatture a 120 gg; saldo librerie = -6.000€ a 120gg].

Il libraio vende circa 500 dei libri acquistati dal distributore (incassando quindi 5.000€ con 2.000€ di profitto), provvedendo dopo il primo mese al RESO del 50% rimanente e scalandolo quindi dalla fattura iniziale (quindi scalando i restanti 3.000€).  [saldo editore = -1.500€; da avere 120 giorni = 4.000€; saldo distributore = -1.000€ di fatture a 120 gg; saldo librerie = +2.000€ a 120gg]
Il distributore comunica il numero di copie realmente vendute e il RESO rimasto in magazzino, scalando ovviamente queste 500 copie anche dalla fattura per l’editore (quindi scalando 2.000€ dalla fattura inziale).  [saldo editore = -1.500€; da avere 120 giorni = 2.000€; saldo distributore = +1.000€ di fatture a 120 gg; saldo librerie = +2.000€ a 120gg]

Ora, i 120 giorni sono passati. L’editore dovrà decidere cosa farne delle 500 copie rimaste, in caso decida di lasciarle al distributore dovrà pagarlo. Nel caso voglia tenerle in magazzino proprio dovrà pagarlo per farsele portare e ancora pagare il macero per togliersele dal magazzino. I conti alla fine potrebbero essere più o meno questi:

EDITORE: Saldo = +500€ dalla vendita  (da cui sono da togliere spese di gestione, dell’editor, del grafico, del locale, ecc.)

DISTRIBUTORE: Saldo = +1.000€ dalla vendita (sono da togliere anche in questo caso i costi di gestione, sono da aggiungere invece gli extra di contratto con gli editori)

LIBRERIA: Saldo = +2.000€ dalla vendita (sono però da togliere tutti i costi di gestione, dei dipendenti, ecc)

Premesso che ovviamente, numeri e percentuali sono puramente indicativi, ma in teoria rendono chiaro il processo che si scatena dopo tutto questo: come faranno quindi gli editori per poter tirare avanti dopo aver ottenuto un risultato così scarno di entrate? La risposta è in quello che analizzavamo prima, dovranno pubblicare al più presto un altro libro per poter ricominciare a far entrare denaro per ricominciare lo stesso ciclo.

Va detto anche, per concludere, che in questa filiera gli unici che realmente sono piuttosto sicuri di avere margine certo sono proprio gli stessi distributori. I librai hanno guadagno certo sul venduto, ma il margine è molto ridotto e spesso non copre le tante spese che devono affrontare. Doppiamente difficile arrivare in pari per l’editore.
Da questo, molto probabilmente, le oltre 60.000 pubblicazioni che ogni anno invadono le librerie. O meglio, i distributori.

 

Fonte:

http://www.marcusbroadbean.com/pubblicazioni-libri-italia-leggere-poco-pubblicare-tanto/

Pisa Book Festival: editoria e cultura tra la Toscana e l’Irlanda

11, 12 e 13 novembre 2016, tre date per esaltare la vitalità della cultura che nasce dal basso e per celebrare l’audacia di un’editoria pronta ad affrontare le sfide del futuro. È l’obiettivo perseguito con passione dagli organizzatori del Pisa Book Festival, e dai ben centosessanta editori indipendenti che vi prendono parte con esposizioni, reading e laboratori.
Il festival letterario, che per il quattordicesimo anno riunisce nel Palazzo dei Congressi della città toscana importanti personalità della cultura, ospiti internazionali e semplici appassionati di scrittura e lettura, si è già riconfermato come un evento leader in Italia per il settore dell’editoria indipendente.

La manifestazione del Pisa Book Festival, promossa  e sostenuta dal Comune di Pisa e dalla Camera di Commercio di Pisa, si è aperta quest’anno con una serie di incontri dedicati al panorama culturale dell’Irlanda, «un paese piccolo, che tuttavia è noto per essere una superpotenza letteraria» come ha affermato l’ambasciatore irlandese in Italia Bobby McDonagh nel portare i suoi saluti al pubblico.
Madrina d’eccezione dell’evento è stata Catherine Dunne, nota scrittrice irlandese, che ha tenuto un discorso inaugurale incentrato sull’importanza della letteratura nella formazione del senso d’identità nazionale e, al contempo, nel superamento di qualsiasi confine fisico o psicologico imposto arbitrariamente. «Scrivere non è sempre solo l’atto in sé, ma è anche la pazienza di nutrire ciò che verrà, quando e se noi saremo pronti» ha detto la scrittrice.
Irlandesi sono anche Barry McCrea, Joseph Farrel, Cormac Millar e Conor Fitzgerald, autori di successo presenti al festival per presentare i loro ultimi romanzi.

L’altra faccia della vocazione internazionale del Pisa Book Festival si volge invece a oriente, con il laboratorio Chinese Corner, dedicato allo studio dell’affascinante calligrafia cinese, presentato dall’Istituto Confucio di Pisa.

Nella giornata di venerdì ha avuto luogo anche il Translation Day, con una serie di incontri professionali dedicati alla traduzione editoriale, a cura di Ilide Carmignani.
La sezione Made in Tuscany, curata da Vanni Santoni e riconfermata anche quest’anno, si interrogherà invece nelle ultime due giornate sulle peculiarità di essere scrittori in Toscana, unendo in un unico evento i contributi di autori già affermati con quelli di giovani promettenti. Vanni Santoni coordinerà anche il workshop Scuola del libro, l’ambizioso corso intensivo su scrittura narrativa ed editing, volto a trasmettere con brevi lezioni importanti accorgimenti stilistici e strutturali su come costruire l’architettura di un romanzo, oltre che nozioni di base sul mondo dell’editoria e sui processi che portano dalla scrittura alla pubblicazione.

Il Pisa Book Festival si propone inoltre di incoraggiare la diffusione della cultura letteraria tra i bambini e i ragazzi, attraverso il progetto Io leggo in biblioteca, diretto dalla Provincia di Pisa e rivolto alla promozione della lettura, ma anche tramite incontri organizzati e gestiti da alcuni istituti scolastici della città, nei quali saranno i ragazzi stessi a presentare al pubblico gli autori che hanno letto.

«Sono convinto che il Pisa Book Festival crescerà ancora fino a diventare uno dei più grandi festival letterari al mondo» ha dichiarato Nick Barley dell’Edinburgh Napier University, dando voce a un entusiasmo che, senza alcun dubbio, non può e non deve mancare all’interno delle realtà editoriali che intendono farsi strada nella società dei media e dei social network per riuscire, ancora una volta, a trasmettere il messaggio eterno della cultura a nuove generazioni di lettori.

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