Il teatro in Italia dal fascismo al dopoguerra (Parte 2)

Il teatro, già oggetto di fermenti innovatori nei primi decenni Novecento, si ritrova con l’avvento del fascismo ad essere investito di nuove importanti trasformazioni. L’intervento del regime riguarda principalmente gli aspetti organizzativi della produzione di spettacoli.

Nel 1929 vengono inaugurati i Carri di Tespi, teatri mobili, incaricati di portare nelle città di provincia degli spettacoli popolari allestiti in collaborazione con i Dopolavoro fascisti. La scelta di far esibire questa compagnia girovaga non è di certo casuale: il regime, infatti, intende regolamentare la vita teatrale in ogni suo aspetto, scoraggiando in ogni modo qualsivoglia iniziativa estranea alla loro politica totalitaria.

L’anno successivo vengono istituite le Corporazioni dello Spettacolo, con l’intento di regolare i vari settori della produzione teatrale. All’utopia pirandelliana di un teatro di Stato, che garantisse democraticamente ai teatranti, i finanziamenti necessari per l’allestimento delle proprie opere, il regime preferisce adottare la politica dei premi e delle sovvenzioni.

Le compagnie teatrali

A tutte le produzioni che riscuotevano maggiore successo venivano elargiti incentivi economi. Il sistema delle sovvenzioni condiziona profondamente la vita teatrale, svilendo sia la figura dell’attore che della forma d’arte in sé.

Le compagnie, infatti, per incentivare gli incassi, iniziano a puntare su repertori diversi e più accessibile ridurre i periodi di prove e moltiplicare le repliche.

Il frenetico inseguimento del successo e la necessità di cambiare di continuo il repertorio spingono gli impresari ad ingaggiare gli attori per una sola stagione.

La compagnia cessa di essere la palestra privilegiata per l’allenamento e l’apprendimento dell’attore. L’attore si ritrova isolato, deve semplicemente funzionare bene all’interno dell’ingranaggio di una compagnia.

Le personalità di spicco in teatro: da Ugo Betti a Luigi Squarzina fino a Luchino Visconti

Il teatro, nel periodo fascismo, tranne Luigi Pirandello non conta grandi figure di autori teatrali. Sul piano della produzione drammaturgica l’unico autore di rilievo è Ugo Betti( 1892-1953), un magistrato cattolico che approfondisce nei suoi scritti il motivo della colpa e della responsabilità attraverso lo schema dell’inchiesta giuridica.

Betti eleva il dramma borghese alla tragedia, ponendo i suoi personaggi in condizioni estreme. Sono degli anni Trenta le suo opere migliori: Frana allo scalo Nord (1932), I nostri sogni (1936) e Notte in casa del ricco (1938).

Negli anni della guerra scrisse Ispezione e Corruzione al Palazzo di Giustizia, uno dei suoi lavori più tipici, incentrato su un’indagine di corruzione di alcuni magistrati; nel dopo guerra Acque turbate (1948) e la Fuggitiva (1952-53)

Gli stessi temi del processo morale, della colpa e delle responsabilità, tornano nell’immediato dopoguerra nelle opere di un altro autore cattolico, Diego Fabbri (1911-1980): Inquisizione (1946) e Processo a Gesù (1955)

Nell’immediato dopo guerra inizia a farsi forte il fervore del Neorealismo postbellico. A renderne meglio il clima è un autore, anche notevolissimo regista, Luigi Squarzina.

Nella sua prima opera, L’esposizione universale (1948), si rifà al modulo della cronaca tipico del nascente clima culturale e letterario. Anche Tre quarti di luna (1952), La sua parte di storia (1955) e la Romagnola rientrano nel clima morale e politico dell’antifascismo e della lotta di Resistenza.

Iniziano a diffondersi in quegli anni, sul modello del Piccolo Teatro di Milano, i Teatri stabili, sovvenzionati dallo Stato. Nel contempo si istituzionalizza la figura del regista, nata a cavallo tra le due guerre. Si afferma un tipo di spettacolo che prevede la presenta di un nuovo “autore” della scena, che controlla e dirige gli attori nella realizzazione di un prodotto replicabile.

In questo panorama operano nomi come Giorgio Strehler e Luchino Visconti che contribuiscono in maniera decisiva a fare del regista il creatore unico dello spettacolo teatrale.

 

Il teatro e la tradizione dialettale napoletana: Da Eduardo Scarpetta ai fratelli De Filippo

Nel teatro napoletano, accanto all’estro del macchiettista Raffaele Viviani, spunta un’altra figura di spicco, che documenta e incarna il passaggio dal teatro di varietà al dramma in dialetto è Eduardo Scarpetta anch’egli attore-autore di commedie in dialetto napoletano.

Scarpetta muore nel 1925 lasciando in eredità ai figli naturali (avuti con Luisa De Filippo) una scuola di teatro, in cui si formarono i suoi tre figli i  Peppino, Titina e Eduardo De Filippo. Della stessa scuola napoletana è il famoso attore comico Antonio De Curtis, in arte Totò.

I tre fratelli De Filippo istituiscono nel 1929 la Compagnia del teatro umoristico che si prolunga sino al 1944, quando Peppino se ne dissocia. Sino a quel momento i testi sono scritti dai due fratelli, Eduardo e Peppino.

Mentre Peppino si rivela soprattutto grande attore comico, il primo unisce alle abilità attoriali anche quelle di un notevole scrittore. Capacità che emergono, in particolare, dopo il 1944, quando Eduardo insieme alla sorella Titina danno vita al Teatro di Eduardo fino al 1953. L’anno successivo lo stesso Eduardo inizia a dirigere la Compagnia Scarpettiana

Sino al 1944 Eduardo è autore di commedie farsesche, dove riprende la figura di Pulcinella, personaggio maltrattato e deriso che però alla fine riesce a prendersi gioco degli altri con la sua amara saggezza.

In questo primo periodo- le cui opere sono riunite in Cantata dei giorni pari– la più riuscita è Natale in casa Cupiello (1931) costruita sul contrasto tra l’illusione della festa e l’amara consapevolezza della dolora realtà della vita.

Dopo il 1944 Eduardo si concentra, invece, su produzioni più realistiche, complesse e ricche di sfumature tipiche del genio pirandelliano. Questa nuova stagione- raccolta in Cantata dei giorni dispari– comincia con Napoli Milionara (1945), una commedia ambientata a Napoli negli anni della guerra, in cui si avverte un forte ecco dei Malavoglia di Verga. Altre grandi opere di Eduardo sono Filomena Marturano(1946) scritta per la sorella Titina, attrice nella stessa commedia; Questi Fantasmi (1946) e Le voci di dentro (1948)

 

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Croccolo addio, Napoli ti saluta!

Si è spento oggi all’eta di 92 anni Carlo Croccolo, artista napoletano con un curriculum di tutto rispetto nel grande schermo. Attore, doppiatore, regista e sceneggiatore, conosciuto ai più per il suo ruolo nella popolare serie televisiva “Capri” in cui vestiva i panni dell’amabile marinaio Totonno. Non meno per le sue notissime apparizioni accanto ai grandi del cinema napoletano; in primis Totò e i fratelli De Filippo.

Biografia

Carlo Croccolo nasce a Napoli il 9 aprile del 1927. Esordisce in radio, all’età di circa 23 anni, con la commedia “Don Ciccillo si gode il sole”. Successivamente calca il palcoscenico teatrale ne “L’Anfiparnaso” diretto dal regista torinese Mario Soldati. Nel 1950 l’attore napoletano recita nel film comico del tolentino Mario Mattoli, “I cadetti di Guascogna”, nelle vesti di Pinozzo. Ma è nell’89 che arriva la prima gratificazione: il David di Donatello per il film “O Re” diretto da Luigi Magni.

Alla fama, quella vera, Croccolo giunge accanto agli illustri comici napoletani Totò, Eduardo e Peppino De Filippo, in film come “Totò lascia o raddoppia?”,”47 morto che parla”, “Signori si nasce” (diretto nuovamente da Mattoli), “Miseria e nobiltà”, e ancora “Ragazze da marito” e “Non è vero..ma ci credo” (tratto dall’omonima commedia in tre atti scritta proprio da Peppino).

Croccolo e il doppiaggio

Il poliedrico artista napoletano vanta una carriera eccelsa composta da numerose perfomance teatrali e che sfiora la vetta di oltre 100 film. Risulta fervente e intensa inoltre la sua attività di doppiaggio. Croccolo presta infatti la sua voce al notissimo duetto comico Stanlio e Ollio (interpretati dall’inglese Stan Laurel e dallo statunitense Oliver Hardy), nei film “L’eredità”, “Tempo di pic-nic”, “Un marito servizievole”, etc. Nei primi anni ’50 doppia, con grande orgoglio, proprio lo stesso Totò (si dice addirittura che fosse stato l’unico ad avere questo privilegio), e altri celebri personaggi come Vittorio De Sica ne “I due marescialli”, Renato Carosone in “Caravan petrol”, Nino Taranto in “Stasera mi butto” e molti altri.

Napoli probabilmente darà l’ultimo saluto a suo figlio domani presso la Chiesa di San Ferdinando. “Addio, Carlo, la tua arte resterà eterna.”

 

Eduardo De Filippo, dieci frasi per amarlo

Eduardo De Filippo nasce a Napoli il 24 Maggio del 1900. Figlio del celebre Eduardo Scarpetta ha modo sin da subito di entrare a contatto con quello che sarà per sempre il suo mondo. Grande maestro di drammaturgia, attore ma anche poeta ed intellettuale del nostro secolo (non dimentichiamo la sua candidatura al premio Nobel per la letteratura), Eduardo De Filippo è stata la prova vivente di come si possa essere artisti a trecentosessanta gradi senza mai smettere di mettersi in discussione e sperimentare. La nostra cultura deve sicuramente tantissimo al più comunemente noto ”Eduardo”. Grazie alla sua indiscussa bravura, professionalità e all’impegno costante di un’intera esistenza, Eduardo De Filippo viene nominato senatore a vita dal presidente della repubblica Sandro Pertini.

Se c’è una cosa su cui non possiamo nutrire alcun dubbio è che l’autore della commedia Natale in casa Cupiello dedica la sua vita al teatro, come egli stesso sostiene, visibilmente provato, anche nell’ultima apparizione in pubblico, a Taormina. Una vita di sacrificio ed amore la sua, in cui non mancano momenti di crisi e difficoltà come quello che lo vede non più accanto al fratello Peppino (come dimenticare la maschera di ‘Pappagone’) e alla bravissima sorella Titina De Filippo.

Eduardo De Filippo ci ha raccontato una realtà espressione del dopoguerra con i suoi drammi e gli stravolgimenti di anni che restano ”a cavallo”, dolorosi e forse incomprensibili (pensiamo a Napoli Milionaria) ma anche storie individuali che non hanno tempo e che potrebbero riguardare, oggi come ieri, ognuno di noi (Filomena Marturano ne è sicuramente un esempio).

Non sempre capito dalla sua amata Napoli, Eduardo è sempre sul palcoscenico ma mai distante dallo spettatore e dalla gente, fino alla fine. Si spegne a Roma il 31 Ottobre del 1984, lasciandoci un’eredità culturale dal valore inestimabile assieme a dei grandi interrogativi su quella che è la nostra realtà attuale.

 

  1. ”Voglio dire che tutto ha inizio, sempre da uno stimolo emotivo: reazione a una ingiustizia, sdegno per l’ipocrisia mia ed altrui, solidarietà e simpatia umana per una persona o un gruppo di persone, ribellione contro leggi superate e anacronistiche con il mondo di oggi”.

 

  1. ”Voi sapete che io ho la nomina (non di senatore, per carità) che sono un orso, ho un carattere spinoso, che sfuggo… sono sfuggente. Non è vero. Se io non fossi stato sfuggente, se non fossi stato un orso, se non fossi stato uno che si mette da parte, non avrei potuto scrivere cinquantacinque commedie”.

 

  1. ”Teatro significa vivere sul serio quello che gli altri, nella vita, recitano male”.

 

  1. ”A vita è tosta e nisciuno ti aiuta, o meglio ce sta chi t’aiuta ma una vota sola, pe’ puté di’: «t’aggio aiutato»”.

 

  1. ”Essere superstizioni è da ignoranti, ma non esserlo porta male”.

 

  1. ”Non possiamo essere noi a distribuire il bene e il male: non conosciamo le proporzioni”.

 

  1. ” Se un’idea non ha significato e utilità sociale non m’interessa lavorarci sopra”.

 

  1. ”Quando sono in palcoscenico a provare, quando ero in palcoscenico a recitare… è stata tutta una vita di sacrifici. E di gelo. Così si fa il teatro. Così ho fatto”.

 

  1. ”Con la tecnica non si fa il teatro. Si fa il teatro se si ha fantasia”.

 

  1. ”Buongiorno, Signor De Filippo, qui è la televisione.” “Va bene, aspetti che le passo il frigorifero”.

Eduardo De Filippo, tra palco e realtà

(Napoli, 24 maggio 1900 – Roma, 31 ottobre 1984)

Trent’anni fa ci lasciava Eduardo De Filippo, un gigante del teatro contemporaneo e tra i massimi rappresentanti della drammaturgia popolare. La sua sottile ironia e la sua grande umanità hanno smesso di incantare il pubblico il 31 ottobre 1984. 

Prima di affrontare, anche solo in maniera sommaria, un autore prolifico e personaggio cardine della cultura italiana di fine secolo come Eduardo De Filippo bisogna innanzitutto avere ben presente un aspetto: prima c’è Napoli e poi il suo teatro. Eh già perché Napoli è l’unica città del mondo ad avere un “senso scenico” così incredibilmente sviluppato e così profondamente intrinseco al suo stesso essere. Ma “senso scenico” è un termine da non confondere con “teatralità”, sono due aggettivi ben distinti. La “teatralità” comunemente intesa, è semplicemente il gusto per l’eccesso, per l’innaturalezza e per il piacere di stupire; il “senso scenico”  invece è la tendenza alla rappresentazione scenica della vita in tutti i suoi aspetti, sia belli che brutti, al fine di esorcizzarla, capirla, renderla più sopportabile ed, al limite, riderci sopra. La fame, i figli, i sogni, la malavita, la famiglia, i vicoli, l’arte di arrangiarsi: sono queste le tematiche cardine del teatro napoletano e non i tormenti dell’alta borghesia tipici della produzione ibseniana, i tarli psicologici dei testi pirandelliani o le tensioni spirituali e morali tipiche del teatro russo. Argomenti all’apparenza semplici, banali ma difficili da universalizzare, generalizzare, che richiedono un vissuto profondo, anche drammatico per poterli eviscerare e trasmettere con la giusta efficacia. È necessaria una contestualizzazione molto forte dei soggetti e dei personaggi con il luogo da cui provengono per poter mettere lo spettatore nella condizione di comprendere il vissuto che la finzione scenica rappresenta. Napoli, con le sue contraddizioni, portentose ricchezze e indicibili miserie rappresenta lo sfondo ideale per questa sorta di “teatro della realtà”.

“Napule è ‘nu paese curioso: è ‘nu teatro antico, sempre apierto. Ce nasce gente ca senza cuncierto, scenne p’ ‘e strate e sape recita’”

È Napoli l’indiscussa protagonista del suo teatro, una Napoli che può essere all’occorrenza “milionaria”, oppure miserabile, tristissima o felicissima, ma sempre e comunque presente come una grande madre che abbraccia, coccola, sgrida o punisce i suoi figli. Dalle farse pulcinellesche alle commedie di Scarpetta, dagli scugnizzi di Viviani alle sceneggiate basate sulla famosa triade “isso, essa e ‘o malament’”, fino all’Assunta Spina di Salvatore Di Giacomo ed ai moderni testi di Eduardo, Napoli è sempre stata il palcoscenico ideale, croce e delizia, per il fiorire di una tradizione teatrale che si perde nella notte dei tempi. Testimonianza di questo indissolubile legame sta nel fatto che tutto il teatro napoletano è scritto e rappresentato in dialetto; sarebbe impossibile anche solo concepirlo in altro modo. Nonostante gli evidenti limiti linguistici battute come “ ‘a dda passa’ ‘a nuttata” o “Te piac’ ‘o presep’?” sono diventate di uso comune travalicando confini cittadini e regionali a testimonianza di una forza e di un’immediatezza non comune. In questo contesto si inserisce il teatro di Eduardo che assorbe e rielabora la tradizione teatrale napoletana, occupando in parte anche un’inquietante zona novecentesca, che appartiene soprattutto ad autori come Pirandello e Beckett, fino a trovarne un minimo comun denominatore che la renda universale e collettiva. Questo minimo comun denominatore sta nell’illusione intesa come pulsione ancestrale che muove le azioni umane. L’illusione di un domani migliore in Napoli Milionaria, l’illusione in un “mondo meno rotondo e un po più quadrato” in Il Sindaco Del Rione Sanità, l’illusione del colpo di fortuna in Non Ti Pago, l’illusione della famiglia in Natale In Casa Cupiello, Sabato, Domenica e Lunedì, Mia Famiglia, un’illusione che puntualmente viene disattesa lasciando il più delle volte l’amaro in bocca o al limite un grosso punto interrogativo. Il teatro del maestro napoletano vuole servire a qualcosa, esso denuncia le piaghe nella società e nei singoli individui, e solo la ‘lingua’ napoletana riesce a rendere al meglio la riflessione sull’ambiguità delle intenzioni nei rapporti umani e le illusioni (La lingua per Eduardo è molto importante perché è espressione della realtà che vuole raccontare, ma soprattutto è memoria).

“Voglio dire che tutto ha inizio, sempre da uno stimolo emotivo: reazione a una ingiustizia, sdegno per l’ipocrisia mia ed altrui, solidarietà e simpatia umana per una persona o un gruppo di persone, ribellione contro leggi superate e anacronistiche con il mondo di oggi”

Ma da dove nasce tale illusione? Nel caso di Eduardo da una condizione esistenziale obiettivamente disagiata che ha caratterizzato la sua vita fin dalla prima infanzia. Nato a Napoli il 24 maggio del 1900, secondogenito di Luisa De Filippo e di Eduardo Scarpetta (i suoi fratelli erano Titina e Peppino), ha sempre mal sopportato il suo status di figlio illegittimo. Il padre, infatti, ufficialmente coniugato con un’altra donna, non ha mai voluto riconoscere i tre fratelli De Filippo, rifiutandosi di dargli il cognome. È vero che il maestro Scarpetta ha sempre mantenuto, date le sue ingenti possibilità economiche, tutti i suoi numerosissimi figli ma è pur vero che la sua assenza come padre ha causato numerosi problemi alla prole. Sebbene a quel tempo, in una città come Napoli, fosse una cosa abbastanza normale essere figli di secondo letto (Totò ad esempio versava nella stessa condizione), Eduardo ha vissuto questa situazione in maniera non pacifica arrivando a sviluppare una corazza fatta di, disincanto e durezza caratteriale. La capacità di illudersi, o meglio, la voglia di illudersi gli è rimasta trovando nelle tavole del palcoscenico il mezzo ideale per metterla in atto. Spinto a recitare fin da bambino nella compagnia del padre e dei fratelli, ha sviluppato negli anni una padronanza assoluta del teatro come mezzo di comunicazione e come mezzo di illusione. La Grande Magia, (che occupa quella zona “inquieta” novecentesca), recita il titolo di una delle sue commedie più famose al cui centro si trova l’utopia dell’amor fedele, ma cos’è la magia se non inganno, stupore, finzione alla fine della quale si torna alla realtà con la consapevolezza che è tutto un trucco, un sortilegio destinato a finire? Un’illusione appunto: il Professor Otto Marvuglia fa “sparire” durante uno spettacolo di magia la moglie di Calogero di Spelta per consentirle di fuggire con l’amante, e fa poi credere al marito che potrà ritrovarla solo se aprirà la scatola in cui sostiene sia rinchiusa. Alla fine la donna ritorna pentita, ma il marito si rifiuta di riconoscerla, preferendo restare ancorato all’illusione di una moglie fedele custodita nell’inseparabile scatola.

Eduardo, che si è sempre definito un “illitterato” ma ha vissuto delle contraddizioni come quella che rappresentata dalla presentazione di un uomo disagiato che ha smarrito il senso dell realtà. riflette su quanto nel teatro si “viva sul serio quello che gli altri recitano male nella vita”, ossia su quante siano le convenzioni e le sovrastrutture che dettano la nostra vita quotidiana: attribuzioni di senso condivise che rendono “reale” ciò che altro non è che frutto di un tacito accordo tra individui che credono nella stessa illusione. E in questo modo ognuno nella vita, come nella scena, si trova a recitare il proprio ruolo e ad avere fede in ciò che più ritiene opportuno nella cieca illusione di detenere la verità a differenza di quanto accade in teatro dove, può sembrare un paradosso, si è più consapevoli dell’assurdità di questa presunzione. In quanti potrebbero riconoscersi in questa geniale opera senza tempo che ci consegna un Eduardo cinico e disincantato, ritrattista di un’Italia statica, prigioniera di circostanze immutabili; un Paese che attua l’autoinganno. Cosa è cambiato oggi?

La magia è bella però, fa sognare, come sognano l’Alberto Saporito de Le Voci Di Dentro, il ladruncolo di De Pretore Vincenzo, la protagonista di Filumena Marturano, il Libero Incoronato di Le Bugie Con Le Gambe Lunghe, il don Gennaro di Gennariniello o il Pasquale Lojacono di Questi Fantasmi!, salvo poi scontrarsi con la dura realtà di un tradimento, della menzogna, della povertà e del bisogno. E’ proprio questa sua capacità di mettere in scena l’illusione, il sogno in forte contrasto con i piccoli eventi quotidiani a fare di Eduardo uno tra i più grandi commediografi moderni. Nonostante la staticità scenica e l’uso del dialetto, Eduardo riesce a catturare l’attenzione dello spettatore per tre atti, grazie ad una forte caratterizzazione dei personaggi, ad una straordinaria mimica facciale e a una maniacale attenzione per l’uso dei vocaboli. Pochi attori in scena, scenografie elementari, trame semplici, ma una straordinaria dialettica che rende ogni dialogo avvincente e costruito su misura per il personaggio. Le parole prendono vita, suscitando ilarità, tensione, commozione, mentre gli attori restano fermi. Il finale di Napoli Milionaria è esemplare in questo senso: i due protagonisti seduti ad un tavolo danno vita ad un finale tragico e commovente.

Gennaro– “Teh… Pigliate nu surzo ‘e cafè…” (Le offre la tazzina)
Amalia accetta volentieri e guarda il marito con occhi interrogativi nei quali si legge una domanda angosciosa: “Come ci risaneremo? Come potremo ritornare quelli di una volta? Quando?”. Gennaro intuisce e risponde con il suo tono di pronta saggezza.
Gennaro– “S’ha da aspetta’, Ama’. A’ dda passa’ ‘a nuttata”. (Da Napoli Milionaria-Atto III)

Parole, gesti, sogni, illusioni il teatro di Eduardo è tutto questo. Rappresenta il superamento del teatro napoletano classico ed il suo sdoganamento presso le platee internazionali ma nonostante il successo, i premi, i riconoscimenti, Eduardo non ha mai dimenticato da dove veniva, quell’intreccio di vicoli e stradine che costituisce il cuore della vecchia Napoli. Non ha mai dimenticato la sua gente, la sua musica, il sole, il mare ed il profumo di Napoli che ha sempre riproposto anche nei lavori della maturità. Non ha mai ambientato commedie in un posto che non fosse la sua città natale; non ha mai usato un altro linguaggio né usato altri personaggi, a dimostrazione di un cordone ombelicale invisibile ed indissolubile con una città che, nel bene e nel male, è stata attrice e spettatrice del suo teatro e della sua stessa vita. Eduardo è immortale; il suo teatro, fatto con onestà e per il quale il maestro ha sacrificato la sua vita, conosciuto e apprezzato in tutto il mondo, è immortale. Eduardo è un esempio di dedizione e passione per il proprio mestiere, bel lontano dalla bramosia del successo facile.

“Ho fatto l’attore perché la mia famiglia era una famiglia di attori. La recitazione che vedevo sui palcoscenici di allora non mi piaceva, la trovavo esagerata, finta. Con la presunzione dei bambini ho pensato che avrei fatto molto meglio io, e che Il stavano sbagliando tutto. Per tutta la vita ho sempre voluto fare meglio degli altri, essere più vero, osservare più attentamente la realtà, raccontare meglio di tutti la vita” (E. De Filippo)

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