‘Aspetta primavera Bandini’, il primo romanzo di John Fante sull’immigrazione negli States

John Fante è uno scrittore originale e di talento. Ciò nonostante per molto tempo è stato un autore di nicchia. Essendo italoamericano è stato considerato marginale sia dai critici letterari americani che da quelli italiani: troppo italiano per gli americani, troppo americano per gli italiani. Fu Vittorini che lo fece conoscere agli italiani negli anni’40, mentre in America solo negli anni’80 ci fu la sua riscoperta grazie a Bukowski, che lo considerò suo maestro per aver saputo conciliare nella sua prosa ironia e dolore. In Francia recentemente è divenuto un caso letterario.

Fante era figlio di un abruzzese di Torricella Peligna, emigrato in America ad inizio’900. Nacque in Colorado nel 1909. Lavorò per Hollywood e trascorse alcuni periodi della sua vita in Italia perché fece lo sceneggiatore per Dino De Laurentis. Il diabete gli procurò la cecità nella maturità e successivamente l’amputazione delle gambe. Morì nel 1983. Il libro che gli dette più soddisfazioni economiche fu Full of Life (“Una vita piena”), da cui fu tratto anche un film.

Tempi difficili per gli immigrati durante l’infanzia e l’adolescenza di Fante. Gli Stati Uniti non ebbero una legge sull’immigrazione fino al 1875. La legge del 1875 e le successive fino al 1921 non misero limiti all’ingresso di immigrati. L’opinione pubblica però esigeva una migliore “qualità” per quel che riguardava l’immigrazione.

Gli Stati Uniti così decisero di sottoporre ai test d’intelligenza gli immigrati, perché l’opinione pubblica ravvisava la minaccia di un “imbastardimento della razza americana”. I risultati dei test d’intelligenza decretarono la superiorità intellettuale del gruppo nordico. La legge del 1924 concedeva a tutti i nordici di entrare in America, ma stabiliva una quota del 2% per coloro che erano alpini e mediterranei (per cui anche gli italiani).

Chiaramente oggi sappiamo che esistono le differenze di intelligenza, ma anche che non sono così quantificabili come alcuni psicologi avevano voluto far credere con i test. Il Q.I serve soprattutto come strumento diagnostico per vedere se un bambino soffre di ritardo mentale o per constatare se una persona che ha avuto un trauma cranico ha perso delle facoltà intellettive.

Inoltre come ha dimostrato Kamin nel libro “Scienza e politica del Q.I” i dati furono falsificati. Ma quello che ci interessa è l’atteggiamento xenofobo dell’opinione pubblica americana in quel determinato periodo. Tempi difficili per gli immigrati italiani quindi e Fante ce lo racconta approfonditamente nei suoi libri.

Spesso infatti troviamo riportati nelle sue opere i pregiudizi dei nativi americani sugli italiani. Nei romanzi di Fante c’è la netta contrapposizione tra emarginati ed integrati: tra gli immigrati italiani (che sognano il benessere economico e vivono in povertà) e gli americani, che vivono dignitosamente.

“Aspetta primavera Bandini” è il suo primo romanzo. Con esso inizia la saga della famiglia Bandini, una famiglia di poveri immigrati italiani. L’eteronimo di Fante è Arturo Bandini, un adolescente di quattordici anni. I suoi fratelli August e Federico hanno rispettivamente undici ed otto anni. Svevo, il padre, è un muratore ed un dongiovanni, che se la fa con una ricca vedova, che gli ha dato da rifare un caminetto della sua villa; è un uomo molto orgoglioso, che accetta malamente le incombenze della sua vita grama: il mutuo della casa, periodi di disoccupazione, i debiti da saldare.

Bandini è molto legato al suo amico Rocco, che è stato in gioventù suo compagno di avventure. La madre Maria invece è una donna molto devota: sgrana il rosario e prega per la sua famiglia continuamente. Perdona sempre tutto al marito, accetta anche i suoi adulteri e le sue frequenti fughe da casa con rassegnazione.

Il marito Svevo se ne va da casa per alcuni giorni, anche quando arriva la lettera di Donna Toscana, sua suocera, che lo considera un fallito e compatisce la figlia per la vita di miserie che è costretta a fare. Nonostante la famiglia Bandini spenda più di quello che guadagna, il figlio Arturo con l’incoscienza dell’adolescente trova il modo di rubare alla madre i soldi per andare al cinema. Arturo è innamorato di Rosa Pinelli, una sua compagna di classe, che però muore di polmonite.

Il momento più poetico del libro è proprio quando Arturo viene a conoscenza della scomparsa della ragazza. Questo romanzo si legge tutto d’un fiato. E’ adatto a persone di tutte le età. La prosa è scorrevole. Non si rintracciano mai durante tutta l’opera intellettualismi e filosofemi. Leggere Fante dunque. Leggere Fante è interessante perché ci riporta indietro nel tempo: ci fa ricordare come eravamo. Ci fa comprendere le grandi difficoltà a cui andarono incontro coloro che emigrarono in America. E tutto questo ci viene raccontato con umorismo e acume.

 

Di Davide Morelli

 

John Steinbeck, realista immaginativo con la passione per i diseredati e reietti

Nato a Salinas, in California, il 27 febbraio 1902, John Ernest Steinbeck (Salinas, 27 febbraio 1902 – New York, 20 dicembre 1968), frequenta la Salinas High School. Durante questo periodo, l’autore dimostra le sue qualità di scrittore collaborando con il giornale della scuola. Subito dopo il diploma, si iscrive all’università di Standford, per frequentarvi i corsi di biologia, ma la lascia nel 1925 senza aver dato esami. Comincia, quindi, ad esercitare i mestieri più umili, avvicinandosi in tal modo a quel mondo costituito da reietti ed emarginati, che rappresenterà l’elemento fondante di tutta la sua produzione letteraria futura.

Nel 1926, dopo aver tentato la carriera giornalistica, torna in California e si stabilì a Pacific Grove. La vita di Steinbeck presso tale luogo, coincide con l’inizio di un periodo fortemente creativo, destinato a condurre lo scrittore al successo. Nel 1932, molti anni prima della pubblicazione del suo indiscusso capolavoro, Furore, in cui è preponderante una rappresentazione epica del contrasto fra la potenza dei ricchi e l’avvilimento dei poveri, egli pubblica un’antologia di racconti, I pascoli del cielo, ambientati in una comunità agricola di una valle californiana. L’interesse dell’autore per la campagna e l’umile gente che vi abita e per le problematiche ad essa legate, si palesa in questo romanzo e in particolar modo in quello successivo: Al Dio sconosciuto (1933).

I pascoli del cielo rappresenta certamente un grande affresco sulla natura degli uomini, ma al contempo manifesta la scelta di Steinbeck di incentrare tutta la sua poetica verso la biologia delle faccende umane. I personaggi descritti in quest’opera restano sospesi in una sorta di visione scientifica, tesa a raffigurare le loro reazioni istintive innanzi all’incedere degli eventi. Una scrittura delineata da forti contrasti: la serena bellezza della valle si contrappone alle drammatiche vicende che agitano questo piccolo mondo. D’altra parte l’ideologia alla base della narrativa di Steinbeck si basa su due elementi che si alternano costantemente, senza mai elidersi: una vena umoristica, e un realismo aspro, socialmente risentito, che culminerà nella descrizione della lotta senza quartiere in Furore.

La sincera simpatia del romanziere per i diseredati e gli oppressi non sfocia mai  in una ritratto violento delle relazioni tra gli individui,  caratteristica comune di quasi tutti gli autori americani a colorazione proletaria. Egli prova compassione per le sofferenze degli emarginati, comprende e perdona gli errori da essi commessi, ma lo fa dall’alto di un sereno distacco. L’affetto non è riservato all’uomo in quanto tale, bensì all’animale uomo, e la percezione dell’indifferenza non è dovuta ad un senso di superiorità, piuttosto ad una concezione della lotta tra classi sociali dominata da istinti primitivi. Il limite, e al tempo stesso la forza, dell’orizzonte interiore di Steinbeck risiede nel riuscire a svuotare i suoi personaggi, la resa degli stessi è inafferrabile in antitesi con la descrizione di un paesaggio dai contorni ben delineati.

Steinbeck è uno scrittore potente, in grado di scandagliare l’animo umano, i pensieri degli uomini, e contemporaneamente compiere un’analisi lucida della realtà storica. Egli non eleva mai i protagonisti ad eroi, nonostante usi un tono epico, i quali vengono descritti in qualsiasi loro comportamento, nella loro disperazione e nella loro forza, rendendoli più veri e vicini al lettore.

Le storie della maestra Molly, del saggio Whiteside, di Tularecito, un giovane estromesso dalla società per le sue stranezze,  testimoniano tutta la restrizione dell’universo in cui vive lo scrittore americano, che sostanzialmente si riduce alla regione intorno a Monterey, in California. Non si riesce a comprendere quanto tale “regionalismo” sia una reale necessità, un limite alle possibilità dello scrittore, o sia in parte voluto, al fine di servire da specchio per i lettori, in modo che gli stessi possano guardare da lontano e senza timore, la ristrettezza mentale e il rifiuto per il diverso alla base di ogni società che si autoproclama “civilizzata”.

Pian della Tortilla (1935) è il primo romanzo di successo dello scrittore, che tratta in modo comico e surreale la vita di un gruppo di paisanos.

Con Uomini e topi (1937) Steinbeck realizza un piccolo capolavoro (solo 100 pagine) in cui riesce a toccare molte tematiche senza annoiare o risultare confusionario, ma facendo respirare al lettore il clima e l’atmosfera di quell’epoca: la miseria dei braccianti negli anni post 1929 e la loro voglia di libertà ed emancipazione, il sogno americano, la discriminazione razziale verso i neri, la follia umana, la segregazione femminile tra le mura domestiche.

La valle dell’Eden (1952) è il romanzo in cui Steinbeck ha creato i suoi personaggi più affascinanti, esplorando più a fondo i suoi temi ricorrenti: il mistero dell’identità, l’ineffabilità dell’amore e le conseguenze tragiche della mancanza d’affetto.

La narrativa di Steinbeck perde vigore negli ultimi anni della sua vita che coincidono con la legittimazione dell’intervento americano in Vietnam ed il rozzo patriottismo: lo scrittore non riesce più ad emozionare e commuovere, si perde in storie esili e narrazioni troppo semplicistiche, come se lo scrittore avesse fretta di terminare il proprio romanzo. Nel 1962 gli viene conferito il Premio Nobel per la letteratura con la seguente motivazione: “Per le sue scritture realistiche ed immaginative, unendo l’umore sensibile e la percezione sociale acuta”.

Uomini e no: la lezione esistenziale di Elio Vittorini

Elio Vittorini

Elio Vittorini nasce a Siracusa nel 1908. Dopo aver trascorso un’adolescenza abbastanza turbolenta, fa l’assistente nei cantieri edili, il linotypista ed il correttore di  bozze. Dopo pochi anni, è a Firenze dove entra in contatto con il gruppo di Solaria.

Al di là dei risultati nel campo specifico della narrativa, Vittorini, con il suo costante impegno di miglioramento con le traduzioni delle opere di alcuni scrittori americani del tempo, con il suo essere sempre in prima linea come organizzatore culturale, con le sue polemiche e, negli ultimi anni della sua esistenza anche con il suo silenzio, è stato un protagonista indiscusso nella nostra storia letteraria.

Come ci viene spiegato in Guida al Novecento di Salvatore Guglielmino, già nella sua conclusione del suo primo romanzo Il Garofano Rosso pubblicato a puntate su Solaria, emerge con chiarezza quella strada che percorrerà fino in fondo, che è quella della presa di coscienza, della rivolta, dando prova di una notevole capacità di rappresentazione concreta della realtà, il tutto attraverso una lettura lirica della storia che riguarderà tutta la sua produzione.Su questa strada procede nel 1936 con Nei Morlacchi e Viaggio in Sardegna fino ad arrivare  a Conversazione in Sicilia nel 1942 e Uomini e no nel 1945.  In questo periodo si iscrive al PCI e fonda il Politecnico. Queste tappe della sua vita sono fondamentali per la comprensione di alcune tematiche trattate.

 

In Uomini e no il protagonista è Enne 2, un partigiano che combatte negli anni della Resistenza a Milano. Enne 2 è  un uomo combattuto e disperato a causa della sua storia d’amore con Berta, una donna sposata. La prima “impresa partigiana” che viene raccontata nel libro è l’attentato contro quattro militari tedeschi e il capo del Tribunale, attentato che innescherà una forte reazione da parte dei nazifascisti che rispondono con la fucilazione di ben quaranta civili. La nuova azione del gruppo di Enne 2 è motivata da una scena agghiacciante: il giorno successivo Enne 2 e Berta vedono  i cadaveri di alcuni civili uccisi dai tedeschi, tra cui una bambina, un anziano e due ragazzini. Questo nuovo accaduto tiene uniti per una notte Berta e il protagonista che, intanto, assiste all’ennesima crudeltà compiuta dai nazisti: un povero ambulante,  viene fatto sbranare da due cani, per aver ucciso la cagna del generale Clemm. Dopo questo, il gruppo di Enne 2  inizia un nuovo attacco contro Cane Nero, il capo dei fascisti: l’azione, però,  non ha successo e ad Enne 2 non resta che scappare. I fascisti promettono una ricompensa per il suo ritrovamento e la sua cattura. I suoi compagni gli propongono di fuggire dal suo rifugio ma Enne 2 sceglie di restare, nonostante gli avvertimenti circa l’arrivo dei fascisti da parte di un operaio. Il protagonista riuscirà nell’impresa ma in cambio della sua stessa vita. Nell’ultima parte dell’opera  Enne 2, esorta l’operaio che l’aveva aiutato precedentemente, a lottare dandogli una pistola ma, il ragazzo, alla fine, non se la sente di uccidere un soldato.

Il racconto, a tratti ermetico, è interrotto da alcuni interventi dell’autore, evidenziati in corsivo,  parti dialogate e frasi in tedesco, che inducono il lettore ad un’analisi sulla propria condizione esistenziale, alla consapevolezza dell’alienazione e alla necessità di un processo di liberazione. Nelle sue pagine coesistono realismo e simbolismo,  la realtà descritta è emblema, metafora di un’umanità ormai ferita.

Vittorini, proprio come Pavese, adotta una nuova dimensione lirica, trasfigurando ogni precisa connotazione storica o realistica e lo fa insistendo sul valore fonico della parola, attraverso l’utilizzo di vere e proprie clausole poetiche che conferiscono ai suoi testi sempre qualcosa di solenne e suggestivo. Risulta, quindi, chiaro quale fosse il suo divario con gli scrittori del Neorealismo  , che intendevano realizzare un’analisi diretta della realtà circostante.

In Uomini e no, che non può essere di certo considerato un romanzo celebrativo di carattere politico, l’evento storico più significativo, la Resistenza a Milano, spinge l’autore ad essere molto più fedele a ciò che osserva, ed infatti c’è una difficoltà di superamento proprio in un ampliarsi del nucleo narrativo che, questa volta, cambia e si arricchisce con nuovi dettagli e descrizioni.

Tuttavia, questa tendenza trasfigurante, fatta di metafore irrealistiche e lirismo, la meditazione piena d’angoscia sul tema dell’amore e della morte disturba e complica l’impianto narrativo che non risulta affatto omogeneo. Non dobbiamo però dimenticare che in quegli anni ricchi di polemiche e di equivoci sul modo di fare letteratura impegnata, veniva fuori una difficoltà enorme nel tentativo di definire il ruolo della stessa, in quanto per Vittorini la letteratura non doveva ridursi a “suonare il piffero della rivoluzione” .

Un articolo di Fabrizio Onofri su L’Unità del  1945 definiva il romanzo di Vittorini “il libro di un intellettuale che porta con sé tutti i difetti e le incongruenze della società in cui è vissuto, una società di privilegiati in cui la stessa cultura è stata oggetto e strumento di privilegio”;nel 1976, Giorgio Amendola rivela che Onofri  aveva avuto verso lo scrittore “un rapporto di rottura morale, perché durante la guerra partigiana egli si era imboscato e poi aveva presentato “un romanzo,”Uomini e no”,che forniva un quadro falso e retorico dei gappisti”. La scrittura di Vittorini, in effetti, non è di comprensione immediata, disincantata per  la mancanza dell’ ottimismo storico che non caratterizza questo romanzo sperimentale. Per alcuni quindi è stata un’opera fallimentare. Questo errore di percezione, è dovuto ad una certa superficialità e immaturità estetica degli intellettuali di sinistra; a Vittorini non interessa  il realismo, né quello storico né quello psicologico; affermerà infatti in una dichiarazione di poetica:

Io, gli scrittori li distinguo così: quelli che leggendoli mi fanno pensare “ecco, è proprio vero”, e che cioè mi danno la conferma di ‘come’ so che è in genere sia la vita. E quelli che mi fanno pensare “perdio, non avevo mai supposto che potesse essere così”, che cioè mi rivelano un nuovo particolare ‘come’ sia nella vita.  Naturalmente lo scrittore siciliano predilige questi ultimi.

In Uomini e no c’è quindi il tentativo di dare voce, con essenzialità e forza, a cose che per anni erano state taciute celebrando  sì la necessità della Resistenza, ma insinuando nella coscienza del lettore dubbi su quanto è accaduto: sul tempo, sul senso della guerra, della lotta, del morire, sull’essere uomini e no. Da non perdere.

‘Conversazione in Sicilia’: la scoperta dell’Uomo

Tra sogno e realtà, Conversazione in Sicilia sembra stato scritto sotto il segno di un’allucinazione continua da Elio Vittorini, il quale porta il lettore nelle splendide terre siciliane, accompagnandolo in un lungo viaggio fatto di incontri surreali, momenti paradossali, attimi che restano nella memoria, nel ritorno alla terra natia.

Il protagonista di quella che resta una delle migliori opere scritte da Vittorini, è Silvestro Ferrauto, intellettuale e tipografo che, ormai, vive a Milano da 15 anni. Dopo aver ricevuto una lettera dal padre, un ferroviere libertino, buono a nulla, uno di quegli uomini, padri, a cui forse speri di non assomigliare mai, che ha deciso di lasciare la moglie, Concezione, per andare a vivere a Venezia con un’altra donna, decide di tornare a casa, la sua Sicilia. Decide così di percorrere quel lungo viaggio che porta con se un cambiamento e un ritorno al passato. Accompagnato da una miriade di ricordi che affollano la mente, Silvestro incontra, durante il tragitto, personaggi che lo colpiscono particolarmente. Sul traghetto che lo porta da Villa San Giovanni a Messina, conosce un piccolo siciliano disperato con una moglie bambina, che lo scambia per americano e gli offre delle arance. Sul treno che lo porta a Siracusa, incrocia un uomo in cerca di doveri più grandi, che chiama Gran Lombardo, un vecchio, un catanese e un ragazzo malato di malaria. Conosce poi due polizziotti, a cui lo stesso protagonista da i nomignoli di Senza Baffi e Con Baffi, disprezzati dagli occupanti siciliani del vagone. E così, attraverso quello che si presenta come un pretesto, il viaggio di ritorno verso casa, Vittorini mostra al lettore punti di vista, idee, pensieri personali che si vestono attraverso le parole dei personaggi.

Conversazione in Sicilia è un’opera che mostra la grandezza dei romanzi del ‘900, un’opera che scorre, trascina il lettore fino all’ultima pagina, all’ultima parola, all’ultimo ricordo, a quell’addio che sembra doveroso ma che, in qualche modo, lascia un sapore amaro nell’anima.

Silvestro giunge cosi nella sua terra, tra quegli odori e sapori che solo chi ama davvero quell’isola può sentire su di se, perchè quegli odori, quei sapori, sono parte delle terre del sud, sono un amore incondizionato verso quel tempo che ancora vive nella memoria, che guida il nostro protagonista fino alla sua casa, fino a quel luogo che ancora ricorda con gioia, con un sorriso, con un cuore che batte più di quanto dovrebbe, perchè le origini non le cancelli, ti restano attaccate addosso, ti riportano indietro, ti avvolgono, ti insegnano a respirare. Ed è durante quel pranzo accanto alla madre, in un dialogo che scorre lento e forse un pò ripetitivo, che Silvestro ripercorre la strada dei ricordi. In una serie di immagini chiare e nitide, vive il ricordo della vita nelle casa cantoniere. Ma il nostro protagonista ha ricordi diversi da quelli della madre, fatti di mancanze, sacrifici, dolori, tradimenti da dover sopportare o, forse, da voler sopportare. Concezione ricorda la miseria, Silvestro ricorda un passato felice. Ed ecco che emergono ancora parole e ricordi che avvolgono quelle pagine, insieme a momenti che sembrano allucinazioni.

L’arrotino Calogero, che sostiene che nessuno ha più coltelli da affilare, si rallegra del temperino che Silvestro ha con sé. Calogero lo porta così dall’uomo Ezechiele, che gli racconta di come il mondo sia offeso. Il trio si sposta poi dal panniere (venditore di stoffe) Porfirio e infine alla bottega di Colombo, dove bevono alcuni bicchieri di vino. Lasciata la compagnia, Silvestro si reca da solo in via Belle Signore, dove incontra un soldato che rimane nell’ombra per non farsi vedere. I due discutono al cimitero e il soldato gli confessa che si ricorda di quand’era piccolo, mentre giocava con il fratello Silvestro. Gli racconta che lui recita ogni giorno una parte al cimitero insieme a tutti i “Cesari non scritti. Macbeth non scritti”. Il soldato inoltre, prima di scomparire, dice metaforicamente di trovarsi da trenta giorni su un campo di battaglia innevato.

Il lettore giunge così ai capitoli finali di Conversazione in Sicilia, tra quelle lacrime per la scoperta della morte del fratello in guerra e un’immagine che riporta quel gusto amaro, quel sapore che di dolce non ha più nulla ormai, la madre, piegata, inginocchiata, davanti a quell’uomo che Silvestro non può non riconoscere, non può amare, non può non disprezzare, un padre la cui figura è ormai solo un altro pò di quel gusto amaro che si posa sulla pelle.

In un’opera che si presenta come un vero capolavoro della narrativa del ‘900, Vittorini ci accompagna in un mondo che si mostra come un misto di realtà e finzione. Una Sicilia che «è solo per avventura Sicilia; perché il nome Sicilia mi suona meglio del nome Persia o Venezuela.»

Conversazione in Sicilia mostra così la possibilità di una doppia interpretazione. La prima è quella nel segno dell’allucinazione, del sogno, tecnica adottata da autori come Antonio Tabucchi in “Notturno indiano” e “Requiem”, oppure da Guido Piovène ne “Le stelle fredde”. Un ‘interpretazione che spiegherebbe il tono bizzarro e inconsueto verso cui procede la narrazione.

La seconda possibile interpretazione avvolge il romanzo in una chiave allegorica, perchè non tutto è come sembra. Vittorini, per non scontrarsi con le conseguenze della censura fascista, copre ogni denuncia, attacco al regime, con personaggi, azioni, parole che sembrano surreali, allucinazioni, appunto. Una critica al perbenismo borghese che non mostra il minimo interesse per i dolori, i disagi, la povertà di un mondo che sembra non appartenere loro. Attraverso uno stile e una tecnica che avvolgono 49 capitoli in un alone di misero in cui tutto potrebbe apparire paradossale, pura e semplice invenzione, Vittorini riesce ad avvicinarsi a quel verismo che ha reso indimenticabile un’opera come “I Malavoglia”.

E così, tutto viene avvolto da quel tentativo di denuncia verso quel regime che porta solo morte e distruzione, che priva gli uomini della loro libertà, dignità, forza, di quella vita che non è vita, di quei momenti che sono solo immagini da voler cancellare, dimenticare, come non fossero mai esistiti, come fossero  stati solo un brutto sogno, un’allucinazione.

Conversazione in Sicilia è uno straordinario viaggio di fantasia, una nobilitazione dello spirito puro dei contadini alla Tolstoj che conduce alla conoscenza e alla realizzazione dell’essere umano attraverso il dubbio. La narrazione procede per vie simboliche e dialoghi immediati. Magico, denso, storico e mistico.

“Scrivere è fede in una magia: che un aggettivo possa giungere dove non giunse, cercando la verità, la ragione; o che un avverbio possa recuperare il segreto che si è sottratto a ogni indagine.”

‘Il visconte dimezzato’: l’incompletezza dell’essere umano

Scritto nel febbraio 1952 , edito nella collana “I gettoni” diretta da Elio Vittorini, Il visconte dimezzato rappresenta il primo romanzo della trilogia di Italo Calvino “I nostri antenati”, comprendente anche “Il barone rampante” (1957) e “Il cavaliere inesistente” (1959).

Ambientato in Italia e in Boemia nella metà del Settecento, presenta come tema centrale il problema dell’uomo contemporaneo (precisamente l’intellettuale) dimezzato, quindi incompleto, alienato; a tal fine, seguendo la tradizione letteraria già classica, Calvino prende spunto dallo scrittore scozzese R. L. Stevenson, decidendo così di dimezzare il protagonista del romanzo secondo la linea di frattura tra bene e male. Ruolo importante svolgono anche altri personaggi, vere esemplificazioni del suo assunto: i lebbrosi (cioè gli artisti decadenti), il dottore e il carpentiere (la scienza e la tecnica staccate dall’umanità).

Il visconte Medardo di Terralba combattendo in Boemia contro i Turchi, viene colpito e tagliato a metà da una palla di cannone. Viene ritrovata solo una parte pensando che l’altra fosse andata distrutta; i medici del campo riescono a fasciarla e a ricucirla e la metà destra del visconte può così tornare a Terralba. Una volta  preso il potere, la gente si accorge che del visconte era tornata in realtà solo la metà malvagia (il Gramo) che infierisce sui sudditi e insidia la bella Pamela; l’altra metà (il Buono) si prodiga per riparare ai misfatti dell’altra e chiede in sposa Pamela.

La storia è tutta basata sull’ “effetto sorpresa” e in un’intervista con gli studenti di Pesaro dell’11 maggio 1983, trascritta e pubblicata in “Il gusto dei contemporanei” Quaderno n.3, Italo Calvino spiega così la scelta di dimezzare il personaggio nel suo romanzo: “Quando ho cominciato a scrivere Il visconte dimezzato, volevo soprattutto scrivere una storia divertente per divertire me stesso, e possibilmente per divertire gli altri; avevo questa immagine di un uomo tagliato in due ed ho pensato che questo tema fosse un tema significativo, avesse un significato contemporaneo: tutti ci sentiamo in qualche modo incompleti, tutti realizziamo una parte di noi stessi e non l’altra. Per fare questo ho cercato di mettere su una storia che stesse in piedi, che avesse una simmetria, un ritmo nello stesso tempo da racconto di avventura, ma anche quasi da balletto. Il modo per differenziare le due metà mi è sembrato che quella di farne una cattiva e l’altra buona fosse quella che creasse il massimo contrasto. Il  divertimento, è molto importante; credo che il divertire sia una funzione sociale, corrisponde alla mia morale! Penso sempre al lettore che si deve sorbire tutte queste pagine, bisogna che si diverta, bisogna che abbia anche una gratificazione; questa è la mia morale: uno ha comprato il libro, ha pagato dei soldi, ci investe del suo tempo, si deve divertire. Non sono solo io a pensarla così, ad esempio anche uno scrittore molto attento ai contenuti come Bertolt Brecht diceva che la prima funzione sociale di un’opera teatrale era il divertimento.”

Ne Il visconte dimezzato Calvino inoltre pone l’accento anche sulla religione, e in particolar modo all’etica religiosa, senza religione rappresentato dagli ugonotti,  parlandone sempre in maniera gotica, cruda,  da film dell’orrore,a cui riserva, a differenza del visconte, i suoi “giudizi”morali tipici dell’idealismo  borghese. Finale prevedibile ma conta come ci si arriva, e lo scrittore  lo fa con chiarezza, freschezza ed ironia.

 

 

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