‘La nobile arte del bluff’, il romanzo del newyorkese Colson Whitehead tradotto e pubblicato da Einaudi

La nobile arte del bluff” di Colson Whitehead è un libro che è stato pubblicato da Einaudi nel 2016, tradotto da Paola Brusasco. La scrittura di questo testo ha assorbito completamente Colson Whitehead. Questo romanzo dello scrittore newyorkese è ben più di un reportage sul mondo del gioco, è uno spaccato autobiografico che affronta una crisi profonda e un’avventura personale molto particolare.

Uno scrittore newyorkese racconta la vita del poker come professione

Colson Whitehead è un grande appassionato di gioco. Per questo, la rivista di giornalismo sportivo “Grantland” gli commissiona un reportage sulle World Series of Poker di Las Vegas. Whitehead è un giocatore dilettante, ma nonostante questo, decide di scrivere il reportage sull’evento partecipando direttamente al torneo. Vuole raccontare l’esperienza dall’interno, prendendo parte ai campionati mondiali del poker. D’altronde, lui gioca a poker da sempre. Ha talento e tutti i suoi amici gli hanno fatto sempre notare che ha una perfetta “poker face”. I suoi tratti sono sfuggenti, le sue espressioni ermetiche e impenetrabili.

È sempre stato una persona molto difficile da interpretare. Whitehead si iscrive al torneo, per accorgersi presto che la sfida è più ardua di quanto avesse mai immaginato. Vincere tornei di poker tra amici non è la stessa cosa che dedicarsi completamente al gioco come professione. Lo scrittore si dedica quindi allo studio e all’allenamento al tavolo verde con grande costanza, praticamente ogni giorno. Assolda un coach personale per migliorare le sue performance, si concentra sullo studio del calcolo delle probabilità. Tutto questo percorso viene raccontato nel libro in modo dettagliato, fornendo uno spaccato unico sul mondo del poker professionale.

La nobile arte del bluff: un libro fuori dalle definizioni

Non è semplice definire questo libro, che non può essere incasellato in un determinato genere letterario. Il racconto biografico romanzato si intreccia costantemente al reportage sportivo. Il gioco del poker è un universo complesso e sfaccettato, con le sue regole e la sua precisa terminologia, che entra a pieno nel gergo dell’autore. Colson Whitehead si esprime spesso con termini e immagini prese apprese direttamente al tavolo verde, o attraverso lo studio di manuali specialistici. Il vocabolario del poker si integra perfettamente in questo esperimento letterario. Addirittura, in alcuni punti il linguaggio potrebbe risultare anche eccessivamente tecnico per chi non chi non conosce il gioco. Proprio per questo, Whitehead aggiunge anche una bibliografia finale, condividendo con i suoi lettori i suoi manuali di poker di riferimento. In questo modo ogni lettore potrà approfondire l’argomento e padroneggiare anche la terminologia specialistica. Questo libro, unico nel suo genere non può assolutamente mancare nella libreria degli appassionati del tavolo verde. Per certi versi, possiamo già considerarlo un libro di culto.

Fonte: Pixabay Autore: Lindsay Scott

 

Riflessioni sul bluff: società, dolore esistenziale e autobiografia

Nel libro troviamo un mosaico molto interessante del mondo del poker, in particolare dei soggetti che si dedicano al poker. Leggiamo una descrizione accurata di un ambiente complesso e molto variegato. Si descrivono le vite di giocatori praticamente nomadi, che vivono la loro vita in alberghi a cinque stelle, passando di città in città. Questi alternano momenti di altissima concentrazione e di totale dedizione alla competizione, a momenti di svago, di relax e di sontuosi buffet. Il clima è festoso, all’insegna del consumo: piscine, spa, massaggiatrici. L’autore riflette sull’evoluzione della società e porta la riflessione anche su un piano più prettamente esistenziale e individuale. Whitehead affronta una grossa crisi, la depressione e diverse questioni legate agli affetti.

 

Colson Whitehead, un talento newyorkese

Arch Colson Chipp Whitehead è nato il 6 novembre del 1969 a New York, a Manhattan. I suoi genitori sono ricchi imprenditori afroamericani. Frequenta la Trinity School di Manhattan e si laurea alla Harvard University. Ha scritto ben otto romanzi, il suo lavoro d’esordio risale al 1990 e si intitola “L’Intuizionista”. Nel 2016 ha pubblicato “Railroad”, vincendo il National Book Award for Fiction nello stesso anno. Nel 2017 vince il premio Pulitzer per la narrativa. Vincerà nuovamente lo stesso premio nel 2020 con il romanzo “I ragazzi della Nickel”. Si è dedicato molto anche alla saggistica, venendo premiato con il MacArthur Genius Grant. Ha pubblicato diversi articoli su riviste come Harper’s, Granta, The New Yorker e The New York Times.

‘Sei stato felice, Giovanni’, di Giovanni Arpino, un inconsueto romanzo del dopoguerra

Appena si termina la lettura di Sei stato felice, Giovanni, romanzo del 1952 di Giovanni Arpino, di colpo si potrebbe avvertire con forza la necessità di piangere, sentendosi subito dopo più leggeri. Tale reazione per alcuni può risultare abbastanza inconsueta, soprattutto se il libro in questione non è un testo romantico, né drammatico, semmai un’opera neorealista, avventurosa, scritta con disinvoltura e leggerezza, che conduce ad un possibile felicità la quale giustifica il pianto precedente.

Il romanzo di Arpino era in netta contrapposizione con lo stile serio della maggior parte dei romanzi italiani del dopoguerra.

Nel 1950 Giovanni Arpino ha appena 23 anni quando decide di scappare da Torino per approdare a Genova, dove prendendo alloggio in una lurida e sporca pensione, mangiando male ed il minimo indispensabile, in venti giorni partorisce la sua opera prima, per l’appunto “Sei stato felice, Giovanni”. Ricopia in fretta e furia il manoscritto a macchina e lo invia all’Einaudi, dove Italo Calvino non ne è convinto del tutto, ma grazie ad Elio Vittorini, per il quale il romanzo è da stampare “senza esitazioni” il romanzo vedrà la luce.

È proprio a Genova che Arpino decide di ambientare questo romanzo, facendo aggirare Giovanni, il protagonista, ed i suoi due amici Mangiabuchi e Mario, per i suoi vicoli ed il porto, mostrandoci e conducendoci per mano in una città che cerca faticosamente di rialzarsi dai danni della guerra.

Dei tre, Giovanni, è l’unico ad amare la lettura, e fa i salti mortali per avere la propria indipendenza, per vivere in una camera di un povero albergo e potersi ritagliare i propri spazi per leggere. Nonostante sia circondato dalla povertà, da compagnie non di certo illuminanti, e cerchi di vivere alla giornata cercando in continuazione trucchi per sopravvivere, i libri rimangono quella perenne finestra aperta verso la felicità, da lui tanto agognata.

Sono il suo rifugio sicuro che gli permette di poter gridare al mondo la sua diversità da chi, come ci dice riferendosi a Mangiabuchi: “Non sapeva né pensare né non pensare, vivere giorni seduto su uno scalino, solo mangiare e dormire sapeva e neanche bene”.

Se a Giovanni gli avessero sottratto il suo sentirsi diverso, estraneo da tutti, probabilmente non gli sarebbe rimasto più nulla. È la sua unica ancora, alla quale si appiglia con forza fin dalle prime battute. Sono intrise di visioni del futuro queste pagine, colme di paura per quel che sarà e ci sarà, e ci si rende conto facilmente con l’avanzare delle pagine di quanto sia cambiato essenzialmente poco da quel che dovevano provare i giovani nel dopoguerra, dove vi erano mille incertezze e incognite, alla sensazione di spaesamento e solitudine che si ha oggi, nel 2022. Si è tramandata quella perenne sensazione di vagabondaggio del destino, che non volendosi definire o delinearsi naturalmente davanti ai nostri occhi man mano che si cresce, ci fa girovagare senza meta, spaesati, cercando forsennatamente di raggiungerlo.

In ogni epoca, i giovani hanno sempre avuto problemi. Dopotutto sono i nuovi, gli appena arrivati, e come tali devono adattarsi ad un mondo già avviato, lanciato a tutta velocità su binari ben collaudati, e l’adattamento in qualsiasi ambito lo si faccia, non è mai facile. Esser giovani per Arpino è sinonimo di libertà, di notti insonni, di assenza di legami, vuol dire svegliarsi a sonno finito, andare al porto e camminare. Significa pensare in continuazione a come dare una svolta alla propria esistenza, trovare un lavoro che appaghi, che faccia fare una barca di soldi, ma al contempo non averne neanche più di tanto voglia, perché le giornate scorrono troppo in fretta e si ha anche voglia di trastullarsi,
bere, fumare, leggere.

Giovanni non è felice, ed il motivo è semplice, non è soddisfatto di quel che fa e mentre i suoi amici si accontentano di sopravvivere, saltando di giorno in giorno da un lavoro occasionale all’altro, lui soffre e si vede immobile, perché in cuor suo pensa di meritar di più. Quindi non appena si siede ad un bar per bere una birra, sente d’aver appena soddisfatto un bisogno, quello della pigrizia, della nullafacenza, è sereno lì seduto a guardare il mondo che gli scorre di fianco, ma non trascorre molto tempo prima che gridi disperatamente tutta la sua insoddisfazione e voglia di cambiare: “Venir fuori e mettersi per le strade a fare qualcosa, qualsiasi cosa per cui un uomo è un uomo e non solo una mano che dipinge cassette. Ero stato un mucchio di cose, mai un uomo che comincia a muoversi davvero.”

Le prova tutte Giovanni per essere felice, finché stremato nell’ultima parte del romanzo si arrende, e fissando il busto di un poeta che incontra passeggiando, gli parla guardandolo in faccia, senza timori, sfrontato, tirando fuori parole pesanti come mattoni, lasciandole lì ai suoi piedi. Quasi a togliersi un peso, che non gli permetteva più di muoversi.

“Io so solo che sono stato felice e che darei l’anima per poterlo essere ancora un poco. Sicuro, sono stato felice, ma non basta. Non basta mai”. Giovanni vuole andarsene da Genova, e lo fa, prendendo un treno direzione Roma e riponendo tutto quel che ha nella speranza.

La speranza che tutto quel che avrebbe avuto nella capitale sarebbe stato lontano anni luce da quel che aveva avuto fino al giorno prima. Voleva scordarsi della fame, dei debiti, dell’indefinito.

Non dorme in treno, non ci riesce, la speranza è troppa.

Grazie a Giovanni, si può riuscire ad esser felici.

Giovanna Rosadini, poetessa ed ex editor dell’Einaudi, vincitrice del Premio internazionale di Letteratura Alda Merini

Giovanna Rosadini è stata per anni redattrice ed editor dell’Einaudi, una delle migliori case editrici italiane, dove ha lavorato gomito a gomito con i migliori autori di narrativa e poesia italiani e stranieri, riguardo ai quali ha più volte raccontato aneddoti in articoli e interviste rilasciati in questi ultimi anni: più che un apprendistato, una vera e propria palestra intellettuale.

Dopo l’incidente che ha subito nel 2005 è diventata lei stessa autrice Einaudi, mettendo a frutto in prima persona il proprio talento letterario sia come curatrice (“Clinica dell’abbandono” di Alda Merini, e “Nuovi Poeti italiani 6” , entrambi usciti con Einaudi), e pubblicando  anche le seguenti raccolte di poesie: “Il sistema limbico” ( Borgomanero, Atelier), “Unità di risveglio” (Torino, Einaudi), ”Il numero completo dei giorni” (Torino, Aragno), “Fioriture capovolte” (Torino, Einaudi), “Frammenti di felicità terrena” (Faloppio, LietoColle) ed infine nel 2021, “Un altro tempo” (Latiano, Interno Poesia Editore).

Con “Fioriture capovolte” ha vinto la XXXI edizione del Premio Letterario Camaiore. Con l’autoantologia che include una sezione di inediti “Frammenti di felicità terrena” ha vinto l’ottava edizione del Premio internazionale di Letteratura Alda Merini.

La poetessa ha subito un grave trauma. Ma lasciamo la parola completamente a lei. In una intervista alla poetessa Luigia Sorrentino il 24 marzo 2009 così descrive ciò che le è accaduto in modo dettagliato: “…A seguito di un banale cateterismo tubarico all’orecchio sinistro, sarebbe a dire un’insufflazione, sono finita in coma. Non ero mai stata sottoposta, prima, a questo tipo di pratica; ma eravamo (con la mia famiglia, Paolo e i nostri due ragazzi, Matteo e Bianca) alla vigilia della partenza per una lunga vacanza negli Usa, che avrebbe previsto diverse tappe, con punto d’arrivo nelle isole Hawaii, dall’altra parte del mondo.

Dunque, siccome accusavo un risentimento fastidioso, pensai di mettermi al riparo da possibili guai più grossi recandomi allo studio del mio otorino di fiducia, un medico genovese che mi seguiva sin dall’ infanzia. Quel sabato mattina (era una tiepida giornata primaverile) partii in auto da Milano insieme a mia figlia, che aveva allora nove anni; saremmo dovute rientrare l’indomani, dopo una serata in riviera coi nonni… Certo non potevo immaginare che avrei rivisto casa mia solo l’autunno seguente, e Paolo e Matteo dopo mesi… L’ultimo ricordo preciso è la telefonata di mio marito appena arrivate a Genova, poi tutto si sfilaccia… Un arresto cardiorespiratorio da riflesso vasovagale dovuto all’intervento mi ha precipitato nel buio… Mi sono risvegliata che era già estate piena, alla clinica S. Anna di Crotone, un centro d’eccellenza dove ho fatto i primi sei mesi di riabilitazione…

Non riuscivo a muovere la parte sinistra del corpo, ero completamente disorientata spaziotemporalmente, e ho dovuto reimparare, come un bambino piccolo e con uno sforzo indicibile, a fare tutte quelle cose che prima erano normali automatismi quotidiani: respirare e mangiare da sola, camminare, abbottonarmi un vestito, allacciarmi le scarpe, tenere una penna o uno strumento (un bicchiere, un paio di forbici, ecc.) in mano, e, in generale, riabituarmi al mondo esterno e ai suoi ritmi, che all’inizio mi davano le vertigini. Oggi, se posso dire di aver recuperato tutto dal punto di vista cognitivo, devo purtroppo convivere con una forma di disabilità permanente; ho perso infatti l’uso della mano sinistra, e certo non riesco e riuscirò più a svolgere le attività motorie di un tempo, come correre, andare in bicicletta, sciare, ballare o suonare il piano.

Posso dire ora di aver trovato un nuovo equilibrio, anche se ho pagato un prezzo molto alto, e insieme a me tutti i miei familiari, la cui vita è cambiata radicalmente. Unità di risveglio è il diario-racconto in versi, fra speranze e paure, del mio ritorno alla vita a seguito di quest’esperienza… Di come io abbia cercato di trasformare lo choc per quanto mi è successo, e per la mia nuova condizione, in un nuovo punto di partenza… Ribaltando la rabbia e il lutto per la perdita in punti di forza… Entrando a far parte di un mondo, quello della malattia, della sofferenza, dell’insufficienza fisica, che prima mi era totalmente sconosciuto… Un mondo sorprendentemente giovane, ricco di umanità ed empatia… Trovando finalmente il coraggio, io che scrivo da sempre, di legittimarmi compiutamente questa parte di me stessa, dopo una vita vissuta all’insegna dei ruoli di servizio (sorella maggiore, madre, editor per altri autori…)”.

Giovanna Rosadini lavora ancora oggi come editor freelance, oltre ad essere un’operatrice culturale.

Ecco alcuni testi eccellenti della Rosadini, tratti da “Un altro tempo”:

A poco a poco il giorno si fissa, diventa un continuum di immagini e presenze, a partire dall’inquadratura che isola, oltre la porta della stanza, una pingue ausiliaria che lava il pavimento del corridoio, con un carrello fornito di secchio e spazzoloni accanto. Piego le gambe, mi guardo la punta delle ginocchia ossute che emerge dalle lenzuola (la gamba sinistra sembra più sottile, ma ci vedo bene?). Ogni parte del corpo duole, le giunture sono come arrugginite e fuori uso, uno strano torpore formicolante si è impadronito degli arti, e la spalla sinistra è in fiamme. Cosa è successo al mio corpo?

Ti sei sentita male, hai perso conoscenza. Quando ti sei svegliata ti abbiamo portata qui” Affiora un pensiero magico: deve pure esistere un modo per tornare indietro. Tutto questo non può essere vero…. L’applauso che mi fanno i medici, terapisti ed infermieri per ogni piccolo progresso che faccio…”. “so cosa vuol dire ritrovarsi prigionieri di un corpo che non risponde… e so, sì, che l’accettazione consapevole di tutto ciò è la più alta forma di eroismo che possa esistere. Ogni cosa è allo stesso tempo nuova e remotissima.

Quando ascolto un brano musicale, sicura di conoscerlo… La presenza dei familiari, fondamentale. La sorella minore Vera, che fa da tramite con gli altri della famiglia, “ed ora è la vera sorella maggiore, e io mi affido volentieri alle sue cure e alla sua competenza. … E “riabilitazione” diventa una parola che mi genera fastidio e insofferenza… Posso ancora dire di essere la Giovanna che ero? E in quale misura potrò tornare a esserlo? … Provo con le persone ricoverate con me un sentimento di fratellanza che non  ho mai avuto…  L’immagine simbolo di questa epica riabilitativa picaresca-ospedaliera è la sessione settimanale di karaoke. … Sentimento di solidarietà e comunione profonda… Accettare l’imperfezione … vulnerabilità come dato costituente e basilare della nostra umanità …  Sempre più chiaro che rimarrà una coda, ce lo dicono i medici, nessuno può dire quanto estesa… La riscoperta del gusto del cibo dopo mesi di anodine polpette, brodini e puré … Ed eccomi finalmente fuori, su questa lunghissima e selvaggia spiaggia calabrese, dove mi hanno portato Francesco e Cristina … Finalmente un pomeriggio nello studio di musicoterapia… sono invasa dalla musica… è un risveglio istantaneo dei sensi … e sto imparando la gratitudine, per la seconda possibilità che mi è stata data… Poi, una sera … una stupefacente nuvola rosa pennellata nella vastità del cielo ci ha ricordato di essere parte di un immenso Mistero.

Da “Unità di risveglio” (Einaudi):

Per Paolo

L’ultimo ricordo è la tua voce,

prima che tutto si confonda

e poi sbiadisca, in controluce;

dopo c’è stato un volo nella notte,

un tuffo dentro l’acqua più profonda,

lo scivolare netto dove l’ombra inghiotte

l’aria, e l’onda è un vortice che spiomba…

Mentre ogni cosa rimbomba per voi

che rimanete, a custodire il corpo inerme

chiuso nel silenzio e nell’assenza,

ormai slacciato da ogni appartenenza…

 

Da Fioriture capovolte (Einaudi):

 

Per M. D.

La Riviera è il nostro regno

in questo inizio di estate terso

come una promessa che si avvera

improvvisa e perpendicolare

ai morti orizzonti invernali

il primo amore è la sorpresa

di ritrovarsi in corsa nella luce

aperta della strada, appoggiata

alla tua schiena mentre l’aria

vortica intorno, e ogni cosa

sembra sul punto di schiudersi.

Mi lascio portare, leggera

d’animo e di pensieri, dimentica

di tutte le domande rimaste inevase:

oggi mi basta sapere quale sarà

la spiaggia dove siamo diretti,

da cui ci tufferemo

tenendoci per mano.

 

 

Respiro nel respiro, ascolto la notte

 

Respiro nel respiro, ascolto la notte.

Ombre lunghe tendono abbracci,

invitano a proseguire oltre la siepe

sul confine dello sguardo. Accade,

ancora, di ritrovarsi nudi, esposti.

Restare allora nella notte, accogliere

la sua lusinga è un balsamo per chi

non lascia tempo alla paura, tenebra

è una parola che risolve e cura.

 

 

Per contatti: https://m.facebook.com/profile.php?id=100010143664692

 

Di Davide Morelli

I migliori editori della storia dell’editoria italiana e il grande agente letterario Linder

Editori protagonisti. Così li definisce Gian Carlo Ferretti che al mondo dell’editoria ha dedicato tanti libri: editori protagonisti. Sono di cultura ed estrazione diversissima, ma tutti capaci «di imprimere un’identità editorial-letteraria alla propria impresa al fine di costruire un proprio pubblico. Si tratta degli editori che hanno fondato le loro grandi imprese proprio a cavallo della seconda guerra mondiale. Ad ogni casa editrice, Ferretti affianca una etichetta caratterizzante: la Mondadori è un’istituzione, la Rizzoli un impero, Bompiani un club, l’ Einaudi un laboratorio. La loro presenza nel panorama culturale italiano nasce dal  «rapporto consapevole tra l’editore, il suo progetto, i suoi funzionari e consulenti, i suoi redattori, la sua macchina, e si realizza nella politica d’autore, di collana e di prodotto».
Gli editori protagonisti erano titani dalla forte personalità (e dalle grandi contraddizioni), caratterizzati spesso da gusto per il libro ben fatto, senso pratico e grande fiuto; i quali costruivano veri e propri rapporti continuativi, tra armonie e conflitti reciproci fecondi, con gli scrittori. Ne abbiamo individuati cinque, che vediamo qui negli anni fondativi, seguiti da una figura eccentrica, il “padre” degli agenti letterari italiani.

Arnoldo Mondadori
La casa editrice viene fondata a Ostiglia nel 1907 dalla collaborazione di Arnoldo Mondadori (nato nel 1889) con Tomaso Monicelli (il padre del futuro regista Mario). Arnoldo non ha neppure finito le scuole elementari, ha lavorato giovanissimo come garzone, come venditore e poi come tipografo ed è soprannominato “incantabiss”, “incantaserpenti” per la sua voce seducente. La novella casa editrice pubblica i primi testi (la collana “La lampada” per l’infanzia) nel 1912; poi si trasferisce a Milano specializzandosi in riviste popolari (“Il Milione”, “Il secolo illustrato”). Nel 1933 vara la prestigiosissima collana di colore verde “La Medusa”, dedicata alla letteratura straniera; il primo volume fu Il grande amico di Alain-Fournier tradotto da Enrico Piceni. Limitata dalla censura fascista tra il ’38 e il ’42, contribuì subito dopo a diffondere la cultura americana.
Per evitare i bombardamenti nel 1942 la sede e le redazioni si trasferiscono sul lago Maggiore, dove dopo l’8 settembre 1943 vengono però requisite dal governo della Repubblica Sociale Italiana. La gestione viene commissariata e la famiglia Mondadori si rifugia in Svizzera.
Dopo la guerra Arnoldo Mondadori riprende possesso dell’azienda e ne avvia la ricostruzione con il recupero delle macchine di stampa trafugate dai nazisti e con l’acquisto, grazie anche ai contributi del Piano Marshall, delle nuove rotative americane necessarie per lo sviluppo dell’attività nei periodici.

Fiducioso nel suo intuito, Arnoldo si rivolge al pubblico femminile con Bolero Film e Confidenze, lancia nuove collane di alto livello letterario, tra cui i Classici contemporanei italiani (1946) e i Classici contemporanei stranieri (1947), rilancia i generi bloccati dal fascismo riprendendo nel 1946 i Libri gialli che raggiungono in breve le centomila copie al mese, e Topolino (che era stato introdotto in Italia dall’editore fiorentino Nerbini nel 1932).
La filosofia editoriale di Arnaldo poggiava sullo scambio epistolare tra autore ed editore: ne sono testimonianza i carteggi conservati presso la fondazione Mondadori accessibili on line.
Arnoldo fu affiancato per un primo periodo dal figlio maggiore Alberto, corrispondente di guerra, fondatore di riviste importanti come il Tempo ed Epoca, che poi si separerà dal padre per contrasti fondando la casa editrice il Saggiatore.

Angelo Rizzoli
Nato – come Mondadori – nel 1889, cresciuto nel Collegio dei Martinitt a Milano, figlio di un ciabattino analfabeta che morì prima che lui nascesse, Angelo Rizzoli conobbe la più cruda povertà e imparò il mestiere di tipografo proprio in orfanotrofio. A vent’anni iniziò la sua carriera di imprenditore nel campo dell’editoria in una piccola sede tipografica a piazza Carlo Erba e, subito dopo la guerra, vicino al parco Lambro, in un moderno stabilimento.
Nel 1927 acquistò dalla Mondadori il bisettimanale Novella sul quale, al tempo, venivano pubblicati racconti di D’Annunzio e Luigi Pirandello; nel 1930 Novella divenne un periodico femminile, raggiungendo la tiratura di 130.000 copie.
A Novella seguirono Annabella, Bertoldo, Candido, Omnibus, Oggi e L’Europeo.

Dopo i periodici, Rizzoli iniziò nel 1949 a pubblicare anche libri scegliendo con lungimiranza una politica editoriale “economica” con i libri della collana BUR (Biblioteca Universale Rizzoli), 4 libri classici a prezzi popolari: i famosi volumetti “grigi”, formato 10,5 per 15,7 centimetri, prezzo 50 lire, che dal 1949 hanno offerto alle classi meno abbienti l’opportunità di avvicinarsi alla lettura. Erano stati i consulenti Paolo Lecaldano e Luigi Rusca a convincere l’editore a dare vita a una collana di classici a prezzo molto contenuto destinata al grande pubblico, ispirata al sistema modulare dell’editore tedesco Reclam. Primo titolo pubblicato i Promessi Sposi, quindi Teresa Raquin di Zola e Il fantasma di Canterville di Wilde. La tiratura iniziale era 10.000 copie, ma il successo fu talmente grande, parallelo alla voglia di cultura di un’Italia uscita dalla guerra, che pochi mesi dopo lo standard salì a 20.000 copie, poi a 30.000, quando la tiratura media in Italia allora si attestava attorno alle 3000 copie. Un successo considerato di tale portata che l’Unesco nel 1952 attribuisce alla Bur il titolo di “iniziativa di importanza e interesse mondiale”.

Giulio Einaudi
La casa editrice Einaudi viene fondata nel 1933 da un gruppo di amici, allievi del liceo classico D’Azeglio di Torino e, seppure in anni e in classi diverse, tutti allievi del professore Augusto Monti, che li aveva educati ai valori della cultura, della libertà e dell’impegno civile. Intorno al più giovane di loro, Giulio Einaudi (nato nel 1912, da Luigi, che sarà il primo presidente della Repubblica Italiana dal 1948 al 1955), si erano raccolti Leone Ginzburg, Massimo Mila, Norberto Bobbio, Cesare Pavese, affiancati successivamente da altre figure come Natalia Ginzburg (moglie di Leone) e Giaime Pintor. Il progetto editoriale che ne nasce intende intervenire nel campo della storia, della critica letteraria e della scienza «con l’apporto di tutte le scuole valide, non appiattite dal prevalere della politica sulla cultura». La conduzione è collegiale e i collaboratori sono amici e sodali.
Una cura particolare è dedicata alla fattura dei libri: la carta, la legatura, le copertine (le prime furono dipinte da Guttuso, Ajmone, Peverelli, Menzio) e anche la grafica, per la quale l’Einaudi sarà all’avanguardia grazie alla collaborazione di maestri come Albe Steiner e Max Huber e poi Bruno Munari.

Giulio Einaudi e soprattutto i suoi più stretti collaboratori devono fare i conti con arresti, condanne al confino, ma l’attività editoriale si interrompe solo con l’8 settembre 1943. La lotta di resistenza disperde tutti. Leone Ginzburg e Giaime Pintor muoiono tragicamente. Giulio Einaudi si rifugia in Svizzera, poi rientra in Italia unendosi alle brigate garibaldine in Val d’Aosta, e nel 1944 a Roma incontra Palmiro Togliatti; è l’inizio di una serie di contatti dai quali scaturirà, fra il 1947 e il 1951, la pubblicazione di Lettere dal carcere e dei Quaderni di Antonio Gramsci.
Dopo la guerra il lavoro editoriale sarà affidato ad intellettuali e scrittori di spessore come Elio Vittorini, Natalia Ginzburg, Luciano Foà, Giulio Bollati, oltre a Cesare Pavese. Nel 1946 comincia a gravitare attorno alla casa editrice Einaudi Italo Calvino vendendo libri a rate. Passato dagli studi di Agraria a quelli di Lettere, si dedica alla stesura del suo primo romanzo che conclude negli ultimi giorni di dicembre, Il sentiero dei nidi di ragno, con il quale partecipa a un concorso promosso dalla Mondadori. Il romanzo non vinse, ma Cesare Pavese lo propose a Giulio Einaudi, che accettò di pubblicarlo, dando così inizio a un rapporto con Calvino che sarebbe proseguito per gran parte della sua vita, in veste di autore, di consulente, di redattore e direttore di collane.

Valentino Bompiani
Proveniente da una famiglia ricca e aristocratica, di tradizioni militari, si avvicinò all’editoria con un apprendistato di circa cinque anni presso la Mondadori, prima come segretario di Arnoldo e poi come segretario generale, e nel 1928 fece una breve esperienza presso la casa editrice Unitas (specializzata in testi scolastici e periodici), che a breve subirà il fallimento per aver pubblicato senza permesso una parodia dei Promessi Sposi di Guido da Verona. Valentino Bompiani fondò la sua casa editrice (non comprensiva di tipografia, come invece erano Mondadori e Rizzoli) nel 1929 a Milano.

Nel ’39 Bompiani conferì a Vittorini l’incarico di dirigere la collana “Corona” e di curare l’antologia di scrittori americani Americana che, a causa della censura fascista, venne pubblicata solamente nel 1942 e con tutte le note dell’autore soppresse (l’edizione integrale uscì nel 1968). Vittorini pubblicò per Bompiani il suo romanzo Uomini e no (1945) e lavorò per lui tra il 1938 e il 1943. La Capria ricorda l’elegante formato “gotico” in cui uscirono Cronin, Caldwell e Steinbeck, ma anche Alvaro, Moravia, Brancati, Vittorini: «la gente si accorgeva che esistevano anche romanzi italiani che potevano ben reggere il confronto con gli stranieri».

Tra il gennaio del 1943 e la Liberazione la censura blocca la stampa della Dickinson e di Conrad, ordina il sequestro di Il Volga nasce in Europa di Curzio Malaparte e tra le opere della collana “Corona” non concede il nulla osta a Gide, a Proust, a Cocteau.. La stampa di Salò non manca di attaccare l’attività della Bompiani. Si legga l’ironico commento su “Il Fascio” del 22 ottobre 1943:

«Quale magnifica prova di coerenza continuano a dare gli editori e i librai italiani, almeno quelli di Milano. Certo in prima fila sta l’editore Bompiani – l’editore di quell’incrocio di giudeo e di slavo Alberto Moravia (…) – l’editore Valentino Bompiani che subito accolse nella sua casa l’ebreo avvocato Falco allorché questi, per le leggi razziali, non poteva più esercitare la professione forense, e che scelse pure come proprio braccio destro quell’ ‘americanista’ Elio Vittorini di cui parlammo nel numero scorso»

Tra il 1945 e il 1950 con un lavoro immane (in casa editrice l’opera era soprannominata “L’arca di Noè”) fu completato il Dizionario letterario delle opere e dei personaggi di tutti i tempi e di tutte le letterature, in tredici volumi, a cura di Celestino Capasso, Paolo De Benedetti e la revisione filologica di Carlo Cordiè, ideato già dal ’38 con lo scopo di «mettere in salvo, con la memoria e lo studio di chi conosceva direttamente le opere, tutto ciò che l’uomo ha pensato e scritto nei millenni, dalle origini ad oggi».

Aldo Garzanti
Forlivese, figlio di un maestro elementare ex-garibaldino e quindi allevato agli ideali risorgimentali, allievo all’università di Bologna di Giovanni Pascoli, Aldo Garzanti fu all’inizio insegnante e poi imprenditore chimico, finché nel ’39 non rilevò la prestigiosa Fratelli Treves, la casa editrice di D’Annunzio, Verga, de Amicis e Pirandello – costretta a chiudere per le leggi razziali – continuandone la linea editoriale. La nuova sede di Forlì riesce a conquistare un buon numero di lettori con Il mulino del Po, romanzo di Riccardo Bacchelli, uscito nel 1940, che nel giro di tre anni raggiunge le 100.000 copie vendute.
In una lettera del 24 marzo 1942 Aldo Garzanti rispondeva alla lettura di un breve testo (Essi pensano ad altro) arrivato da Reggio Emilia a firma Silvio D’Arzo. Garzanti ammetteva di trovarsi preso in una «martellante e ossessionante allucinazione» dove il lettore, necessariamente coinvolto nel gioco, doveva «[…] per molte e molte pagine aspettare, attendere, sperare». Ma infine Garzanti ne rifiutò la pubblicazione, così come già Bompiani, nella persona di Emilio Cecchi ed Einaudi, attraverso Pavese e la Ginzburg, avevano rifiutato Casa d’altri (che uscì poi per Vallecchi).
Dopo i pesanti danni subiti nel 1943 per i bombardamenti, che distrussero anche gli archivi, Aldo Garzanti avvia un piano di ricostruzione: nel ’44 affida a Gio Ponti la costruzione del palazzo Garzanti in via della Spiga a Milano (la sede che poi negli anni ottanta sarà affrescata da Tullio Pericoli); si dedica poi alla Fondazione Garzanti a Forlì, affidando la casa editrice milanese al figlio Livio che l’ha diretta dal ’52. E’ lui, Livio Garzanti, che per personalità può entrare nella “cinquina” degli “editori protagonisti”.

La figura dell’agente letterario

Quella dell’agente letterario è una professione ormai stabile dell’editoria: l’industrializzazione del mercato del libro, il conseguente aumento delle dimensioni di alcune case editrici, la diversificazione delle attività al loro interno lo richiedono. Inizialmente, in Italia l’agente letterario si occupava soltanto dei diritti dei titoli stranieri che venivano “importati”. È con Erich Linder che l’agente letterario acquisisce nuove funzioni editoriali; egli viene definito “il padre di tutti gli agenti letterari italiani”.

Nato in Galizia nel 1925 da madre polacca e padre rumeno, fu tra le più autorevoli e influenti figure dell’editoria mondiale, rappresentando 10.000 autori tra i quali Pound, Mann, Joyce, Kafka, Roth, Brecht, Salinger, e i più importanti in Italia.
Immigrato in Italia prima della seconda guerra mondiale, colpito con la sua famiglia dalle discriminazioni razziali, frequentò la scuola ebraica romana. Durante la guerra riuscì con avventure rocambolesche a sfuggire ai tedeschi, per poi raggiungere l’esercito alleato con cui rimase sino alla fine della guerra. Conosceva perfettamente cinque lingue. Augusto e Luciano Foà lo coinvolsero a collaborare all’impresa delle nuove Edizioni Ivrea di Adriano Olivetti e in seguito, per la sua competenza di traduttore, con la casa editrice Bompiani. Nel 1951 assunse la guida della Agenzia Letteraria Internazionale, ALI, fondata nel 1898 da Augusto Foà e lasciata da Luciano che era stato chiamato da Einaudi a sostituire Cesare Pavese dopo il suicidio. L’ALI sotto la guida di Linder divenne tra le più importanti agenzie letterarie al mondo, e forse la più importante in Europa.
Alla domanda «Chi è un agente letterario?» Linder stesso rispondeva:
«Un agente letterario è un amministratore di autori. Non c’è nessuna ragione perché si debbano avere dei commercialisti, degli avvocati e perché invece gli autori non debbano far gestire i loro affari da qualcuno che conosca il mestiere: gli autori dovrebbero scrivere libri»
In un convegno internazionale a lui dedicato, Inge Feltrinelli ricorda:

«Era un uomo molto rispettato e anche un po’ temuto. Incuteva una certa soggezione: perdere la sua simpatia poteva significare perdere anche la possibilità di pubblicare autori cui si teneva molto. Abituati a fare da soli, sia nella fase di scouting sia in quella, più delicata, delle trattative contrattuali, gli editori italiani nel dopoguerra dovettero fare i conti con Linder e accettarlo come interlocutore. (…) Linder aveva una grande idea del proprio ruolo, consapevole che con i suoi sì o i suoi no finiva con il dar forma ai programmi letterari del mondo librario italiano.»

E Leonardo Sciascia: «Stando con lui, al fatto economico, alla sicurezza di ricevere diritti e compensi, si accompagnava la possibilità di comunicare con gli editori, e specialmente con gli editori stranieri, il farsi sentire, l’avere – per così dire – voce in capitolo»

 

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‘Kafka sulla spiaggia’: il grande racconto di formazione di Haruki Murakami

Un cammino alla ricerca del senso, si potrebbe sintetizzare così il grande racconto di formazione Kafka sulla spiaggia di Haruki Murakami. Il romanzo, edito per la prima volta quindici anni fa, intreccia due storie quella di Tamura Kafka, prestante quindicenne in fuga dal padre, e quella di Nakata, ingenuo e simpatico anziano con un deficit mentale e uno strano potere. Anche in quest’opera Murakami annoda e scioglie le maglie di una narrazione intricata in cui la realtà si trasforma e si piega alle esigenze del racconto sovrapponendo piani narrativi e temi che difficilmente potrebbero convivere nel mondo reale.

Troviamo così da un lato il cammino verso la vita del giovanissimo Tamura Kafka che è alla disperata ricerca del suo passato, che assume le sembianze dell’abbandono materno, dall’altro l’anziano Nakata, in fuga da un omicidio che è stato costretto a commettere suo malgrado, che vuole ritrovare il suo autentico io perso da bambino a causa di un incidente. Il cammino di queste due figure, che per loro natura non avrebbero mai dovuto incontrarsi, nell’evolversi della storia tende a sovrapporsi. Quasi in una rilettura dell’effetto farfalla, ogni azione dell’uno determina un cambiamento dell’altro.

Murakami costruisce, come al suo solito, un’opera corale in cui anche i personaggi secondari hanno una loro peculiarità e unicità. Così al fianco dei protagonisti troviamo bibliotecari androgini, studentesse procaci, camionisti simpatici, donne affascinanti, una direttrice che vive imprigionata nel proprio passato, figure immateriali e, infine loro, i gatti, che vivono in queste città e che possono comunicare solo con Nakata che, escluso dal mondo degli umani, scopre tramite loro il piacere della socialità.

Tutti coloro che entrano in contatto con i due protagonisti subiscono una evoluzione. Si diceva che il mondo di Murakami si piega e flette alle esigenze della storia e questi spostamenti hanno conseguenze reali sugli esseri umani presenti.

L’unica cosa che resta immutabile è l’espressione di quel ragazzo nel quadro Kafka sulla spiaggia e, dinanzi a questo solo elemento statico, si nasconde un universo problematico che deve essere assolutamente sbrogliato.

Per comprenderne il motivo è necessario leggere il volume e chiedersi, verrà spontaneo, per quale motivo Murakami non abbia ancora vinto il Nobel per la Letteratura.

Incontro con Bruno Galluccio: tra poesia e scienza

Bruno Galluccio è uno straordinario autore che coniuga scienza e poesia nella sua opera: una poesia (molto ben recensita) attenta all’essenzialità, che si fa passaggio tra temi quali l’enigma dell’universo, il mistero, intrisa di un pieno umanismo in cui l’individuo è origine del sistema di riferimento. Sono continui i rimandi alla scienza, con diversi registri non proprio linguistici, direi piuttosto epistemici: il lessico si mantiene infatti sempre ricercato (cosa non scontata nella poesia contemporanea), pur senza barocchismi di maniera (cosa non scontata nella poesia in genere). Una voce non forzata, non ingombrante, non banale, ma affilata, di indubbio spessore artistico, quella di Bruno Galluccio: […]e io veglio anche/ per il tuo lembo di indicibile/ mentre la luce massacra l’ombra/ sul lato rovescio del pensiero.

Diversi registri epistemici, dicevamo: la poesia non è solo un resoconto della conoscenza, ma diventa veicolo di conoscenza. Non è solo senso verbale, ma anche senso percettivo e cognitivo. Questo aspetto, probabilmente collaterale alla sua formazione scientifica, questa contaminazione continua tra mondi troppo spesso, e a torto, ritenuti incomunicabili (l’arte, la scienza), è un esperimento molto interessante, e di certo ben riuscito. Protagonista di molti eventi (l’ultimo al MAN di Napoli, con letture accompagnate dalle musiche che Antonio Raja ha composto ispirandosi alle poesie di Galluccio; il prossimo nell’ambito della manifestazione “Futuro Remoto 2016”) e curatore di una sua rassegna napoletana (“La poesia al tempo del vino e delle rose”), Galluccio prende la poesia molto seriamente.

 

1.Partirei complimentandomi con te per il tuo recente lavoro “La misura dello zero”, non primo, ma secondo libro di poesie con un editore importante quale Einaudi: un risultato eccezionale, visto il mercato difficile della poesia.

(Ringrazia e sorride, poi si fa pensoso). Un mercato difficile, si, per motivi diversi: la poesia è impegnativa, il lettore non può leggerla passivamente. La poesia è difficile, e meno male: citando Jorie Graham, la poesia difficile è un regalo dell’autore al lettore. Di certo, la poesia non serve a niente, e tale è la sua forza: non si piega al compromesso delle cose utili. Ma per questo, non è immediato capirne la bellezza; secondo punto: la poesia entra poco nelle librerie, complice gli alti costi della distribuzione: eccezion fatta per piccole case editrici, si investe poco sui poeti. Quindi la poesia si compra poco. Quindi si legge poco. E dunque vi si investe poco. E così via, il cane si morde la coda; infine, è poca l’attenzione che i media dedicano alla poesia. Le recensioni di opere di poeti contemporanei sono eventi rari. Questo fenomeno è fortunatamente bilanciato dalla diffusione (che però non ha filtro alcuno) di versi via internet tramite social network, siti vari e blog.

2.Credi che c’entri anche la condensazione del tempo attuale, il ritmo così sostenuto di un presente privo di raccoglimento, di un caos dettato dalla frenesia quotidiana?

Credo che ci si debba abituare alla lettura. Io, per esempio, riesco a leggere poesie praticamente ovunque, ormai. In questo credo rientri anche il gusto personale, come nell’uso dei libri elettronici. Tu per esempio, li leggi?

Io sono un maniaco della carta stampata. Odore, fruscio, avorio. No, non li leggo.

Ti capisco, ma è innegabile che la rete permetta una distribuzione incredibilmente efficace della letteratura: si possono comprare testi, anche cartacei, dopo magari averne letto qualche estratto interessante; si possono conoscere autori stranieri, altrimenti inaccessibili, tradotti certamente in inglese, o addirittura in italiano.

3.Le traduzioni: quanta giustizia rendono alla poesia?

La traduzione è un male inevitabile, come dice Nicola Crocetti. Meglio leggere poesia tradotta che non leggerne affatto. L’ideale sarebbe, certo, avere un testo in lingua madre a fronte. La traduttologia presenta dilemmi insolubili: in caso di dubbio, meglio privilegiare il senso o il ritmo? Meglio essere traduttori non poeti, per evitare contaminazioni altrimenti inevitabili? Per non parlare dell’insidia dei termini “falsi amici” tra una lingua e l’altra… Più le lingue sono tra loro lontane, poi, più il discorso si complica.

4.A me, per esempio, piace la poesia russa. La Achmatova, o Mandel’štam,  per esempio. Ma ho il timore di non averli mai letti davvero.

Condivido in pieno la tua passione. Dicono che la poesia russa tradotta sia solo un pallido riflesso di quella originale. Certa è la capacità dei russi di leggere e recitare la poesia. Sai, in Russia la poesia è molto amata, ha molto pubblico. In Germania, lo stesso.

5.Molti credono che la poesia sia pura ispirazione. Quanto lavoro c’è dietro?

Io non intendo la poesia, prendendo un’orribile espressione usata talvolta, come “vomito dell’anima”. La poesia richiede lavoro. C’è un’idea iniziale che si va affinando. Di getto su può buttar giù, nero su bianco, soltanto uno scheletro del risultato finale.

6.Un atto volitivo e ponderato, certo. Altrimenti, dove si collocherebbe, in questo paradigma, il talento?

Appunto. Personalmente ripasso spesso sulle mie poesie.

7.Come sai che le stai migliorando, e non snaturando?

È un problema che mi pongo di continuo. È un rischio che il poeta deve assumersi. Le poesie lunghe possono diventare brevi, le brevi lunghe, perché magari ti rendi conto di aver detto troppo, o troppo poco, o male. Anche questo è fare poesia.

8.Che importanza ha il ritmo nella tua poesia?

Io scrivo versi liberi, mi piace calarmi in una metrica, e spezzarla con un elemento di disturbo. Il ritmo va organizzato con consapevolezza, ma senza rigidità schematiche. Alcune poesie, per esempio, possono essere musicali a tal punto da risultare fuori luogo rispetto al proprio contenuto.

9.Che rapporto hai con i miti? A quali poeti ti senti più legato?

Il senso di identificazione con gli autori del passato è a volte inevitabile. Questo accade soprattutto quando si è molto giovani, col tempo si trova una voce propria. Per fare qualche nome: credo che Leopardi sia insuperabile; amo Celan, Rilke, Eliot; Anne Sexton, una poetessa dalla voce forte, ed una delle donne più belle che io abbia mai visto; Emily Dickinson, di cui ho tradotto qualche poesia; poeti che non possono non piacere, come Baudelaire e Kavafis; Wallace Stevens, che è stato per un certo tempo mio riferimento; non mi sento in sintonia con la poesia di Ezra Pound e Sandro Penna, pur riconoscendone il valore; apprezzo molto Bonnefoy e Mario Luzi.

10.La bellezza in poesia ha a che fare con l’eleganza in matematica, intesa come rinuncia al superfluo?

Ne sono convinto. Entrambe si rifanno alla simmetria, all’essenzialità. Pensa alla formula di Eulero, che mette in relazione entità fondamentali della matematica, il numero di Nepero, l’uno, lo zero, la costante pi greco.

La formula di Eulero sembra un quadro dipinto.

Esattamente.

11.Cosa accomuna il numero e la parola? Credi che, così come il mistico Numero pitagorico, anche il Verbo abbia una funzione creatrice, intendo dire in senso quasi biblico?

Domanda impegnativa. Credo dipenda dal livello che si considera. Ad un livello più basso, entrambi servono a comunicare le cose: un significato, una quantità. A livello più profondo, simbolico, le creano. Vedi, io evito le definizioni troppo altisonanti della poesia. Per me la poesia è semplicemente l’uso più alto che si può fare della parola.

Del resto il linguaggio scientifico è spesso evocativo quanto quello poetico.

Certo. Pensa alla “sezione aurea”, per dirne una. Scienza e poesia si completano. Un teorema non può essere bello senza una riflessione ulteriore. E la poesia, d’altro canto, giunge a conclusioni del tutto arbitrarie senza la prima. E poi la poesia è un’attività umana, e in quanto tale non può disinteressarsi alla scienza. La poesia valorizza la scoperta, con stupore e rispetto. Del resto, Feynman si chiedeva perché, se è poetico un fiore, non dovrebbe esserlo anche la sua struttura interna microscopica, seppure in modo diverso. Aggiungo poi che, la matematica, non può solo essere oggetto di poesia, ma anche un ausilio ad essa, come fonte di metafore.

12.Ma la poesia, va capita?

Può essere capita a strati. Può essere fruita a livelli più o meno profondi. Il poeta ha spesso l’impressione, quando scrive, che non potrebbe dire la stessa cosa usando un linguaggio diverso. Che non potrebbe esprimersi in modo più semplice. Io per esempio ho bisogno, a volte, di utilizzare anomalie sintattiche. Di cambiare improvvisamente soggetto. È una necessità talvolta, più che una scelta. La poesia è così difficile per chi la legge, ma così remunerativa, proprio perché è stratificata. Bisogna prestare attenzione al linguaggio, e trovare la propria voce. Una definizione di poesia è inafferrabile come una definizione dell’amore: a quanto pare tutti ne hanno un’idea più o meno simile, ma non per questo è meno incomunicabile.

[…] la pioggia si ferma e cerca l’acqua
c’è un momento di materia nel flusso straniante
metà pozzo metà galleggiamento
e cominciamo a riacquisire i nuclei e lo spazio
la sfera che ci nutre e contiene.

 

 

Elio Vittorini, traduttore creativo

Wiliam Saroyan, scrittore e drammaturgo statunitense, verso la fine degli anni ’40, fece un viaggio in Italia e decise di andare a trovare Elio Vittorini, che oltre ad essere conosciuto come scrittore era già noto come traduttore di romanzi. Le cronache dell’epoca raccontano che durante il loro incontro, i due furono costretti a colloquiare attraverso l’uso di bigliettini, in quanto Vittorini, non era in grado di parlare l’inglese, pur conoscendone la forma scritta. Tale incapacità è stata rimarcata anche da alcune affermazioni della moglie, Rosa Quasimodo:

La signora Rodanachi (una traduttrice che gli fu presentata da Montale) faceva a Elio la traduzione letterale, parola per parola, che al leggerla non si capiva niente. Lui, poi, a quelle parole dava forma. Sua era la costruzione, l’invenzione; non si legava a quelle parole fredde. Lui raccomandava sempre a lei di fare la traduzione letterale, precisa, […] frase per frase. E poi lui la trasformava in un romanzo. Erano romanzi suoi che traduceva.” (dal Corriere della Sera.it, forum scioglilingua)

Questo limite non ha impedito a Vittorini di diventare il più importante traduttore delle opere dei narratori americani e di portare gran parte della letteratura statunitense nel nostro Paese, in un momento storico in cui il fascismo ostacolava l’espandersi di quelle culture che provenivano da parte di Stati che erano considerati spregiativamente come demoplutocrazie, (ovvero dei regimi  in cui coloro che detengono la ricchezza mobiliare, banche, possiedono anche un peso politico specifico con il quale perseguono i propri interessi personali, camuffandoli per scelte effettuate per il benessere del popolo; in sostanza una plutocrazia che si traveste da democrazia).

Nato a Siracusa nel 1907, Elio Vittorini, scrittore e curatore editoriale, dopo la Liberazione dirige a Milano la rivista il <<Politecnico>> (1945-47), di stampo comunista. Tra i suoi incarichi più importanti : la direzione della collezione letteraria i “Getton”i presso Einaudi, la collezione Medusa della casa editrice Mondadori, e infine, la guida insieme ad Italo Calvino della rivista il <<Menabò>>, edita sempre da Einaudi.

Nonostante Vittorini sia conosciuto come scrittore (Uomini e no (1945), Le donne di Messina (1949), Le Città del mondo, publicato postumo 1969), egli è sempre stato particolatamente attratto dalla letteratura americana, per tale ragione nonostante conoscesse bene la lingua francese, negli anni ‘30 decide di cimentarsi come traduttore dall’inglese all’italiano. La sua attenzione è fortemente polarizzata verso la tecnica narrativa dei romanzieri a lui contemporanei, e dopo alcune sporadiche recensioni, inizia ad occuparsi, con costanza, di letteratura nordamericana, scrivendo alcuni articoli su Faulkner, seguito successivamente da un attento studio su E.A. Poe. Il lavoro da traduttore  lo porta alla conoscenza approfondita dei testi di molti scrittori, come Faulkner, Caldwell, Steinbeck. Uno dei suoi autori preferiti rimane Hemingway con il quale instaura un’amichevole corrispondenza, cosa che alla lunga indurrà lo stesso Hemingway a scrivere la prefazione di Conversazione in Sicilia, per la versione americana.

In Italia, quindi, dal 1930 al 1940 si da vita al “decennio delle traduzioni”, come è stato definito da Cesare Pavese, un lasso di tempo di tempo durante il quale un gruppo di intellettuali veicolano l’ingresso nel nostro Paese, di gran parte della letteratura americana, con l’intento di diffonderla e di riempire quel vuoto culturale che si era creato a causa del dominio fascista.

C’è da dire che, nonostante Vittorini sia stato particolarmente affascinato dagli USA, non ha mai visto da vicino quei luoghi che nel suo immaginario rappresentano una terra  ancora inesplorata e pura. La mancanza di un approccio diretto alle usanze statunitensi e l’aver imparato la lingua inglese da autodidatta, hanno conferito alle sue traduzioni una sorta di voluta imprecisione. I suoi lavori vengono marchiati come infedeli, delineati da un’ approssimazione che va ben oltre il naturale allontanamento dal testo originale, tant’è che alcuni critici negano il valore di traduzioni ai suoi scritti “in quanto si opera un lavoro di acquisizione creativa, che cerca di riplasmare il testo” (Gorlier). Si potrebbe definirle vere e proprie riscritture, considerato le numerose omissioni, aggiunte, interpolazioni, presenti all’interno delle sue trasposizioni. Sostanzialmente Vittorini non può essere considerato un traduttore in senso stretto, in quanto le sue traduzioni sono finalizzate ad esprimere la propria estetica, la prosa, e perché no, anche la visione che egli ha del mondo. Tutto ciò è confermato dallo stesso autore in alcune lettere a Enrico Falqui:

Riguardo agli americani io non rinnego affatto la loro influenza: so che traducendoli ho ricevuto grande aiuto nella formazione del mio linguaggio. Ma allo stesso tempo so di averli tradotti in un mio linguaggio: non preesistente e non fisso; bensì in evoluzione.

Rispetto a Pavese, che del testo originale traspone alcuni termini stranieri, rendendo la traduzione meno familiare per i lettori, Vittorini opera esattamente al contrario: lima al massimo le differenze culturali, cosicché il messaggio sia più fruibile. D’altronde è la prima volta che in Italia ci si avvicina ad autori del calibro di Steinbeck o Hemingway  e probabilmente l’attenzione di Vittorini verso la contestualizzazione di tale opere, estraniandole dalla cultura di partenza e adattandole, invece, alla cultura di arrivo, risulta in fin dei conti una strategia vincente, visto il successo che questi scrittori hanno ottenuto nel nostro Paese.

50 anni di Bianca: Einaudi festeggia la sua Collezione di poesie

Settembre 1964, il trentenne Carlo Villa con la sua opera Siamo esseri antichi è uno dei primi autori a dare il via alla collana “Collezione di Poesia”, con la casa editrice Einaudi.

Come lui, nello stesso anno, pubblicano altri autori per la stessa collana, tra i quali ricordiamo Beppe Fenoglio con la traduzione dell’opera di S.T. Coleridge La ballata del vecchio marinaio; Camillo Sbarbaro con la traduzione di Il Ciclope di Euripide e diversi altri autori e poeti.

Oggi, cinquanta anni e quattrocentoventitre Collezioni dopo, questa fortunata collana vive ancora e gode di ottima salute, ha infatti pubblicato in media otto nuovi volumi ogni anno, per mezzo secolo.

Il suo grande successo è sicuramente dovuto non solo alla qualità delle opere pubblicate, ma anche al legame affettivo creatosi nel tempo tra i volumi stessi ed i suoi lettori, che sono soliti chiamare la collezione con il nome La bianca, per lo stile essenziale, nonché  per il colore e la caratteristica immagine di copertina ideata da Bruno Munari, peculiarità rimaste inalterate dal primo volume pubblicato fino ad oggi. E con buon esito, si aggiunga.

Per festeggiare con i lettori questo grande successo delle Collezioni, Einaudi ha pubblicato un piccolo volumetto di poesie inedite, che verrà regalato a chi acquisterà due volumi a scelta della “Collezione di Poesia” dal 18 settembre al 18 ottobre.

”Per celebrare il compleanno della Bianca, abbiamo pensato di chiedere una poesia inedita a tutti i poeti italiani che vi abbiano firmato almeno un volume. Aggiungendo anche due autori in procinto di pubblicare”, questa è stata l’idea della casa editrice. Il fatto che i poeti coinvolti siamo proprio cinquanta ha così dato vita a un felice connubio, cinquanta poeti per cinquant’anni.

Il numero di copie non venali stampate ammonta a 19500, una cifra impegnativa, ma che verrà sicuramente esaurita.

Si sa, il fortunato struzzo Einaudi, simbolo inconfondibile della casa editrice,  non delude mai e ha deciso di offrire qualcosa di grande, ancora una volta.

50 anni di bianca non è una semplice raccolta di poesie, è un monumento al successo della Collezione.

Non a caso l’ordine di apparizione dei poeti nel libro segue l’ordine cronologico non di datazione delle poesie stesse, bensì di pubblicazione presso Einaudi, si parte infatti dal già citato pioniere  Carlo Villa con la sua sublime composizione La pratica del vuoto, per finire con Dall’interno della specie di Andrea De Alberti, che il prossimo anno prenderà il suo posto nella Collezione, pubblicando il suo volume di poesie.

Questa scelta nell’ordine fa si che il lettore possa ripercorrere la storia intera della Collezione di poesie, assaporando i cambiamenti storici, i diversi stili, le riflessioni e le amare sofferenze umane.

I temi trattati non hanno limiti e variano liberamente, riflettendo le personalità dei diversi autori.

Immancabile, come si può immaginare, il ricorrente tema dell’amore, essenza stessa della poesia, così come la ricerca del senso della vita e delle pene della vita del genere umano.

Una raccolta degna di una Collezione che festeggia i suoi cinquant’anni non chiedendo, bensì donando emozioni nuove e forti, che lasceranno ancora una volta uno specchio di emozioni nell’animo di chi ama la poesia.

 

 

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