Ungaretti dovrebbe essere un modello per i poeti contemporanei spesso illeggibili perché incomprensibili.
Ognuno, dopo aver finito di scrivere una raccolta poetica, dovrebbe rileggere “Allegria”, che si caratterizza per i versicoli immediati.
Dovrebbe essere la prova del nove per tutti i poeti. Allo stesso modo ogni romanziere dovrebbe, dopo ogni sua fatica letteraria, rileggere “Se questo è un uomo” e “Una giornata di Ivan Denisovič” perché questi due capolavori riescono a coniugare anche essi sostanzialità e testimonianza.
La spontaneità di Ungaretti
Poi magari ogni scrittore potrebbe decidere se pubblicare o rivedere di nuovo il lavoro. Ma ritorniamo ad Ungaretti. Sono talmente dirette e spontanee le sue liriche, che riescono a spiazzare e a colpire favorevolmente anche i lettori più snob, abituati alla poesia del Novecento che si distingue per essere così intellettuale!
Ungaretti è agli antipodi di poeti così ricercati come Eliote Pound. Riesce a semplificare il linguaggio e ad essere scarno ed essenziale. Nei suoi versi troviamo tutta la sua vita di esule che si forma culturalmente a Parigi (conoscendo Apollinaire e Picasso) e che combatte sul Carso.
La testimonianza della guerra
Queste poesie di Ungaretti sono testimonianza ineguagliabile della guerra.
Sono prive delle descrizioni e dell’eloquenza della lirica di quegli anni. Non vi sono leziosismi né orpelli inutili. Sono frutto di una ispirazione, che trascendono la metrica, la retorica e l’estetica. Non venga in mente a nessuno che le sue poesie scaturissero solo da intuizioni, seppure formidabili.
Tra intuizioni e lavoro
C’era del lavoro alle spalle. Erano state molte le varianti e le revisioni prima delle versioni definitive. Ad onor del vero bisogna anche ricordare che Ungaretti distrusse le tradizionali forme poetiche nelle prime liriche, ma successivamente dimostrò di saper utilizzare anche versi canonici come novenari ed endecasillabi.
Forse si oserebbe troppo a scrivere che fu una sorta di cubista della poesia nella sua prima fase. Come ebbe a scrivere Ungaretti per essere poeti è necessaria non solo la pazienza, la conoscenza della tradizione, l’intelletto.
Il senso del mistero
Bisogna anche saper fare i conti con il mistero che alberga in ogni animo: soltanto così una poesia può diventare unica come la sua. Ungaretti, quando scrisse i suoi primi innovativi versicoli, aveva appreso la lezione dei simbolisti francesi. Ma Ungaretti era completamente originale.
Aveva subito saputo distinguersi dai suoi illustri predecessori. Era un predestinato della poesia. Lo stesso Thomas Merton scrisse che Ungaretti era sconvolgente e che la sua intensità annientava.
Alcuni suoi versi rimarranno per sempre nella memoria di molti: “m’illumino d’immenso”, “è il mio cuore il paese più straziato”, “si sta/come d’autunno/ sugli alberi/ le foglie”, “Di che reggimento siete/ fratelli?”, “Non sono mai stato/ tanto/ attaccato alla vita”, “tra un fiore colto e l’altro donato/ l’inesprimibile nulla”.
La precarietà della vita
Queste illuminazioni esprimono in modo impareggiabile la precarietà e la fragilità proprie di chi combatte in una guerra assurda. Ungaretti aveva combattuto la grande guerra e per capire quanto fu devastante la prima guerra mondiale non bisogna andare molto lontano: basta andare a visitare Asiago, che fu completamente rasa al suolo in quegli anni.
Ungaretti viaggiò molto. Visse molto. Soffrì molto. Non soltanto per l’esperienza della guerra ma anche per la morte del figlioletto di nove anni a cui dedicò la raccolta “Giorno per giorno”.
Il dolore per la morte del figlio
Il poeta si chiedeva come era possibile continuare a vivere e a fare le cose di ogni giorno quando non poteva più vedere il suo bambino, la cui voce non avrebbe udito più.
Scrisse Ungaretti: “E t’amo, t’amo, ed è continuo schianto!…”.
Nella sua vita il poeta sperimentò i dolori più terribili: gli orrori della guerra e la scomparsa del figlioletto. Ma Ungaretti riuscì a non lasciarsi mai sopraffare dalle avversità e dai tristi eventi. Riuscì sempre a superare questi periodi di crisi, testimoniando con i suoi versi le tragedie vissute.
Il bisogno di fraternità
La follia della guerra riuscì a vincerla confidando nell’uomo: credendo nella fraternità. Il dolore atroce per la perdita del figlio lo sconfisse non solo con la terapia della scrittura ma anche con la religiosità.
Ungaretti scrisse in modo apparentemente semplice ed è comprensibile a tutti. Ma non lasciatevi ingannare. Ungaretti era anche un profondo conoscitore della lingua e della poesia.
C’è chi potrebbe pensare che molti sarebbero in grado di scrivere come Ungaretti ma è un giudizio affrettato dovuto a pura superficialità e faciloneria: pensarla così è pura ingratitudine nei confronti di uno dei più grandi poeti del Novecento.
Ungaretti fu il primo a scrivere in quel modo così breve e coinciso.
Il signore delle mosche è un capolavoro della letteratura inglese di William Golding, pubblicato nel 1954, grazie all’interessamento di T. S. Eliot. Il successo editoriale fu gigantesco: 14 milioni di copie vendute in Inghilterra. Quest’opera ha avuto diverse trasposizioni cinematografiche. Il primo film sul “Signore delle mosche” è del 1963 ad opera del regista Peter Brook.
Il libro non è altro che una favola moderna. Un gruppo di ragazzi sopravvive ad un incidente aereo e finisce su un’isola disabitata. Il cuore dell’isola è costituito da una macchia fitta, ricca di frutti e maiali. C’è anche una montagna da cui possono scrutare l’orizzonte e guardare se passano le navi. I ragazzi hanno solo un barlume di speranza che possano portarli in salvo gli adulti perché durante il conflitto mondiale è esplosa la bomba atomica. Gli adolescenti devono adattarsi alla vita dell’isola: devono costruire rifugi, andare a caccia, fare delle leggi, eleggere un capo, tenere vivo il fuoco.
Naturalmente dovranno fare tutto da soli perché non c’è la supervisione di nessun adulto. inizialmente viene eletto capo Ralph, il cui tipo di organizzazione simboleggia un’ideale di società democratica, in cui ognuno lavora per il benessere collettivo. Il capo ed i consiglieri possiedono la conchiglia, che rappresenta la conoscenza e la saggezza. Successivamente però si impone la società di Jack, basata sull’obbedienza e la subordinazione: una vera e propria dittatura. I due gruppi si scontrano e nella lotta muoiono due bambini: Simone e Piggy. Il microcosmo isolato dal mondo reale ed occasione per una rinascita dell’umanità diviene quindi un’ulteriore conferma della malvagità del genere umano: i bambini sono regrediti dalla civiltà alla barbarie.
A questo romanzo naturalmente sono state date le più svariate interpretazioni. C’è chi ha ritenuto che fosse un’allegoria religiosa, a causa del titolo. Infatti “Signore delle mosche” è uno dei tanti appellativi del diavolo. C’è chi invece ha posto l’accento sulla lotta tra il bene ed il male, cioè tra Ralph e Jack. Altri hanno visto nel romanzo il simbolo di quel che era accaduto nella seconda guerra mondiale ed hanno intuito in Jack il carisma e la forza di persuasione di Hitler.
Certamente da questo libro si possono comprendere tre concetti basilari su cui si fondano tutte le opere di Golding: 1) l’autore scrisse in un periodo della letteratura inglese, chiamato epoca tra il realismo ed il modernismo. E lo scrittore riuscì ad essere sia realista (perché anche se questa storia è completamente inventata potrebbe sempre accadere) che modernista (in quanto fece largo uso di metafore, simboli ed allegorie) 2) il suo pessimismo riguardo la natura umana, dovuto al fatto che vide direttamente gli orrori della seconda guerra mondiale, perché fu ufficiale della marina britannica 3) la sua totale sfiducia nel sistema scolastico inglese.
Il signore delle mosche infatti può essere anche inteso come una critica distruttiva nei confronti degli agenti di socializzazione dell’Inghilterra di quel tempo. I ragazzi del “Signore delle mosche” sono già andati a scuola, sono già stati deformati dalla scuola britannica. Sono già stati temprati dalla severa disciplina e dalle norme ottuse di quel periodo. Golding non a caso fu maestro e subì l’influsso della pedagogia steineriana.
Steiner è stato il fondatore dell’antroposofia, che potremmo definire una scienza dello spirito. Come educatore il filosofo Steiner fu straordinario. La sua pedagogia non si basa su nessuna imposizione e su nessuna ricetta. Lascia spazio alla creatività dell’insegnante, che a seconda delle sue esigenze e delle esigenze degli allievi può stabilire quali sono i modi più idonei di apprendimento.
La pedagogia steineriana sostituì la disciplina ferrea con il calore umano tra allievo ed insegnante, dato che secondo il filosofo non bisognava educare solo la testa del bambino, ma anche l’intero corpo. Chiaramente Golding avendo in mente Steiner non poteva che essere contrarissimo al modo di insegnare della maggior parte degli insegnanti inglesi, così freddi ed impostati.
“La prima cosa a cui si abituarono fu il ritmo del lento passaggio dall’alba al rapido crepuscolo. Accettavano i piaceri del mattino, il bel sole, il palpito del mare, l’aria dolce, come il tempo adatto per giocare, un tempo in cui la vita era così piena che si poteva fare a meno della speranza”.
Andare oltre l’apparenza fisica della realtà, al di là dell’esperienza dei sensi, rappresentare il mistero, evocare una potenza muta prima del Logos, che abbiamo perduto in una solitudine esistenziale, dove molto spesso sono le cose a rubare il posto alle figure umane, le quali, probabilmente mal sopportano che un oggetto possa sopravvivere alle loro vite. In questi momenti si articola il processo creativo dell’artista pavese Laura Villani; la sua carriera è nata con le incisioni; la pittura arriva nel 1993 con la partecipazione al premio San Carlo Borromeo al Museo della Permanente di Milano. Cinque anni più tardi partecipa al Tokyo International Print Triennal e al Print Internacional de Cadaqués (luogo caro a Salvador Dalì). Espone a Parigi, Roma, Firenze e Venezia e, nel frattempo, allestisce tre mostre personali.
Non ci sono figure umane, eppure è come se esse fossero appostate da qualche parte e se ne avvertisse l’inquietudine. D’altronde l’artista è la prima a supervisionare questo microcosmo fatto di oscurità e, parafrasando Gustav Mahler, è come una cacciatrice nella notte: non sa se colpire e cosa colpire. Laura Villani riflette sul rapporto spazio-tempo e Uomo-Natura, avvalendosi del buio per rappresentare la dimensione interiore ed eterna dell’essere umano: l’oggetto sembra stregare il soggetto diventando immobile e assoluto, gli angoli creano spaesamenti e smarrimenti ma sembrano suggerire anche a cercare un nuovo tipo di contatto con la Vita, mentre si sta in silenzio e si attende una nuova germinazione. Quello di Laura Villani è un universo innocente, pieno di spazio, dove l’artista riesce a trovare un tempo assoluto. E se l’uomo è assente è perché, ancora troppo preso dal possesso materiale, non è ancora pronto a ricevere questo dono immenso. Effettivamente le opere di Laura Villani richiamano alla mente il poemetto profetico dello scrittore inglese Eliot,La terra desolata, dal quale l’artista ha tratto la dimensione onirica e la cifra simbolista (più medievale che ottocentesca), per superare la desolazione e approdare a una rinascita e a una nuova visione del mondo partendo dalla conoscenza del nostro passato, della nostra storia, della nostra memoria.
Quando ha iniziato a interessarsi di arte? Ricorda la sua prima opera?
Direi fin da piccola. Osservavo mio padre disegnare. Bravissimo e instancabile utilizzava tante tecniche, ma la sanguigna e i pastelli erano le mie preferite. Potevo usare i suoi meravigliosi pastelli a olio e questo mi dava un grande piacere. Avevo sempre a disposizione fogli di carta su cui sbizzarrirmi con forme e colori. Inventavo paesaggi dai cieli coloratissimi. E poi trascorrevo le ore a osservare le opere dei grandi maestri sui libri d’arte che in casa abbondavano. Penso che la passione per la pittura risieda in me da sempre.
Cosa pensa dell’arte contemporanea? Quali artisti stima di più?
Troppo globale uniformante, onnivora onnicomprensiva. Troppo tesa a sorprendere, troppo legata alla velocità (di creazione e di fruizione), troppo vincolata ai mercati alle mode. Insomma troppo di tutto. In questo caos vorticoso è facile perdere il contatto con la storia, con le radici, con la propria identità. Apprezzo gli artisti che, rimanendo loro stessi, riescono a esprimere il proprio sentire e a emozionare con il loro lavoro e il loro intento poetico.
Considera la sua arte pre-civiltà o post-apocalittica?
Non saprei dire. Questo è un quesito che consegno allo spettatore. Sicuramente rappresento un mondo sospeso, svuotato dal tempo che ci appartiene. Sono alla ricerca di un mondo innocente. Un mondo pieno di spazio. Abitato da un tempo infinito, che dalla soglia del nostro presente ci riconnetta al candore arcaico dei lontani primordi, e dalle profondità del passato, ci rifletta possibili scenari futuri. E in questo universo quasi eliotiano riesco a trovare un tempo assoluto, dove l’uomo non compare. Non è ancora pronto a ricevere questo dono immenso. Al suo posto introduco le cose, i suoi oggetti, i simbolici custodi di queste terre immortali. Dialogano con il paesaggio in un silenzio proteiforme. Ci suggeriscono forse un nuovo tipo di contatto, più ampio e più profondo, con la natura e con la vita.
Come nasce una sua opera? Da un’ispirazione? Osservando la realtà? Da un desiderio nascosto?
Nasce sempre da una visione che affiora dal mio immaginario. La fermo sulla carta con un piccolo disegno e poi la traduco in pittura.
Trova che l’arte di oggi abbia dimenticato l’aspetto metafisico, anagogico?
In generale probabilmente sì ma, soprattutto in ambito pittorico, ci sono molti artisti che si esprimono evocando un altrove filtrato dalla loro personale visione.
Quale domanda dovrebbe porsi l’arte? Dato che per molto tempo si è pensato che fosse bellezza, e che fosse semplice…
Penso che in questo preciso momento l’arte abbia più che mai il compito di stimolare una riflessione più profonda sul destino dell’uomo, suggerendo una dimensione più alta.
La sua arte intende penetrare l’animo umano per farlo emergere dall’ombra. Secondo lei l’essere umano è corrotto fin dalla nascita o è tendenzialmente buono?
Secondo me l’uomo ha incentrato, oltre misura, la sua esistenza sul possesso materiale. Da qui nasce gran parte della sua corruzione.
L’artista è quasi sempre in dialogo con sé stesso e con le domande assolute che valgono in ogni tempo? Lei si sente in questa condizione?
Penso di sì, per me è così. La mia ricerca mi porta a riflettere sull’esistenza, sul valore del tempo in relazione allo spazio e sul rapporto tra uomo e natura.
Quale tecnica predilige?
La pittura a olio.
La sua arte vuole dare qualche risposta o cerca di confondere e allo stesso tempo affascinare avvalendosi del mistero?
Con la pittura potrei riuscire a stimolare interrogativi sul mondo in cui viviamo, suggerire magari nuove connessioni, ma dare delle risposte sarebbe un po’ difficile. Vorrei rivelare un mondo possibile oltre la nostra realtà visibile, aprire un piccolo varco.
Quale esibizione le ha dato maggiore soddisfazione?
Anche se non è ancora avvenuta, so che sicuramente sarà Le cose di Vincent a cura di Marco Goldin.
Ci parli del suo ultimo progetto Van Gogh. I colori della vita e soprattutto della sua personale nell’ambito di questa collettiva. Si sente in qualche modo vicina al grande artista olandese?
Si tratta appunto della mostra Van Gogh. I colori della vita, curata da Marco Goldin. Presentata a gennaio di questo anno al Kröller Müller Museum di Otterlo in Olanda e inaugurata in ottobre, al Centro Altinate San Gaetano di Padova. Insieme a questa grande esposizione dedicata a Vincent Van Gogh (sono presenti in mostra novanta sue opere tra dipinti e disegni) Goldin ha ideato undici personali per undici pittori contemporanei, che saranno allestite nella stessa sede della monografica riservata al grande artista olandese. Io faccio parte degli undici artisti invitati. A ognuno di noi è stato chiesto di interpretare una tematica tratta dal mondo pittorico di Van Gogh. A me Marco Goldin ha assegnato gli oggetti, intitolando la mia personale: Le cose di Vincent. Ho così scelto e studiato gli oggetti che potessero avvicinarsi di più al mio mondo, cercando di interpretarli attraverso la mia visione. È stato un lavoro intenso ed estremamente stimolante. Di Van Gogh mi piace molto l’aspetto visionario della sua pittura, l’originalità e l’unicità del suo linguaggio espressivo. Amo il suo periodo olandese, la sua tavolozza dai colori bruni e muscosi. Da essa emergono gli echi della pittura del Seicento per la quale io ho una grande predilezione, da Caravaggio a Georges de La Tour a Rembrandt, Zurbaran. Le loro ombre, le loro luci collegano l’emotività alla percezione.
Ancora a proposito di Van Gogh: in una lettera al fratello Theo del 1882, Vincent dice: “Artista significa cercare sempre senza mai riuscire a trovare del tutto”… È d’accordo?
Assolutamente sì. È un cammino che si snoda e prende forma per stratificazioni. Procede e si evolve con lentezza, a volte a fatica a volte con slanci improvvisi. E quando pensi di aver trovato ciò che stavi cercando, un altro pensiero ti assillerà di nuovo…
Il suo più grande sogno?
Esporre, esporre e viaggiare molto per esporre.
Un secolo fa, nel 1920, Edna St. Vincent Millay, ragazza sognatrice e audace, di astratta bellezza, pubblica A Few Figs From Thistles: non è il suo esordio (alcuni testi, insieme al poema Renascence, pura potenza – “Io vidi, udii, conobbi fino in fondo/ di ogni cosa il Come e il Perché:/ il passato, il presente e il per sempre” –, uscirono nel 1917), ma è il libro che la rende regina del Greenwich Village, la diva degli intellettuali scapigliati.
Per via di quella poesia ambigua, spigliata, sul crinale della carne, l’anno dopo Edna fece il canonico viaggio a Parigi, diventò amica di Constantin Brancusi e di Man Ray, fu femminista, impegnata, conservando, nei versi, sempre, la misura lirica. “Come la sua poesia, così la sua morte sarà all’insegna di una tragica, ironica leggerezza: scivolerà dalle scale la notte del 18 ottobre 1950, con un bicchiere di vino rosso in mano, dopo molte ore dedicate alla rilettura di una sua traduzione dell’Eneide”, scrive Silvio Raffo, che delle Poesie di Edna è il gran traduttore.
Per gran parte della sua carriera, la vincitrice del Premio Pulitzer Edna St. Vincent Millay è stata una delle poetesse di maggior successo e rispettate in America. È nota sia per le sue opere drammatiche, tra cui Aria da capo, The Lamp and the Bell, sia per il libretto composto per un’opera, The King’s Henchman, e per versi lirici come “Renascence” e le poesie presenti nelle raccolte A Few Figs From Thistles, Second April, e The Ballad of the Harp-Weaver, vincitrice del Premio Pulitzer nel 1923.
Come il suo contemporaneo Robert Frost, Millay è stata una delle più abili scrittrici di sonetti del ventesimo secolo, e come Frost, è stata in grado di combinare atteggiamenti modernisti con forme tradizionali creando una poesia americana unica. Ma la popolarità di Millay come poeta aveva almeno altrettanto a che fare con la sua persona: era nota per le sue letture e spettacoli avvincenti, le sue posizioni politiche progressiste, la rappresentazione franca sia dell’etero che dell’omosessualità e, soprattutto, la sua incarnazione e descrizione di nuovi tipi di esperienza ed espressione femminile.
Dalla fama quasi universale negli anni ’20, la reputazione poetica di Millay è diminuita negli anni ’30. Pochi critici pensavano che avesse speso bene il suo tempo traducendo Baudelaire con Dillon o scrivendo la discorsiva Conversation at Midnight (1937). La sua franchezza finì per sembrare antiquata quando la poesia intellettuale del Modernismo internazionale divenne di moda. Nel 1931 Millay disse a Elizabeth Breuer in Pictorial Review che ai lettori piaceva il suo lavoro perché trattava temi antichi come l’amore, la morte e la natura. Quando Winfield Townley Scott recensì Collected Sonnets e Collected Lyrics in Poetry, disse che i “letterati” avevano rifiutato Millay per “disinvoltura e popolarità”.
Negli anni ’60 il Modernismo sposato da T. S. Eliot, Ezra Pound, William Carlos Williams e W. H. Auden aveva assunto una grande importanza, e la poesia romantica di Millay e delle altre poetesse della sua generazione fu largamente ignorata. Ma la crescente diffusione del femminismo alla fine ravvivò un interesse per i suoi scritti, e lei riguadagnò il riconoscimento come scrittrice di grande talento, una che creò molte belle poesie e parlò liberamente nella migliore tradizione americana, sostenendo la libertà e l’individualismo; difendere i principi umanisti radicali e idealistici; e nutrendo ampie simpatie e un profondo rispetto per la vita.
La belva che mi strazia ovunque io vada, questa passione, questa obliosa brama che mi soggioga al declinante autunno, mi lascerò, saziata, in primavera. Chiusa la piaga, sparirà la febbre, in seno il cuore scioglierà il suo nodo; prima che torni il picchio avrò scordato il tuo sguardo, mio oriente e occidente. Ma da un simile artiglio non sarò mai più sicura, anche se amassi ancora: lungo il mio corpo, vigile nel sonno, tagliente al bacio, neve alla carezza, come una spada questa cicatrice fra me e il turbato amante resterà. * La notte è mia sorella, io nel profondo dell’amore annegata, giaccio a riva, acque e alghe a fior d’onda mi lambiscono, mi ferirà la draga, e c’è di più: lei, solo braccio teso dalla sabbia, unica voce il cui respiro sento a sgelarmi le nari, ad aprirmi la mano, lei potrebbe avvisarti, se tu udissi. Ma di certo è impensabile che un uomo in sì dura tempesta lasci il quieto focolare e s’imbarchi al salvataggio di un’annegata per portarla a casa, sgocciolante conchiglie sul tappeto. Buia è la notte, e per me piange il vento. * Verrà il momento, polvere superba, che a giacere con me sarai gettata. Che sia il sangue fremente, o come ruggine su un infranto congegno. E così sia. Se non oggi, più tardi; se non qui, sull’erba verde, in sospirosa ebbrezza, al di sotto, da buone amiche, cara, insieme dormiremo nella notte. E, stanne certa, più violento e rude che ogni ardore del corpo voluttuoso sarà il bacio umiliante della tenebra che alfine chiuderà l’altera bocca. La morte non ha amici: presto o tardi, torni a nutrire il drago con la luna. * Veglia i sentieri della mia passione come notturna tenebra il pericolo. Deserti intorno. Da me s’allontani chi è come il bimbo che l’ombra atterrisce, fugga da questo luogo infido dove tremule, oscure e pallide le rose ondeggiano nell’aria senza stelo e raggela le mani la rugiada. Chi è come il bimbo che non ha paura del buio della notte, lui soltanto rimanga qui, gli occhi d’amore ardenti, scaldato dalla febbre delle vene giaccia quieto con me, protetto dall’insonne Bellezza e dalla sua tenera spina.
Quella di Vittorio Sereni è una delle voci più rappresentative del panorama letterario novecentesco in Italia. Inquieta e irrisolta, la sua opera poetica registra i movimenti (intimi e non) che accompagnano il prepararsi del secondo conflitto mondiale, gli anni della guerra e il periodo postbellico.
Chiamato alle armi nel 1941, nel luglio del ’43 viene fatto prigioniero a Trapani dalle truppe Alleate insieme al suo reparto e trasferito in Nord Africa : iniziano così due anni esatti di prigionia (24 luglio 1943-28 luglio 1945), che Sereni trascorre tra Algeria e Marocco, perennemente attanagliato dalla sensazione di essere stato tagliato fuori dalla Storia, dalla giovinezza e dalla vita.
Gli oscuri presagi che rabbuiano i suoi versi già dalle prime due raccolte («Ma fischiano treni d’arrivi | s’è strozzato nel caldo | il concerto della vita»; «Siamo tutti sospesi | a un tacito evento questa sera | entro quel raggio di torpediniera | che ci scruta poi gira se ne va») si traducono poi nel patologico senso di colpa dell’aver vissuto la guerra, e quindi la storia, soltanto “dal margine”, senza davvero prendervi parte; questa sensazione di estrema inadeguatezza, nota dominante del successivo discorso poetico di Sereni, non verrà mai superata e assurgerà anzi a cifra identitaria dell’uomo e del poeta («dimmi che non furono soltanto | fantasmi espressi dall’afa, | di noi sempre in ritardo sulla guerra | ma sempre nei dintorni | di una vera nostra guerra…»; «[…] prega tu se lo puoi, io sono morto | alla guerra e alla pace» ).
La condizione di prigioniero in perpetua attesa rende il poeta di Luino inadatto e incapace, a suo stesso dire, di partecipare al grande flusso della storia, impedendogli, tra le altre cose, di assumere una posizione ideologica forte e decisa in anni, quelli del dopoguerra italiano, in cui la corrente dominante era quella del realismo “a tutti i costi”, inteso come reazione necessaria al disfacimento dei valori portato dal conflitto.
La poesia di Sereni non pretende mai di farsi portatrice di istanze universali: attraverso un’adesione quasi programmatica (ma che è in realtà una risposta ad un’intimissima e personalissima necessità espressiva) al mondo degli oggetti, il poeta di Luino elegge il reale e il quotidiano a basi costitutive e ispirazioni prime dei suoi versi. Alessandro Parronchi, poeta ermetico fiorentino con cui Sereni intrattiene un fitto ed entusiasta rapporto epistolare, commenta la prima raccolta dell’amico, Frontiera (uscita nel ’41), rilevandone la capacità di rimanere «vicinissimo agli oggetti e ai movimenti del cuore» , mentre all’invio di Pin-up girl (contenuta in Diario d’Algeria, la raccolta successiva), risponde nel novembre del ’45 con una sincera sorpresa per come l’autore sia stato in grado di «concreta[re] questo sentimento che qui traspare in immagini vive». E prosegue: «Questo sì è il regno delle cose che veramente ci appartiene […] ma che poeticamente è la tua scoperta e costituisce la tua originalità» .
Di fatto, fin dalla composizione delle prime poesie poi confluite in Frontiera, l’atmosfera lacustre e la condizione di liminarità (anche geograficamente intesa; Luino si trova sulla riva lombarda del Lago Maggiore, non lontano dal confine con la Svizzera) alimentano i versi di Sereni andando a costuire un vero e proprio tòpos e luogo interiore , e l’ispirazione della sua opera si fonda sempre sulla sua personale esperienza umana. A questo proposito, si esprime bene Mengaldo in una nota in “Ricordo di Vittorio Sereni”:“[…] Ungaretti o Montale […] sono poeti che ancora pretendono di comunicare, attraverso la poesia, una verità. […] Per Sereni, e così per Bertolucci o per Caproni […] si tratta di molto meno: di comunicare un’esperienza”.
Il percorso poetico di Sereni non è mai facile né immediato, e la sua appropriazione del mondo esterno richiede sempre un lento processo di assorbimento e stratificazione di significati ed emozioni.
L’ultima raccolta di Sereni, edita nel 1980 e ripubblicata nell’82, registra già dal titolo l’avvento di un profondo mutamento di prospettiva dal mondo degli umili “strumenti umani” a quello astronomico delle stelle, rappresentazione di quell’altrove metafisico (sia esso il regno della memoria, del sogno o della morte) già abbozzato, come abbiamo visto, in chiusura della raccolta precedente .
La struttura di Stella Variabile seguita a sfaldarsi, l’io poetico fatica a saldare il discorso entro una struttura compatta, l’andamento si fa sempre più narrativo, e i componimenti accolgono un numero sempre maggiore di stimoli mutuati dall’esterno (citazioni colte, auto-citazioni, frammenti di testi in lingua straniera); è interessante considerare che, mentre per Eliot questo tipo di strutturazione risulta essere la cifra identitaria delle prime opere, ancora completamente immerse nella crisi , per venire poi risolta e rinsaldata nei poemi successivi grazie alla fiducia in una possibile risoluzione futura, per Sereni questo procedimento emerge proprio come approdo finale del percorso di un soggetto che, essendosi visto negare qualsiasi certezza e assolutezza di valori (dal punto di vista esistenziale, ma anche da quello più propriamente poetico), non è più in grado di ritrovare una voce unitaria per potersi esprimere.
Nonostante questa sostanziale differenza, è ancora l’opera del poeta inglese a trasparire in sottotesto a molti dei componimenti che vanno a formare l’ultima raccolta sereniana. Abbiamo già detto dell’introduzione di elementi eterogenei nel tessuto poetico (versi, versicoli, epigrafi), spesso in lingua straniera.
La terza sezione di Stella Variabile è interamente occupata dal poemetto sul posto di vacanza , ambientato a Bocca di Magra, località ligure «tra fiume e mare» in cui Sereni usa trascorrere i periodi estivi negli anni Cinquanta. Questa forte caratterizzazione spazio-temporale («Anno: il ’51») rende il discorso poetico sereniano certamente indipendente dall’intertesto dei Quartets (contraddistinti da una sostanziale mancanza di riferimenti specifici e concreti); tuttavia la rimodulazione dei principali nuclei tematici dei poemetti eliotiani è evidente .
Il componimento nasce da «uno dei tanti ritorni a Bocca di Magra in un giorno di fine autunno prossimo al gelo, che ridesta […] le tracce dell’estate ormai trascorsa» , e trova dunque già nella sua genesi il motivo della compresenza di passato e presente, tipico dei Quartetti (di Burnt Norton in particolare), che viene inoltre efficacemente espresso dall’immagine del «giorno concavo che è prima di esistere», con cui si apre la prima sezione; sembra, questa, un’appropriazione – o, meglio, una rielaborazione – dell’eliotiano «all time is eternally present» ; tale “sentimento del tempo” attraversa tutto il poemetto («Passano […] tutti assieme gli anni | e in un punto s’incendiano»; «Del tempo che forse cambia discorrono voci sotto casa»).
Il ritorno del poeta al luogo familiare innesca un meccanismo di ricordi («Qua sopra c’era la linea, l’estrema destra della Gotica, | si vedono ancora – ancora oggi lo ripeto […]») e di sovrapposizioni temporali («Ma intanto […] si dichiarò autunnale il tocco delle foglie»), proprio come accade nel caso della prima sezione di Burnt Norton, in cui «la visita al castello [del Gloucestershire] disabitato riporta al poeta le memorie della sua fanciullezza. […]
Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Forse non nel senso letterale della parola: ciò che trasformano è la percezione che abbiamo di volta in volta del mondo circostante. La buona letteratura, la buona poesia, la buona opera d’arte compie questa metamorfosi nell’uomo: dà a esso la capacità di compenetrare a fondo il presente della sua esistenza. Tenta di dare un ordine al caos indiscriminato della storia.
E rende noto, soprattutto, che quel presente non è un attimo di vita isolato, sconnesso dal flusso del tempo e dalle altre vite, ma piuttosto un elemento della moltitudine di cui è composto. Le opere d’arte del passato potranno quindi sempre influire sul presente, così come quelle del presente possono, e devono, influire sul passato. Su questo principio si basa il concetto di tradizione artistica. La tradizione, non è soltanto l’insieme delle opere del passato che vengono ereditate e assorbite dai singoli autori.
L’importanza della tradizione del poesia moderna di Eliot
Essa costituisce il terrain d’entente, il patrimonio comune di questi scrittori, grazie al quale sono in grado di vedere al di là dei loro predecessori, e di stabilire legami con i periodi precedenti creando quindi un’unità nell’evoluzione di una determinata letteratura. Ogni nuova opera d’arte che altera l’ordine universale della tradizione, la accresce mantenendone al contempo intatta l’unità. Guardare al passato non implica necessariamente rinchiudersi in una torre d’avorio, isolarsi dalle problematiche concrete, o astrarsi dalla realtà. Significa essere consapevoli del proprio senso storico, sentirne il peso. E tuttavia, lo scrittore che ha ereditato questo immenso patrimonio, non è sordo alle eco del proprio tempo, tutt’altro.
La tradizione rende viva la sensibilità dell’artista nei confronti del presente, consentendogli di intercettare quegli elementi vaghi e indefiniti che appena accennano a manifestarsi, dandone degna espressione, facendo di lui un precursore del suo tempo. Le opere dei grandi scrittori del passato non si esauriscono nell’attimo della pubblicazione, vanno oltre: sono in anticipo sulla storia. Giungono consapevolmente oltre l’epoca nella quale sono state realizzate. In tal senso, ogni autore che si confronta con la tradizione non solo pone in discussione le proprie opere, ma le riveste di un carattere nuovo, un carattere profetico e immortale, poiché in esse è compresente ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà. Ciò che si cercherà di mettere in luce è proprio quest’aspetto: quanto la consapevolezza della tradizione influisca sull’opera, se ne accresca o ne sminuisca il valore, e se tale cognizione del passato riesca a traghettare l’autore oltre i limiti della conoscenza presente. Il testo di cui ci occuperemo è La terra desolatadi Eliot.
Eliot, Pound e il concetto di modern poetry
Thomas Eliot, e con lui Ezra Pound, sono forse le due personalità che metteranno in discussione l’annosa questione della tradizione. I primi anni del ‘900 sono dominati da queste due figure immense, eppur dissimili fra loro. Dissimile è la loro visione della tradizione e di come essa rifletta sull’attività letteraria dell’artista. Tuttavia, la meta comune da raggiungere, che trova nella poesia il più nobile dei traguardi, farà di loro inseparabili e impareggiabili amici.
Quando pensiamo a loro, immancabilmente sorgono nella mente le due possibili relazioni della poesia moderna alla letteratura del passato. Tuttavia, lo stesso concetto di modern poetry, al quale entrambi, chi un modo chi un altro, faranno riferimento, non è esente da una certa ambiguità. Evidente è che non prefigura solamente una categoria storica e letteraria, da contrapporre al Romanticismo, o all’Imagismo per esempio. L’aggettivo modern ci mette di fronte a una più grave problematicità: esso è indice del modo in cui dal passato la poesia moderna si estende, o sottintende una rottura col passato? Indica un certo senso di rinnovamento e di continuità con la tradizione, o rappresenta una frattura insanabile?
La poesia moderna, in particolare Eliot, e Wystan Hugh Auden dopo di lui, tentano di mantenersi in equilibrio su questa contraddizione, che rappresenta, a ben vedere, il nucleo fondante di tale espressione artistica. Cerchiamo di comprenderne, seppur brevemente, la personalità artistica. Nel caso di Pound è presente il desiderio dell’immediatezza nella poesia, attraverso linguaggio quanto mai naturale e verosimile. Non troveremo mai nella sua poesia virgolette, note, o apparati critici.
Nessun genere di aiuto insomma. Questo perché vuole dare al lettore un accesso diretto e pieno alla sua poesia. In tal senso, i collegamenti con la tradizione sono traslati e combinati direttamente nell’opera, in altre parole, non sono trattati alla stregua di elementi estranei da inserire. Il contrasto con Eliot è forte.
Citazioni e note nella Terra desolata
Nella poetica di Eliot l’elemento predominate è la citazione, che non è un semplice sfoggio di erudizione. Il trapiantare un passo ben noto e dotato di una propria carica emotiva e intellettuale in un differente contesto da un lato presenta sotto una luce nuova dei complessi emotivi ben definiti, modificandoli attraverso il rapporto e il contrasto con il modo di sentire del nostro tempo; dall’altro rivela la coscienza che del passato come storia e come poesia hanno i poeti moderni. Pound era incline a valersi delle citazioni come di etichette evocative, per Eliot esse sono le stesse parti affioranti degli strati profondi della cultura passata.
La terra desolata è corredata da un apparato di note, redatto e curato dallo stesso Eliot: come lui stesso suggerisce sono due i testi su cui si basa la struttura dell’opera. From Ritual to Romance, di Jessie L. Weston dal quale riprende le antiche leggende del Graal, nonché il titolo del poema. E The Golden Bough, di James George Frazer dal quale attinge per le cerimonie religiose.
La lettura del poema impone una sorta di extra-testualità continua. Come si è detto, la proiezione del moderno nell’antico è un elemento essenziale nella poesia eliottiana. È bene chiarire fin da ora che non esiste un narratore univoco nel Waste Land, ma solamente un coro di voci indistinte, che si accavallano l’un latra, che parlando in toni e accenti e in lingue diverse, e rendono il tutto confuso e ingarbugliato, come un’immensa torre di Babele.
Inizialmente infatti, doveva chiamarsi He do the police in different voices! esemplare citazione dickensiana, che voleva rimarcare la natura multilinguistica del poema. Sono le voci dei dannati, che dominano l’eterna distesa di terra arsa dal sole, il sole eterno dell’indifferenza e della corruzione di ogni sentimento autentico. È il poema della perdita: perdita di significato, perdita dei simboli, dell’annientamento dell’identità territoriale, dell’identità storica e dell’identità religiosa.
Tutto questo, visto come apertura al mondo, rivela, nella poetica di Eliot il lato puramente drammatico di questa scelta. Ecco che all’inizio del poema sono presenti le prime citazioni: il desiderio di morte della Sibilla cumana, tratto dal Satyricon di Petronio, una dedica a Ezra Pound, il miglior fabbro, che tira in ballo Dante, e il verso del XXVI canto del Purgatorio, in cui elogia la maestria di Arnaut Daniel. L’uso del latino, del greco, dell’inglese e dell’italiano per queste citazioni di apertura, è un’ulteriore conferma a quanto detto prima sull’intenzione di Eliot di creare un senso di disorientamento e di ansietà, attraverso l’uso di diverse lingue.
La terra desolata viene scritta da Thomas Stearns Eliot (Mercoledì delle ceneri, Assassinio nella Cattedrale, Quattro quartetti) a Londra beglio anni tra il 1921 e 1922 e pubblicata sulla rivista <<The Criterion>> nell’ottobre del 1922. A questa pubblicazione ne segue una seconda in rivista e finalmente, nello stesso anno, la prima edizione in volume, a New York, con l’aggiunta di alcune note che mettono in luce soprattutto i riferimenti ad altri testi presenti nei versi. Il lungo poemetto, che appartiene alla prima stagione della poeisa di Eliot, ha al suo centro la crisi della società occidentale, ridotta, come vuole il titolo, a una “terra desolata”. Lo scrittore non ha ancora incontrato l’esperienza religiosa di una fede che porta la speranza della salvezza. I versi della Terra desolata portano con se tuttavia, molti più significati, rimandando a numerose possibilità di lettura. Lo stesso Eliot richiama per la sua poesia un mito celtico, secondo il quale il Re Pescatore ha perduto, per una ferita, la possibilità di generare e la stessa terra è diventata infeconda.
C’è dunque la necessità di una guarigione che viene affidata ad un eroe che può ridare fertilità. Il mito, che ha una variante in chiave religiosa cristiana, può essere letto come la rappresentazione di una società in crisi e dunque come la testimonianza di un bisogno di rigenerazione che Eliot reputava necessario.
Il poemetto si compone di cinque sezioni: La sepoltura dei morti, Una partita a scacchi, Il sermone del fuoco, la morte per acqua, Ciò che disse il tuono. In essi si può notare l’originalità della scrittura di Eliot, che, sotto l’influenza di Ezra Pound (a cui il poemetto è dedicato), moltiplica i richiami ad altri testi, con inserti di citazioni nascoste o evidenti, con contaminazioni di diversi miti, occidentali e orientali.
Eliot, tra Ezra Pound e Dante
Ne La terra desolata, Eliot afferma la sua lucida visione pessimistica della realtà, ritraendo la drammatica condizione della terra: alla caduta di ogni valore non corrispondono alternative possibili e la poesia non può fare altro che registrare la frantumazione e la desertificazione dell’umanità La tessitura stilistica dell’opera di Eliot risente dei poeti dell’età elisabettiana, dei “Metafisici” del Seicento e della poesia simbolista; ma il simbolismo di Eliot più che a quello ottocentesco, si rifà a quello medievale e i particolare alla Divina Commedia, indicata come modello da perseguire (e a Dante infatti Eliot ha dedicato studi critici e la monografia Dante). Distaccandosi in questo dall’amico Pound, Eliot propone, nel corso degli anni venti, il ritorno alla religione cristiana, vista come l’unica alternativa possibile alla desolazione del mondo: dopo la conversione all’anglicanesimo, il poeta americano affida ai propri versi un messaggio di speranza, che tuttavia non assume i toni di una a-problematica pacificazione. Dopo la prima guerra mondiale, la storia umana per Eliot è un cumulo di macerie non una marcia trionfale, ed è difficile riuscire a connettere qualcosa. Chissà cosa direbbe Eliot oggi, vedendo il nostro attuale Occidente magmatico, tenuto “unito” dal caos, dal materialismo che lo caratterizza e dalle contraddizioni che lo caratterizzano, arido spiritualmente che convive con la religione perché in fondo quest’ultima è innocua, non dà fastidio; sembra che faccia tenerezza.
Eliot invece è per una fede, una religione che non ammette compromessi, suggerendo la via del raccoglimento e dell’umiltà, la necessità di uscire dal “tempo quotidiano” per raggiungere una dimensione mistica: l’eternità che il grande poeta definisce in questi termini:
“Afferrare il punto di intersezione tra l’eterno e il tempo è occupazione da santo”.
Lo stile di Eliot: il metodo delle sovrapposizioni culturali
Sul piano formale, la poesia di Eliot suggerisce l’unione tra emozione e riflessione: nasce in questo contesto la poetica del <<correlativo oggettivo>> (che tanto influenzerà Eugenio Montale) secondo la quale occorre trasformare ogni emozione individuale in immagini oggettive valide per tutti. Il sentimento, l’intuizione personale vengono comunicati in forma simbolica, per il tramite di un oggetto al quale vengono assimilati.
Un’esemplare testimonianza della continua mescolanza di riferimenti culturali diversi che sta alla base de La terra desolata, si trova nell’ultima sezione, Ciò che disse il tuono, Essa si apre con la disperata visione di un deserto: forse gli uomini sono in attesa di una pioggia che non arriva; anche la speranza che può arrivare da Cristo è lontana, mentre gli uomini, in terra, stanno morendo. In questa sezione dunque il poeta prosegue il suo metodo delle sovrapposizioni culturali, avvalendosi di un ordine preciso di riferimenti che vanno da Dante al Vangelo di Luca, passando per il mito celtico e per un trattato indiano.
Dopo la luce rossa delle torce su volti sudati
dopo il gelido silenzio nei giardini
dopo l’agonia in luoghi di pietra
il clamore e il pianto
la prigione il palazzo e l’echeggiato schianto
del tuono primaverile sui monti lontani
colui che era vivo adesso è morto
noi che eravamo vivi stiamo morendo
adesso, con un po’ di pazienza
Qui non c’è acqua ma solo roccia
roccia e non acqua, e la strada di sabbia
la strada che si snoda lassù tra le montagne
montagne di roccia e niente acqua
se qui ci fosse acqua ci fermeremmo a bere
tra la roccia non ci si può fermare o pensare
il sudore è asciutto, i piedi nella sabbia
ci fosse almeno acqua tra la roccia
morta bocca di montagna con i denti cariati che non può sputare
qui non si può stare in piedi né sedere né giacere
non c’è neanche silenzio tra i monti
ma tuono secco sterile senza pioggia
non c’è neppure solitudine tra i monti
ma volti rossi arcigni che ringhiano e sogghignano
da soglie di case di fango screpolato
se ci fosse acqua
e niente roccia
se ci fosse roccia
e anche acqua
e acqua
una sorgente
una pozza fra la roccia
[ … ]
In questa poesia viene evocata una situazione di disagio e di inquietudine in termini onirici, creando un’atmosfera da incubo. Eliot, nella seconda strofa, fa corrispondere lo stato d’animo dell’uomo con la desolazione del paesaggio (assenza di acqua=assenza di vita), insistendo sull’aridità del paesaggio mediante una serie di ripetizioni che creano un effetto di musicalità ossessiva.
Come gli esploratori in Antartide, gli uomini che si aggirano per il deserto desolato pensano di vedere accanto ai loro compagni una presenza misteriorsa (forse la morte). Il canto diventa più disperato e folle, il canto dell’Europa che sta per finire ; tutta la civiltà europea (simboleggiata dalle città che hanno costituito i suoi punti di riferimento: Gerusalemme per la religione, Atene e Alessandria per la cultura classica, Vienna e Londra per quella moderna e contemporanea) sembra giunta al termine della sua storia.
Ma Eliot ci offre anche una rinascita, simboleggiata dal gallo con il suo gioioso canto, segno di una nuova alba, e dal vento umido che riporta la pioggia. La desolazione è ormai superata, il tuono (Dio?) parla e annuncia il suo messaggio di salvezza: dalle sue parole emergono i valori fondamentali della civiltà passata: altruismo, compassione, autocontrollo, sulla base dei quali rifondare una civiltà nuova. Accoglieremo un giorno il messaggio di Thomas Stearns Eliot?
“Il poeta della negatività, della corrosione critica dell’esistenza, ma anche uno scettico o addirittura uno snob o un borghese onesto al di sopra della mischia, restio ad essere catalogato come chierico rosso o nero. Al più, la tragica testimonianza di una coscienza intellettuale che ha rimosso i conflitti politici del nostro tempo, sostituendoli con una condizione <<eterna>> di solitudine e di incomunicabilità.” Così è stato definito Eugenio Montale,uno tra i più grandi scrittori italiani, nato a Genova il 12 Ottobre 1896 da un’agiata famiglia borghese. Egli rifiuta di attribuire un valore assoluto e istituzionale alla scelta della poesia ed aspira a scrivere “sempre da povero diavolo e non da uomo di lettere professionale”: l’attività poetica non rappresenta per lui un mezzo mediante il quale spillare il senso profondo, intimo, segreto della vita, ma uno strumento di contatto con la realtà del presente, con lo scenario storico-sociale-naturale circostante. L’arte è per lui una forma di vita “alternativa”, che parte da un rifiuto della vita reale e da una non partecipazione al flusso distruttivo della natura e della storia. Queste le parole del Montale sulla figura del “poeta laureato”: “Io non attribuisco nessun particolare privilegio alla posizione dell’artista nella società, nessun merito specifico. L’idea classicistica del poeta che vive in mezzo agli uomini con l’alloro in testa , mi sembra un relitto di cui bisogna assolutamente liberarsi”.
La vita dello scrittore consta di motivi biografici meno significativi di quanto invece accade per poeti quali Saba o Ungaretti. Tuttavia, vive un’adolescenza difficile dove inizia ad emergere un senso di distacco dalla consueta vita borghese, un distacco che caratterizzerà profondamente la sua opera, mostrandoci, al di là della borghesia operosa e in ascesa, al di là della secolare fatica dell’uomo e della sua famiglia che ne è diretta rappresentazione nella mentalità e nei costumi ( il padre infatti dirige un’importante azienda di prodotti chimici), quella che è una natura opprimente, una realtà che in tutte le sue sfumature cela la pena di un male di vivere consustanziale nelle cose.
Da sempre appassionato di arte, studia dapprima musica per poi dedicarsi alla letteratura. Come molti scrittori del tempo, anche lui viene arruolato. La prima pubblicazione poetica risale al 1922 denominata “Accordi”, mentre il suo libro “Ossi di seppia” è del 1925. Nell’ambito politico chiara è la sua avversione al movimento fascista, quando nello stesso anno appone la sua firma al manifesto antifascista di Croce, un’opposizione che gli costerà l’espulsione dalla direzione del gabinetto di Vieusseux, seppur non condividendo i limiti troppo nazionali e tradizionali del crocianesimo, ma cercando un confronto con il mondo molto più problematico. Nell’immediato post guerra, fonda insieme a Bonsanti e Loria il quindicinale “Il Mondo”, ma dinanzi alla situazione conflittuale del dopoguerra, cadono le speranze di un orizzonte europeo laico ed illuminista. Montale ritiene infatti che la guerra più grande a cui è chiamato l’uomo sia quella contro l’ arroganza e la presunzione della stessa umanità, restia ad accettare di essere soltanto una minima parte dell’universale ingranaggio cosmico.
Nel 1939 pubblica “Le occasioni”. Viene a contatto con i più grandi intellettuali dell’epoca, primi fra tutti Svevo ed Ezra Pound. Lavora come giornalista al “Corriere della Sera” per poi pubblicare nel 1956 “La bufera ed altro” e nel 1971 “Satura”. Nel 1980 nasce l’edizione critica di tutta la sua intera attività culturale, col titolo di “Opera in versi”. D’obbligo, nel 1975 è l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura ad uno scrittore considerato modello di cultura laica e liberale, di discrezione e di civiltà. Un uomo, Montale, poco propenso alle sbavature sentimentali, ai miti dell’ottimismo, che spesso schivo e reticente verso la propria stessa esistenza, può sembrarci alteramente rinchiuso nella “cittadella” del proprio io; ma in realtà è proprio il distacco, l’apparente non coinvolgimento, la sua “solitudine” che fanno della sua arte il dono grandissimo di comunicare “l’essenziale”, di scoprire la distanza abissale tra un io, lacerato dalle contraddizioni, e gli altri. Muore a Milano il 12 Settembre 1981.Montale ha svolto anche una lunga attività di critico e traduttore che lo porta a contatto con le letterature straniere, specialmente francese e inglese. Dalla poesia francese ed in particolare da Baudelaire riprende la volontà di uscire da un orizzonte linguistico e tematico già dato, di valicare i limiti della realtà, mosso da un imperativo intellettuale e morale, che sembra richiamare le famose parole di Ulisse del canto ventiseiesimo dell’Inferno dantesco : “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”. La sua poesia è plasmata per conoscere, interrogando, il presente; per immergersi laicamente e razionalmente anche negli aspetti più inquietanti della realtà e della coscienza umana prendendo atto della profonda solitudine dell’uomo e riconoscendo dinanzi a ciò i limiti e la marginalità della stessa poesia; una “scoperta”, questa, che lo porta a tenere il discorso, per l’assegnazione del premio Nobel, dal titolo: “E’ ancora possibile la poesia?”
A questa domanda Montale non ci lascia una vera e propria risposta, ma esprime una condizione della poesia “martoriata” dalla “quantità estrema di parole che percorrono la terra”. A differenza di Ungaretti che propone un ermetismo conciso e tagliente, Montale va creando una poesia metafisica nata dal contrasto tra ragione e qualcosa che non è ragione; una poesia che si immerge razionalmente negli oggetti che va descrivendo per trarre alla luce ciò che in essi vi è di irrazionale; una poesia che ha uno scopo ma che al contempo è anche consapevole dei limiti di tale scopo. Questo tipo di poesia è stata definita “ poetica dell’oggetto”, richiamandosi al correlativo oggettivo di Eliot.
La poetica montaliana è un tipico esempio di come mediante l’attività letteraria si possano perfettamente conciliare classico e moderno. Innanzitutto la moderna “ricerca antropologica” condotta dal poeta assume connotati classici. Guarda al mondo dei grandi classici non per farne sfoggio di preziose citazioni, ma se ne avvicina in maniera critica, ricercando ciò che in essi serve a comprendere la realtà presente. Si uniscono così linguaggio tradizionale e moderno. Da Leopardi, il poeta ligure riprende l’inquieta interrogazione del nulla, dal Petrarca una ricerca di equilibrio perfetto, da Dante la ricchezza espressiva.
In Ossi di seppia già il titolo ci dà il senso di questa poetica. L’osso infatti è metafora delle cose ridotte alla loro nuda e scarna esistenza. Questo spogliarsi delle cose rompe i consueti equilibri quotidiani, disintegra le maschere sotto le quali la realtà si cela, ci svela il vuoto in cui consiste il vivere personale e naturale. La voce del poeta, con quell’atteggiamento razionale e critico che lo contraddistingue, si immerge nel paesaggio, spesso quello ligure, descritto sull’onda dei ricordi dell’infanzia, senza però confondersi in esso, dove ogni barlume di speranza, di un attingere ad una vita più autentica e migliore, si risolve in una disillusione. Non c’è una salvezza certa, non c’è un valore assoluto e definitivo della parola poetica. Tutto il libro è attraversato dal presupposto di una crisi gnoseologica che vieta l’adesione a confortanti certezze. La poesia montaliana invita a riflettere, non annuncia blande promesse:
“ …..Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.”
Nelle Occasioni significativo è il discorrere con alcune figure di donne, generalmente donne reali, conosciute per momenti brevissimi, portatrici di un messaggio: il tentativo di trovare la luce in un mondo buio e negativo. Un tentativo labile, che emerge come squarci di luce improvvisi nell’oscurità, che si risolve come la fiamma che brucia e poi immediatamente si spegne divenendo cenere. Rappresentano un’ultima, drammatica difesa contro la barbarie del mondo, una possibilità comunque insufficiente per “poter mutare le cose del mondo”:
“………La vita che dà barlumi
è quella che sola tu scorgi.
A lei ti sporgi da questa
finestra che non si illumina.”
Nella Bufera ed altro abbiamo un aspetto romanzesco del libro, che fa sì che si ponga un intreccio tra i segni della realtà contemporanea e la vicenda d’amore per una donna salvatrice. Una donna che richiama solo in parte quella stilnovistica, in quanto conserva tracce di un sottile erotismo, non distrugge la sensualità. Il “tu” femminile con il quale il poeta dialoga si identifica innanzitutto con Clizia, figura mitologica che nasconde in realtà la vera identità di Irma Brandeis, studiosa americana, simile alla lontana e inafferrabile Laura petrarchesca; poi passa a colloquiare con Mosca, più concreta e vicina e infine con Volpe che in realtà è come se rappresentasse il passaggio da un piano “angelico” ad uno più propriamente terrestre, divenendo molto meno inafferrabile delle precedenti. La donna montaliana diviene simbolo che reca in sé tesi e antitesi, positivo e negativo, funzionale e antifunzionale. Comporta attraverso alcuni “segni preziosi” la funzione di opporre alla degradazione e alla violenza del presente, qualcosa di “altro”, ma al contempo essa stessa distrugge questa funzione, e gli stessi segni diventano simboli di distruzione e morte. La donna è inoltre simbolo della poesia, che da un lato tenta di resistere, di offrirsi come ultimo dono civile in un mondo incivile, e dall’altro soccombe:
“..il lampo che candisce
alberi e muro e li sorprende in quella
eternità d’istante….”
Il lampo è dunque metaforicamente simbolo della verità che , attraverso la donna, si svela per un attimo nell’oscura tragedia della guerra e della storia in generale. Una verità che come abbiamo detto non può essere attinta fino in fondo e ce lo dimostra la chiusa di questa poesia, con la donna che ritorna nell’oscurità del buio:
“…mi salutasti-per entrar nel buio.”
Eugenio Montale ci ha lasciato una profonda testimonianza della sua poetica; la testimonianza di un uomo, che tra classicismo e modernità è stato interprete critico e razionale del suo tempo, comprendendo a fondo le contraddizioni di una società tanto complessa come quella del Novecento e vedendo molto più lontano di tanti programmi ideologici proiettati nel futuro; lasciando aperto uno spiraglio di speranza, sebbene, come si è visto, Montale non fosse incline alla fede come Ungaretti.