Cannes 2021: vince il cyberpunk ‘Titane’ di Julia Ducournau

Era partito bene Cannes 2021, con “Annette” di Leos Carax, folle musical di passione e tormento, con Adam Driver e Marion Cotillard. Lui è un cabarettista, sempre di cattivo umore, che finge di strozzarsi con il microfono mentre è sul palco. E anche sul tappeto rosso era imbronciato.

Non poteva durare. Infatti era arrivato François Ozon con “Tout c’est bien passé“. Amore e morte, qui con tanti rancori, tra un padre testardo che dopo un ictus chiede alla figlia di essere aiutato a morire.

L’attrice è Sophie Marceau. Lo svolgimento ha le sue lentezze: troppe docce, troppe palestre. Un genero che si occupa di cinema, e quindi fa la parte del idiota. Si riprende, con gusto per la commedia nera, verso il finale, quando per esempio il giovane musulmano che guida l’ambulanza verso la Svizzera si ferma a un Autogrill e rifiuta di andare avanti: il suicidio è contrario alla sua religione.

“Tra due mondi”, diretto da Emmanuel Carrère, racconta la triste sorte delle donne che puliscono a tempi da cottimo le cabine dei traghetti sulla Manica, ma non è un documentario: adatta per il cinema il libro di Florence Aubenas.

Una scrittrice francese che ha finto di essere una di loro. Dietro c’è il solito interrogativo che tormenta Emmanuel Carrère: quanto si può occupare delle vite degli altri per diventare scrittore di successo? E se poi le vere donne delle pulizie si sentono tradite da chi si è finta povera e invece firma copie in una elegante libreria di Parigi? Cinema poco. Anzi nulla.

Titane, un film tra horror e fantascienza

A vincere Cannes 2021 è Titane, pellicola di Julia Ducournau premiato come miglior film. Non accadeva dal 1993, quando Jane Campion si aggiudicò la Palma d’oro per il capolavoro Lezioni di piano. Ed era la prima ed unica volta, finora. Oggi accade che per la seconda volta la Palma d’oro finisce nelle mani di una donna, Julia Ducournau, che ha portato sulla Croisette un film esplosivo, letteralmente, seppure da lei stesso definito “imperfetto”.

Si tratta di un fantasy-horror che racconta solitudini che si incontrano, un romanzo di formazione di una ragazza “diversa” tra i “diversi”, un film popolato “di mostri” come ancora la regista ha sottolineato.  Titane parte come un thriller ma poi concentra tutta la sua attenzione sul controverso personaggio di Alexia attraverso la quale può esplorare i temi della metamorfosi, dell’inadeguatezza e tutto il complesso rapporto con il corpo di cui oggi tanto si parla. Un’opera cyberpunk che tuttavia strizza l’occhio a tematiche attualissime, sociali, politiche, oggetto di ddl. E naturalmente ha inciso il fatto che la regista fosse una donna. Insomma nulla di nuovo.

E la giuria guidata dal coloratissimo e pasticcione Spike Lee, si è mostrata decisamente divisa nell’attribuzione dei premi a giudicare anzitutto da un doppio ex-aequo: sia per il Gran Prix, andato allo splendido Ghahreman (A Hero) di Asghar Farhadi e al buon Hytti n. 6 (Compartment n. 6) del finlandese Juho Kuosmanen, sia per il Prix du Jury, assegnato sia al deludente Ha’Berech (Ahed’s Knee) dell’israeliano Navid Lapid che al magnifico Memoria di Apichatpong Weerasethakul, il quale ha approfittato del premio per tributare un un saluto speciale alla sua nuova musa Tilda Swinton, protagonista e produttrice esecutiva di questo suo nuovo lavoro.

Cannes 2021: tutti i premiati

La Palma d’oro per la miglior regia è andata a Leos Carax per il musical Annette, l’opera che ha aperto questa edizione del Festival di Cannes.

Il premio alla sceneggiatura  è andato al film più bello del concorso, e che forse meritava la Palma d’oro, ovvero Drive My Car di Ryusuke Hamaguchi, ispirato a una novella di Murakami.

Ultimi ma non di importanza, i riconoscimenti alle interpretazioni: quello femminile assegnato alla norvegese Renate Reinsve, protagonista di Verdens verste menneske (The Worst Person in the World) di Joachim Trier e quello maschile al giovane statunitense Caleb Landry Jones, protagonista di Nitram dell’australiano Justin Kurzel.

 

Fonte https://www.ilfoglio.it/cinema/2021/07/08/video/cannes-era-partito-in-grande-non-poteva-durare-2643029/

‘Yoga’: il male di vivere secondo Emmanuel Carrère in un romanzo che non parla, per fortuna, di yoga

Avrebbe dovuto intitolarlo Tai chi, ma si sa, lo yoga attira molto di più, è più famoso. L’idea di Carrère, in effetti, era proprio quella di scrivere un libro sullo yoga, anzi, “un libro arguto e accattivante sullo yoga”, che si sarebbe dovuto intitolare “L’espirazione”. Perché questa scelta?

Perché Carrère pratica da trent’anni, tra alti e bassi, nonostante lui stesso si definisca un “meditante della domenica”, e perché lo yoga vende e tira di brutto.

Infatti questo libro sta vendendo molto bene, tutti ne parlano, Carrère può esserne contento, lui e il suo ego enorme (se lo dice da solo, da sempre, ne è consapevole) anche se soffre per non essere famoso e acclamato come Michel Houellebecq, che infatti dice spudoratamente d’invidiare.

Yoga: sinossi

La vita che Emmanuel Carrère racconta, questa volta, è proprio la sua: trascorsa, in gran parte, a combattere contro quella che gli antichi chiamavano melanconia. C’è stato un momento in cui lo scrittore credeva di aver sconfitto i suoi demoni, di aver raggiunto «uno stato di meraviglia e serenità»; allora ha deciso di buttare giù un libretto «arguto e accattivante» sulle discipline che pratica da anni: lo yoga, la meditazione, il tai chi.

Solo che quei demoni erano ancora in agguato, e quando meno se l’aspettava gli sono piombati addosso: e non sono bastati i farmaci, ci sono volute quattordici sedute di elettroshock per farlo uscire da quello che era stato diagnosticato come «disturbo bipolare di tipo II».

Questo non è dunque il libretto «arguto e accattivante» sullo yoga che Carrère intendeva offrirci: è molto di più. Vi si parla, certo, di che cos’è lo yoga e di come lo si pratica, e di un seminario di meditazione Vipassana che non era consentito abbandonare, e che lui abbandona senza esitazioni dopo aver appreso la morte di un amico nell’attentato a «Charlie Hebdo».

Ma anche di una relazione erotica intensissima e dei mesi terribili trascorsi al Sainte-Anne, l’ospedale psichiatrico di Parigi; del sorriso di Martha Argerich mentre suona la polacca Eroica di Chopin e di un soggiorno a Leros insieme ad alcuni ragazzi fuggiti dall’Afghanistan; di un’americana la cui sorella schizofrenica è scomparsa nel nulla e di come lui abbia smesso di battere a macchina con un solo dito – per finire, del suo lento ritorno alla vita, alla scrittura, all’amore.

Solo una questione di marketing?

Yoga di Carrère si chiama così solo per una questione di marketing, e su questo ci sono pochi dubbi; è un libro che avrebbe dovuto parlare di yoga ma che non lo fa, e che quando sembra farlo, lo fa per i fanatici dello yoga, in modo superficiale.

Carrère, dice di meditare, fare yoga e tai chi da trent’anni, ma certamente conosce poco di questa pratica, cosa che non per forza deve andare a suo sfavore e infatti  liquida la mindfulness con quattro parole non rendendosi neanche conto di coltivare proprio la mindfulness, e non di meditare o praticare yoga in modo “ortodosso”.

Carrère non ne sa molto, e quando accenna due parole sulla mindfulness fa pure errori, scrivendo che il suo fondatore è uno psichiatra, cosa che non è, perché Jon Kabat-Zinn è un biologo. Poi insulta pure un certo Ram Dass“apostolo dell’LSD, che in età avanzata è diventato un vecchio guru della mindfulness”, definendolo uno yogi-barbuto-vegetariano-indossatore di sandali-babbeo-imbecille-pericoloso, che scrive libri brutti, stupidi e inutili, quei libri di autoaiuto che vendono tanto.

Insomma l’impressione è che lo scrittore francese si faccia anche beffe delle maeditazione, vantandosi di non saperne fino in fondo. E allora? Forse deve aver capito che per curare certi male meditare non serve a nulla, e che l’amore, l’erotismo, le cure farmacologiche, possano essere più efficaci. Essere ignoranti in materia di yoga non è un crimine, come una certa dose di stravaganza. Come se Carrère fosse il primo ad esercitarla, sebbene essere più informati non guasta mai.

Un ‘autobiografia riuscita a metà

Il risultato è un’autobiografia mal riuscita. E tutto perché Carrère considera -giustamente- i suoi pensieri troppo importanti, intelligenti, fondamentali, non capendo che per l’Oriente i pensieri vanno abbandonati, sono soltanto illusione, non hanno nessun peso, nessuna importanza, allontanano dalla realtà ultima, confondono, sono ignoranza, così come il desiderio, l’attaccamento.

Per Carrère la meditazione è niente più che “l’ennesimo giochino narcisistico. E questo mi rattrista”. E se non avesse torto? E se alcuni occidentali hanno semplicemente un complesso di inferiorità nei confronti degli orientali da questo punto di vista?

Lo yoga non è qualcosa che serve per mantenersi in forma, una ginnastica, e Carrère sembra averlo capito, ma anche lui pratica comunque per tenersi in forma e soprattutto per provare a gestire la propria mente. E cosa ci sarebbe in fondo di male in questo:

“Trovo che sia già molto conquistarsi con la meditazione un po’ di stabilità psichica e di profondità strategica”. 

D’altronde non è tanto utile e produttivo entrare troppo in sè stessi: meditare è un atto egoistico. Mira a concentrarsi in un vuoto interiore, guardando sè stessi, sulla propria presunta forza interiore lasciando gli altri, l’amore (come ci dice lo scrittore francese) e il trascendente fuori dalla porta. Il modo migliore invece è proprio farlo entrare invece di perseguire come ossessi questa moda che sta spopolando.

 

Fonte Dejanira Bada

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