‘Vita in Egitto’ di Enrico Pea. Racconto da dove è partita la rinascita della letteratura italiana

Nel 1949, la Mondadori pubblica Vita in Egitto di Enrico Pea. Nonostante da decenni manchi una ristampa, questo titolo ha un’importanza capitale non soltanto per il gran pezzo di letteratura che rappresenta, ma anche per l’incredibile testimonianza che contiene.

In queste pagine, infatti, Pea fa un resoconto estremamente espressivo e concreto degli anni da lui vissuti in Egitto, per esattezza ad Alessandria, gran metropoli mediorientale. In questa opera lo scrittore seravezzino ci fa dono di pagine roventi; questo non solo in virtù dell’arido sole alessandrino, che tanto volentieri cuoce la carne degli uomini, ma anche per il turbinio di passioni politiche, amorose, artistiche e religiose che muovono le zone più umili della città, e che sono racchiuse in questa opera.

Alessandria d’Egitto durante l’inizio del XX secolo

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, Alessandria d’Egitto è un brulichio di razze e culture diverse: vi si trovano greci, arabi, copti, spagnoli, russi, ebrei e italiani, tutti mossi verso questa metropoli mediterranea per motivi diversi. Per quanto riguarda gli italiani (ma non solo), i motivi più stringenti sono sostanzialmente due: la ricerca di un lavoro e la politica. Proprio per quest’ultimo motivo, è presente una rete anarchica molto organizzata sul territorio. Non ci vuole molto tempo che il giovane Pea viene “iniziato” all’anarchia da Pilade, pisano, fuggito dall’Italia a causa di una condanna pendente sulla sua testa:

“Da Pilade ebbi la prima lezione sulla “società futura”. Fui chiamato “simpatizzante” che è il primo grado (anche l’anarchia ha i suoi gradi), “compagno” lo sarei diventato più tardi. Alto. Magro e di pelle rossa. Autoritario. Pilade metteva soggezione”.

Enrico Pea mette su un luogo che sembra essere la rappresentazione vivida di questa temperie alessandrina, ovvero la “baracca rossa”, «tumultante ritrovo di gente d’ogni risma e d’ogni nazione».

Trama e contenuti

È nella baracca rossa che si riuniscono, ogni giorno, tutte le teste calde della città, ed è proprio qui che Pea fa la conoscenza con il giovane Giuseppe Ungaretti. È a questo punto, quindi, che è necessario chiarire la natura di questo anarchismo, così diffuso nei bassifondi di Alessandria d’Egitto e nel libro. Non c’è da pensare, infatti, che tutti coloro che si professano anarchici, o che frequentano la baracca rossa, siano realmente degli ideologi formati sulle idee sovversive di un Proudhon o di un Bakunin.

Molto più spesso, si tratta di un vago istinto ribelle nei confronti della borghesia e di tutto ciò che sembra limitare la libertà individuale. Esempio lampante di ciò, è proprio Ungaretti, poiché «non era tutto di eguaglianza e di pane, l’affanno delle sue battaglie, ché in quell’arroventarsi c’era anche la voglia di svincolarsi dalle leggi borghesi: il desiderio d’impossessarsi del mondo. Era un agitarsi senza misura e senza meta: rompere intanto, con la furia dei giovani, per vedere com’è fatta la vita.»

Un racconto concreto privo di idealismi

In altri casi ancora, a far scaturire la fiamma della ribellione è solo un vago risentimento sociale, dovuto principalmente alla propria condizione di indigenza.

Non è un caso che proprio uno dei più forti esclamatori delle dottrine anarchiche, ovvero Pilade, una volta arricchitosi, abbia archiviato senza troppi problemi le sue vecchie passioni politiche. Superata la tragica morte del primogenito, Guidino, Pilade infatti riesce a far fortuna, assicurando a lui e alla moglie Argia una vita agiata:

“Se l’Argia avesse ancora Guidino oggi Guidino (lontano dal farsi regicida) sarebbe laureando, in qualche scienza. E se l’Argiaavesse avuto anche una figliola, la figliola suonerebbe il piano nel salotto buono nei giorni di ricevimento.”

Non è un racconto, quello di Pea, viziato da sentimentalismo o idealismo di alcuna sorta. Concreto e aderente alla realtà, come suo solito, non indora alcuna pillola, non distorce i fatti in nome di chissà quale verità. Non di rado, la narrazione si fa cinica e cruda, in particolare quando va a descrivere i vezzi e le manie degli abitanti del luogo da lui conosciuti.

Le famiglie greche, spagnole, ebree, i lavoratori arabi… ognuno di questi gruppi è come se avesse delle caratteristiche archetipiche. Gli ultimi menzionati, ad esempio, sono rappresentati quasi all’opposto dei sovversivi italiani: remissivi alle forze pubbliche e ai “padroni”, religiosi fino quasi alla superstizione.

Un parallelismo con Ungaretti

Il contrasto ben si avverte in uno degli episodi narrati nel libro, in cui l’autore, appena sbarcato in Alessandria, vedendo un arabo picchiato da un poliziotto, si butta in mezzo per difenderlo. Oltre a essere stato picchiato a sua volta, Enrico Pea subisce pure il dileggio degli altri arabi, divertiti dal suo altruismo considerato assurdo.

D’altra parte, la superstizione dei lavoratori arabi è ampiamente usata contro di loro. Un esempio è costituito dalla madre di Ungaretti, che per svegliare i suoi braccianti nel cuore della notte per impastare il pane, libera un suino nei loro alloggi. Questi, considerando l’animale demoniaco, ai suoi grugniti si destano spaventati a morte e docili come agnellini. Anche in questo caso, però, non si deve pensare che l’intento dell’autore sia quello di ridicolizzare le credenze religiose, tutt’altro. Se c’è un filo rosso che accompagna tutto Vita in Egitto, infatti, quello è proprio la ricerca spirituale. Per spiegarsi meglio, però è necessario dire qualcosa in più sulla struttura del libro.

Il racconto è steso in maniera apparentemente disordinata, con pochissimi punti di riferimento cronologici. Pea passa senza problemi da un argomento all’altro, mosso da suggestioni, ricordi, emozioni. Eppure, ogni divagazione prende un significato preciso, se il libro viene preso nella sua globalità.

La figura di Giuda

Ad accompagnare quasi tutti gli episodi narrati da Pea, infatti, è il fantasma di Giuda Iscariota. Lo scrittore seravezzino vuole chiarire al lettore la genesi del primo personaggio da lui messo sulla scena, nella sua opera teatrale più blasfema e dissacrante. «Riabilitare Giuda», questa la folle idea che Enrico Pea partorisce: una simile bestemmia non poteva che avere i natali in un luogo di bestemmiatori.

Eppure, nonostante gli anarchici, nonostante il materialismo imperante, tutto sembra dover portare a una riflessione sulla Fede: in visita a casa dei fratelli Thuil con Ungaretti, tra tutti i libri rari da questi posseduti, l’unico che attrae Pea è la bibbia della loro nonna; a lavoro e negli ambienti anarchici, si ritrova ad essere l’unico amico e il protettore di Pipicco, giovane spagnolo devotamente cattolico; nel cimitero civile, una volta seppellito il figlio di Pilade, viene disgustato dalle chiacchiere eccessivamente materialiste del custode.

Non c’è da meravigliarsi, quindi, se Vita in Egitto comincia con la volontà di redimere Giuda Iscariota e finisce con la recita di una messa francescana.

Imbarcato sulla nave di ritorno in Italia, l’autore si imbatte nei preparativi di una messa. Chiede al marinaio se quella fosse una messa regolare, come quelle officiate in chiesa, e questo gli risponde che un gruppo di soriani cattolici si era portato con sé un prete, proprio con lo scopo di non saltare la liturgia nel lungo viaggio che li avrebbe portati in America.

Pea decide di assistere alla messa, per curiosità. Il marinaio, credendolo credente, gli accosta una sedia, nel caso volesse inginocchiarsi durante il rito. Pea, confuso e sdegnato da questa incomprensione, si trattiene dal rispondergli con male parole. Parte la messa, Pea ne rimane come stregato:

“E quando l’officiante si rivolse: aperse le braccia e disse: «Ita, missa est.» E gli emigranti si levarono in piedi, mi avvidi che anch’io avevo poggiato i ginocchi sulla sedia messa lì a bella posta in quel modo, dal marinaio, alle cui parole poc’anzi avevo provato superbia, confusione, sdegno.”

 

Fonte

Nicolò Bindi

Leda Rafanelli, una donna da scoprire: l’anarchica musulmana per cui la letteratura come il luogo dove far liberamente giocare e portare in primo piano interrogativi, problemi, conflitti tipici della condizione femminile

Anarchica e musulmana, frequentava la moschea come i circoli anarchici in cui si predicava l’ateismo. Leda Rafanelli ha combattuto tutta la vita per l’affermazione della figura femminile all’interno della società, predicandone l’emancipazione. Scrittrice, attivista, giornalista ed editrice, riuscì ad essere contemporaneamente amica di anarchici, rivoluzionari, futuristi e fascisti. Tutto questo fa di lei una donna da scoprire. Lo scrittore toscano Enrico Pea (1881-1958), nel suo romanzo autobiografico Vita in Egitto (1949), rievocò il proprio noviziato anarchico alla Baracca Rossa di Alessandria d’Egitto, in via Hammam-El-Zahab, “tumultuante ritrovo di gente di ogni risma e d’ogni nazione”, da lui frequentata insieme al giovane Giuseppe Ungaretti. Il narratore rammentava i nomi degli anarchici italiani ivi conosciuti,- Pilade Tocci, Icilio Ugo Parrini e Pietro Vasai– le loro vicissitudini, le loro interminabili dispute sull’ateismo e sul materialismo cui i giovani Pea e Ungaretti spesso opponevano una diversa, più poetica e spiritualistica visione della vita.

Il movimento anarchico italiano in Egitto era uno dei ceppi più antichi e robusti tra quelli della nostra emigrazione all’estero. Le migliaia di lavoratori-formiche che dall’Italia erano andati in Egitto al tempo dello scavo del canale di Suez (1859-1869), erano rimasti nel paese e vi avevano avviato botteghe artigiane o piccoli commerci. Molti erano i toscani: di Firenze, Lucca, Pisa, Livorno e della rossa Versilia. Fra di loro erano passati Amilcare Cipriani, ancor prima della Comune di Parigi, e più tardi Errico Malatesta, incitante gli arabi alla resistenza contro l’occupazione inglese dell’Egitto del 1882. Il primo giornale internazionalista di lingua italiana uscito all’estero fu Il Lavoratore, pubblicato ad Alessandria d’Egitto nel 1877, cui seguirono altri fogli socialisti. Al principio del Secolo Ventesimo Leda Rafanelli, in seguito ad una disgrazia familiare di cui non amava parlare (forse il padre in carcere per un certo tempo), venne condotta ad Alessandria d’Egitto presso una famiglia amica. Ella era nata a Pistoia da genitori livornesi il 4 luglio 1880 ed aveva circa vent’anni. Suo nonno era figlio illegittimo di uno zingaro arabo e fin da bambina si era sempre sentita straniera in patria, ammalata di esotismo, anelante all’Africa e all’Oriente. Il breve soggiorno in Egitto, appena tre mesi, le bastò per assorbirne il profumo e sentirne la nostalgia per tutta la vita. In Egitto ebbe anche occasione di assistere alle persecuzioni contro gli anarchici suoi conterranei, colpevoli secondo la polizia locale di aver progettato un attentato contro il Kaiser germanico Guglielmo II di Hohenzollern in visita da quelle parti (in effetti si trattò di una montatura per giustificare l’imprigionamento e poi l’espulsione di alcuni anarchici europei dall’Egitto).

Da Alessandria Leda Rafanelli tornò in Italia rigenerata nel corpo e riplasmata nello spirito. Convertitasi all’Islam e all’Anarchismo, ella farà di queste due fedi incrociate il distintivo del suo impegno culturale, caratterizzato da una visione religiosa e mistica della vita. La sua religiosità, inscalfibile e profondamente sentita, tollerata dai compagni atei come una perdonabile ma alquanto bizzarra stranezza, fu a sua volta tollerantissima della loro miscredenza. Infine la quintessenza d’arabismo filtrata durante l’esperienza alessandrina, col tempo trasse nuova linfa dallo studio delle antiche civiltà egizie e della stessa lingua araba, dal sopravvenuto interesse per le scienze occulte, per l’astrologia e la magia e da una crescente attrazione verso tutto il mondo orientale, anche ebraico ed indiano. In quel mondo Leda fantasticamente si riconosceva e si muoveva come in uno specchio o in un globo di vetro. Era il rimpianto di un passato perduto (quello dei suoi avi o addirittura, com’ella credeva, delle sue vite vissute) oppure la ricerca dell’utopia da contrapporre anarchicamente all’Occidente moderno del Capitale, già allora incamminato verso l’amara china della spersonalizzazione e dell’omologazione.

Da quel momento iniziò il suo stravagante modo di abbigliarsi all’araba, di cibarsi secondo le usanze arabe e le regole coraniche, di circondarsi di tutte le possibili araberie. Il punto d’intersezione fra Islam e Anarchismo venne istintivamente trovato nell’assoluta indifferenza per i problemi economici e pratici (il denaro, l’alloggio, l’approvvigionamento), nella allegra disponibilità per tutte le situazioni, anche le più scomode e precarie, nell’incertezza del domani come regola dell’oggi, nel vivere dell’aiuto altrui, mai preteso, sempre gradito e sempre generosamente ridonato. Insomma una zingara anarchica, secondo la definizione dello storico Pier Carlo Masini: questo fu Leda Rafanelli. Quando la giovane tornò in Italia, inebriata d’oriente e d’anarchia, si stabilì a Firenze. La sua cultura era quella di una autodidatta intelligente che, avendo fatto l’apprendista in tipografia, nel comporre a mano aveva immagazzinato vocabolario, classici, storia, grammatica, sintassi, geografia e scienze. Il suo primo maestro d’anarchia era stato un compagno di lavoro, pratese, concittadino di Gaetano Bresci, il cui gesto recente era stato quello del seminatore di nuovi proseliti.

Indirizzata da questo compagno Leda Rafanelli cominciò a frequentare l’ambiente della Camera del Lavoro di Firenze, dove poté incontrare gli ultimi superstiti della Prima Internazionale, come il contadino Giuseppe Scarlatti e i coniugi Pezzi, la più avventurosa coppia dell’anarchismo italiano. Vi incontrò anche Luigi Polli, un giovane anarchico già conosciuto in Egitto ed ora rimpatriato. I due si amarono e si sposarono. Nacque la “ditta” Rafanelli-Polli, una casa editrice all’insegna dell’anarchismo. Gli opuscoli che uscirono dai torchi anarchici fiorentini – uno stanzone in Via dei Papi, nel rione di Santa Croce e una rivendita in Borgognissanti – rifornirono di nuovi testi la propaganda del movimento. Il pamphlet di Leda Contro la scuola (1907), che anticiperà le analoghe invettive papiniane, ebbe un grande successo e fu ripreso a puntate sul giornaletto di Ostiglia Luce! (1900-1909), del quale il giovane Arnoldo Mondadori era uno dei redattori.

“Riscuote in pubblico fama di persona piuttosto libera nella condotta morale, anche per i suoi principi di libero amore. Ha intelligenza svegliata e cultura superiore alla media acquistata con la lettura assidua e con l’assimilazione di libri, opuscoli, riviste sociologiche. Ha frequentato appena le scuole elementari”.

Così cominciava, in data 4 agosto 1908, una lunga scheda di Pubblica Sicurezza conservata presso l’Archivio Centrale dello Stato intestata per l’appunto a Leda Rafanelli.

L’atteggiamento di Leda nei rapporti con i compagni anarchici e di altri partiti si caratterizzò per la sua mancanza di settarismo e per la sua tolleranza: “Devo dire, a mia lode, che sono stata immune da settarismo anche a quei tempi che era di moda. Collaboravo su tutti i giornali di propaganda, qualunque fosse il loro partito politico. Parlavo nei comizi a fianco di compagni di ogni tendenza”. Le analisi politiche e sociali condotte da Leda nei suoi articoli erano spesso acute ed originali, tanto da mettere in discussione le rigide categorie di pensiero che, soprattutto in tema di morale, circolavano anche fra gli anarchici e i socialisti. In particolare esse si distinsero per una insolita attenzione al punto di vista delle donne rispetto ai vari problemi affrontati: per esempio, pur allineandosi con l’anticlericalismo – mai con l’ateismo – professato generalmente dagli anarchici, Leda cercò di approfondire l’analisi delle ragioni che spingono soprattutto le donne a frequentare la chiesa – e ritenne che non fossero ragioni disprezzabili: derivavano da un lato dalla solitudine in cui le donne sono lasciate dai mariti, che nel tempo libero dal lavoro si dedicano preferibilmente al vizio del bere; dall’altro dal bisogno che esse hanno di confronto spirituale, data la loro maggiore ricchezza interiore rispetto agli uomini.

Leda Rafanelli, oltre che polemista, si scoprì narratrice e iniziò a pubblicare racconti e bozzetti, tutti ispirati alla protesta sociale. Fu una prima fase, un po’ ingenua, con molte concessioni alla propaganda spicciola e al bozzettismo strappalacrime. Ma nel 1905 da questo erbaio spuntò il primo arbusto: il romanzo Un sogno d’amore, che ricevette le lodi di Paolo Orano sull’Avanti! (e più tardi anche una traduzione in spagnolo). Leda aveva venticinque anni. Il suo nome era già noto nelle file del movimento anarchico. Armando Borghi le chiese una presentazione di alcuni suoi scritti, ed effettivamente ella redigerà la prefazione del suo libello Il nostro e l’altrui individualismo (1907), il primo attacco borghiano contro il superomismo nicciano; Pietro Gori ne apprezzò le qualità e la considerò come una sorella, una stima che Leda contraccambierà con la venerazione. La sua sfrenata produzione di articoli inondò la stampa libertaria e fiancheggiatrice; per i tipi Rafanelli-Polli uscì a Firenze anche una rivista, La Blouse (1906-1910), tutta compilata da “autentici lavoratori del braccio”. Intanto i rapporti tra Leda e Luigi Polli, ottimi sul piano politico, si raffreddarono su quello affettivo.

Dopo una breve relazione con il giornalista spoletino Piero Belli (1882-1957) che più tardi passerà all’interventismo corridoniano e al fiumanesimo, fu decisivo nella vita della Rafanelli l’arrivo a Firenze del giovane aretino Giuseppe Monanni (1887-1952), al quale il buon Polli lasciò subito libero il campo, conservando per Leda una calda e lunga amicizia. Anche Monanni era tipografo e anarchico ma di un anarchismo più affinato ed esigente che valse a trarre Leda dal minuto populismo a dispense fino a quel momento coltivato. Spirava allora in Italia da qualche anno un vento di novità che, dietro i nomi di Max Stirner e di Nietzsche, aveva investito anche il movimento anarchico, scomponendone le file. L’accento passò dalle masse all’uomo, anzi al superuomo, dall’eguaglianza alla libertà, dalla rivoluzione sociale alla rivolta individuale. Il Monanni, sensibile a questi richiami, li assimilò fondando a Firenze, povero ma ventenne, la rivista Vir (luglio 1907-maggio 1908), un titolo che era già un programma. La riproduzione di molti articoli di Giovanni Papini e l’esaltazione di Gabriele D’Annunzio per la tragedia Più che l’amore (1906), il cui protagonista è l’eroe Corrado Brando, erano rivelatori di una nuova tendenza. Nasceva l’anarco-individualismo.

A metà del 1908 Monanni e Leda vennero chiamati a Milano da un’altra coppia che fece storia a sé nelle vicende dell’anarchismo italiano: Ettore Molinari e Nella Giacomelli. Molinari era docente di chimica al Politecnico e la Giacomelli, istitutrice dei suoi figli, curava la pubblicazione del giornale Il Grido della Folla (1902-1907), seguito poi da La Protesta Umana (1906-1909). La linea di questi giornali fu quella dell’individualismo d’azione e dello scontro frontale con le Istituzioni borghesi, sfidate con violenti articoli e proposte spericolate. La coppia milanese si rivolse a Monanni e alla Rafanelli che conoscevano il mestiere e già collaboravano da Firenze ai due periodici. Giunti a Milano, la Rafanelli e Monanni, mentre diedero volentieri una mano a La Protesta Umana, continuarono in autonomia la loro originale esperienza e fondarono una nuova rivista già concepita a Firenze come continuazione di Vir. La intitolarono Sciarpa Nera (1909-1910) e subito assurse ad emblema dell’individualismo stirneriano. Ma si trattò di un individualismo diverso da quello di Molinari e Giacomelli, meno follaiolo e meno barricadiero. “Dunque”, scriveva Bruna (che è il secondo nome di Leda) sul terzo numero della rivista,

“Milano rumorosa, città più di attrito che di lavoro, di foga più che di volontà, di sport più che di arte, di abilità più che di sapienza, sia pure considerata come il cervello d’Italia; ma noi faremo la distinzione fra la materia e la sua esplicazione spirituale ed esalteremo quest’ultima”.

Nel corso del 1909 Monanni acquisì la Società Editrice Milanese che si trasformò in Casa Editrice Sociale. Fu questo il più grande sforzo editoriale degli anarchici italiani, con una produzione di qualità tecnica elevata e di buon livello culturale (una edizione de L’Unico di Stirner, de L’Anticristo di Nietzsche, scritti di Kropotkin e di Gori tra gli altri). Monanni come editore ebbe fiuto e una solida base di conoscenze letterarie, filosofiche, sociologiche. Le spese furono limitate dato che Monanni e Leda componevano personalmente i libri da stampare, ma l’organizzazione commerciale si dimostrò pessima. Così l’impresa navigò sempre in mezzo ai debiti e alle cambiali, senza requie, per altri quindici anni. Un pittore non ancora famoso disegnò il marchio della Casa Editrice Sociale: un volto demoniaco di ribelle anguicrinito con il motto “che solo amore e luce ha per confine”. L’artista si chiamava Carlo Carrà, era stato militante anarchico a Londra alla fine del secolo precedente e a Milano continuò a frequentare i gruppi anarchici, quello de La Protesta Umana e quello di Sciarpa Nera (per i due periodici egli fornì la sua collaborazione in qualità di grafico).

Fra Leda Rafanelli e il pittore nacque un rapporto di simpatia, forse una breve avventura sentimentale. Carrà stava lavorando al grande dipinto I funerali dell’anarchico Galli (1910-1911) che segnò il suo passaggio al futurismo. Era in atto una curiosa convergenza per nulla occasionale fra anarchismo e futurismo: Carrà disegnò la testata del giornale anarchico di Parma La Barricata (1912-1913), diretto dall’anarco-futurista Renzo Provinciali, mentre Filippo Tommaso Marinetti collaborò alla rivista La Demolizione (1907-1911) pubblicata dal sindacalista rivoluzionario Ottavio Dinale (1871-1959) ad Annemasse, in Alta Savoia, ed in seguito a Milano (su entrambi i periodici apparve anche la firma della Rafanelli). Significative furono nel periodo anteguerra le interferenze e le contaminazioni tra individualismo stirneriano-nicciano, sindacalismo, sovversivismo irregolare ed inclassificabile, follajolismo alla Paolo Valera. La coppia Monanni-Rafanelli “fuori da ogni circolo, libera da ogni legame, immune da ogni contagio”– così i due si definirono, vi passò in mezzo, curiosa ed eccitata, senza perdere niente della sua autonomia e della sua originalità.

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, la Rafanelli partecipò attivamente alla campagna antimilitarista mentre Monanni, disertore alla chiamata alle armi, riparò in Svizzera. I rapporti fra i due interrotti sul piano affettivo e familiare non si turbarono su quello politico e la collaborazione continuò nel lavoro editoriale e nella propaganda. La Rafanelli aveva ora un nuovo compagno nel falascià Emmanuel Taamrat. I falascià erano uno sparuto gruppo etnico di stirpe ebraica e di lontana origine assiride, trapiantato da secoli in Etiopia e là perseguitato dal governo imperiale di Addis Abeba e dai dignitari della chiesa cristiano-copta. La Rafanelli, avendo conosciuto a Milano il pubblicista ebreo Raffaele Ottolenghi, ex diplomatico e conoscitore dei problemi africani ed asiatici (anch’egli aveva soggiornato per qualche tempo in Egitto), socialista, collaboratore di Critica Sociale e dell’Avanti!, si era fatta con lui promotrice di una campagna di solidarietà verso l’etnia falascià. E uno di essi, Emmanuel Taamrat per l’appunto, capitato non sappiamo come a Milano, ella aveva accolto in casa sua per qualche tempo come amico e in seguito come compagno di vita. Fu in quell’epoca che Leda ebbe occasione di conoscere Filippo Turati e Anna Kuliscioff.

Nel dopoguerra l’attività editoriale di Rafanelli e Monanni riprese con rinnovato vigore e maggior fortuna, favorita dal momento politico. La Casa Editrice Sociale sfornò decine di libri: l’opera omnia di Nietzsche in undici volumi (di cui Leda corresse tutte le bozze), opere di Kropotkin, Morris, Malatesta, Darwin, Mackay, Palante. Giuseppe Rensi vi pubblicò il saggio Il materialismo critico (1927), Antonio Graziadei Capitale e colonie (1927). Monanni ebbe soprattutto il grande merito di aver per primo fatto conoscere agli Italiani nella loro lingua un’opera capitale come La psicologia delle folle (1895) di Gustave Le Bon, tradotta e pubblicata nel 1925.

Pure Leda Rafanelli dette un suo personale contributo alle edizioni con un nuovo romanzo, L’eroe della folla (1920), e con una raccolta di novelle, Donne e femmine (1922). Nel 1923 l’attività subì un duro colpo in seguito a una spedizione fascista che distrusse la sede di Viale Monza, “covo di anarchici”. Ora si bruciava L’Unico di Max Stirner insieme a La Comune di Louise Michel, Le parole di un ribelle di Petr Kropotkin insieme alla Storia di un ruscello di Elisée Reclus: gli autori che Mussolini un tempo aveva amato ed elogiato. Ciò malgrado l’impresa risorse dalle ceneri e continuò la sua attività mutando nome in Casa Editrice Monanni (1924), grazie alla stima e all’amicizia nonché al sostegno fattivo e all’appoggio concreto che alcuni sindacalisti rivoluzionari come Angelo Oliviero Olivetti e Agostino Lanzillo manifestarono verso l’editore. In una collana di romanzi che Monanni pubblicò nella seconda metà degli Anni Venti (opere di Maksim Gorkij, Michail Artzybaschev, Jack London, Upton Sinclair, Han Ryner, Octave Mirbeau, Aleksandr Kuprin, Lydia Sejfulina, Aldous Huxley), Leda Rafanelli redasse sotto lo pseudonimo di Etienne Gamalier, fingendosene traduttrice, un romanzo anticolonialista: L’oasi. Romanzo arabo (1929).

Leda Rafanelli aveva allora quasi cinquant’anni ma purtroppo la sua vita pubblica stava per finire. Vivrà ancora per altri quaranta, in ritiro, fra angustie economiche e familiari (la morte del figlio Aini, “occhi miei” in lingua araba, Marsilio, nel 1944). Scriverà di tanto in tanto racconti per ragazzi, poesie, romanzi da riporre nel cassetto, molte lettere agli amici. Nada, La signora mia nonna, Le memorie di una chiromante – tutti testi inediti – sono il commovente tentativo di lasciare una testimonianza di sé e di alcuni frammenti, spesso dolorosi, della sua vita, come la turbolenta fine della relazione con Monanni, la morte del figlio, le ristrettezze economiche nelle quali è costretta a vivere. Questi scritti, concepiti in forma di romanzo, se da un lato danno la possibilità di conoscere qualcosa dell’esistenza raminga di Leda, riflettono dall’altro l’immagine di una donna animata dalla volontà di non scomparire dalla scena, la sua convinzione di volere e di potere dire ancora qualcosa di sé. E questa volta è proprio al privato, al suo modo di essere e di vivere, alle sue passioni che Leda attribuisce importanza e valore di documenti, non solo per se stessa: l’uso dell’autobiografia romanzata, e non del diario, è un segno che la scrittrice prevedeva ancora dei destinatari.

Leda concepisce la letteratura come il luogo dove far liberamente giocare e portare in primo piano interrogativi, problemi, conflitti tipici della condizione femminile e che lei stessa sperimenta in prima persona. Se nei suoi scritti di propaganda militante sull’emancipazione femminile ella sostiene che i reali mutamenti nella vita delle donne avverranno in seguito a trasformazioni in primo luogo culturali, nella sua narrativa Leda Rafanelli ci immerge nel vivo delle contraddizioni che l’essere donna comporta, offrendoci stimoli ancora attuali. I primi suoi romanzi (Un sogno d’amore, 1905; Seme nuovo, 1912; L’eroe della folla, 1920) raccontano storie di donne che si dedicano a tempo pieno alla propaganda anarchica, emancipate, intelligenti e spesso intellettuali, ribelli e protagoniste della propria vita. Così Vera, l’eroina di Seme nuovo “era passata attraverso quella febbre di movimento, rafforzando il pensiero, elevandolo, spogliandolo sempre più dai pregiudizi della educazione antica, ricostruendo in sé senza saperlo una nuova morale al posto di quella che demoliva”. Vera è “la donna ribelle; la donna che si è saputa elevare al di sopra della massa delle incoscienti del suo sesso, e discute, nega, afferma alla coerenza delle idee innovatrici”.

Non è facile conciliare la donna rivoluzionaria di questa prima produzione narrativa con quella “orientale” delle ultime opere edite (Incantamento, 1921; Donne e femmine, 1922; la succitata L’oasi, 1929), della quale viene celebrata proprio la capacità di obbedienza, di dolcezza e di sottomissione (Islam in arabo significa per l’appunto “sottomissione di sé a Dio”, come ci ha ricordato Michel Houellebecq), che vive solo per l’amore e per la quale non sembra esistere altra dimensione della vita se non quella racchiusa tra le mura domestiche. Frequenti si fanno, nella seconda fase della produzione narrativa di Leda, espressioni come questa, tratta da L’oasi:

“Che cosa siamo noi, povere donne, per i nostri maschi audaci e forti? Siamo piccole cose, dolci e discrete, che le cose grandi trascinano come il vento trascina la sabbia! Siamo le lampade della casa, le schiave obbedienti che accolgono con gioia il loro amore impetuoso e selvaggio”.

Il percorso che ha indotto la Rafanelli ad abbandonare la primitiva visuale per aderire al mito idealizzato della donna araba può essere motivato da una sua personale evoluzione nel privato, in quanto, proprio per la intensa commistione tra letteratura e vita di cui si è parlato, e del quale il suo non è certo un caso unico in quest’epoca-si pensi alla vita e alle opere di Gabriele D’Annunzio-l’elemento autobiografico è sempre presente nella sua narrativa. Già le protagoniste dei suoi primi romanzi (Anna di Un sogno d’amore e Vera di Seme nuovo) non sembrano molto differenti dalla giovane Leda Rafanelli militante anarchica, articolista, attivista e propagandista; la capacità di analisi e l’autonomia di posizione che Leda mostra nelle colonne dei giornali su cui scrive e che spesso fonda e dirige, appartengono anche alle protagoniste che ella rappresenta. Queste ultime non hanno dubbi sulla loro scelta rivoluzionaria e nel dibattito politico tengono testa agli stessi compagni. Non solo; esse non hanno bisogno di nessun mediatore per riconoscere la giustezza delle idee che professano. A differenza di molte figure femminili della narrativa del tempo, le eroine della Rafanelli non scoprono la politica perché incontrano un uomo: l’opposizione, nei suoi romanzi, non si pone tra uomo e donna, ma tra gli oppressori e chi, indipendentemente dal sesso, lotta per l’affermazione dei propri ideali rivoluzionari. Si ribalta dunque un cliché, non solo letterario, che prevede l’iniziativa maschile per l’accesso della donna ai temi sociali e politici. Probabilmente questa dovette non solo essere la convinzione letteraria di Leda Rafanelli, ma anche coincidere con la sua esperienza prettamente personale, che si presenta, per i dati che abbiamo visto, difficilmente inquadrabile in un ruolo subalterno.
Ma già in questi primi romanzi, si può notare che l’esperienza dell’amore-passione introduce la contraddizione e la scissione all’interno della figura femminile stessa:

Magda sembrava una donna del passato e Vera era una donna dell’avvenire. Ma in ambedue era anche qualcosa che sminuiva l’apparenza. Vera aveva ancora in sé la passione sensuale dell’anima latina, mentre Magda, rinunciando a tutto quello che per l’amica era la vita, aveva saputo liberarsi dalla schiavitù dei sensi e dell’amore. In questo era più ribelle dell’altra, di Vera, completamente schiava dell’istinto, donna forte nel pensiero e nell’azione di fronte alla società e alle leggi e pronta a tornare femmina non appena vicina a un maschio” .
(Seme nuovo)

Da una parte i sentimenti “naturali” delle donne (l’amore, la gelosia, la maternità) sono valutati negativamente, sentiti come una perdita d’indipendenza, come una forza capace di riportare la donna al suo atavico stato asinino di soggezione, e soprattutto sono interpretati come inaccettabili distrazioni che allontanano dal lavoro-missione di propaganda politica:

“Sentì tutta la miseria dei sensi, la miseria che rende schiavi i maschi e le femmine, che fa piegare gli individui a vergogne rimpiante, a bassezze odiose. E si stupì quasi di conoscere che anche lei, in certi momenti, non era che una femmina; che la sua intelligenza superiore, la sua volontà plasmata di forze cedevano quasi senza lotta al primo assillo di un desiderio sensuale. E ne restò umiliata”. (Seme nuovo)

Ma d’altra parte le protagoniste dei romanzi di Leda Rafanelli sono donne molto sensuali e passionali e Leda stessa dedica nei suoi testi un grande spazio e una grande attenzione a questa dimensione del privato femminile e soprattutto all’intreccio fra tempestosa vita personale e intenso impegno politico. Se nei suoi primi romanzi, opere di propaganda anarchica, caratterizzati da scarsissima cura formale e dall’uso di schemi tipici della letteratura di consumo, la contraddizione si risolve tutta a favore di ciò che l’ideologia anarchica prevede per la donna emancipata, con la rinuncia delle protagoniste alla loro vita privata e l’adesione totale all’immagine pubblica e ideologica, è anche vero però che Leda dovette interrogarsi a lungo sulla scissione pubblico-privato, intravvista come specificità insita nel destino femminile. Probabilmente è sul filo delle sue riflessioni che elaborò negli ultimi romanzi il mito della donna araba. Una delle tracce più importanti che guidano l’elaborazione di questo mito è l’affermazione che le donne, non meno degli uomini, hanno diritto ad una vita sessuale felice. In questo Leda è voce originale anche fra le emancipazioniste radicali, che per lo più, in tema di sessualità, pudicamente tacciono.

Convinta che tutte le donne, anche quelle non belle, debbano avere spazio per l’espressione della loro sessualità, Leda ritiene in un primo momento che la soluzione stia nel libero amore, tema cardine dell’etica anarchica:

Il diritto all’amore diverrebbe nella società egualitaria il privilegio per chi la natura ha favorito della bellezza? No, ci voleva per l’avvenire l’amore per tutti come ci voleva per tutti il pane e il lavoro. […] L’amore in comune, la completa distruzione della famiglia, il ritorno alla primitività del possesso…” (Un sogno d’amore).

Più tardi Leda Rafanelli si convince però che non sono le questioni estetiche a determinare il problema della sessualità femminile, ma più sostanziali questioni di civiltà: nel mondo occidentale non è possibile che la donna viva per intero la sua vita sessuale. Anche per questo nel mito arabo degli ultimi romanzi sembrano vivere a proprio agio soprattutto le donne: qui esse sono in presa diretta con una parte di sé più profonda e naturale, qui possono interrogarsi sulle loro passioni e i loro sentimenti e confrontarsi con una istintività e una autenticità che la civiltà occidentale ha ormai debellato, rimosso o codificato in rigide ed asettiche regole comportamentali. Tuttavia anche la scelta di un’altra civiltà sembra non lasciare scampo al destino fatale e biologico delle donne, la maternità:

“Comprese che una legge di dolore incatenava tutte le povere donne l’una all’altra, in una solidarietà di sesso! Una legge di natura che piega a terra, le costringe a pagare-esse sole-il piacere che hanno goduto in due” (Donne e femmine).

Il finale de L’oasi, che rappresenta un bambino e due donne sole di fronte al mare, è quasi un appello alla solidarietà femminile come possibilità intravista per alleviare il peso di un destino che rimane tragico. In buona sostanza, la Rafanelli va senza dubbio inscritta, per il suo marcato orientalismo, nella cerchia di quegli intellettuali che, da Giuseppe De Lorenzo, primo traduttore italiano dei discorsi di Buddha, al teosofo Giuseppe Tucci, a Giovanni Papini, studioso di esoterismo negli anni in cui fu direttore del Gabinetto Vieusseux a Firenze, coltivarono interessi non superficiali per la teosofia. In ogni caso, almeno sul piano concreto, neppure la fine del fascismo le restituì la forza per rituffarsi concretamente nell’impegno civile e politico. Solo negli ultimi anni di vita si risvegliò in lei una rinnovata passione civile. Scrisse negli Anni sessanta alcuni suoi ricordi per il giornale Umanità Nova diretto da Mario Mantovani, suo vecchio compagno degli anni milanesi. Ritrovò la sua vena di scrittrice, aiutata da una memoria prodigiosa. Ella ripercorse e rievocò fino agli ultimi giorni in lunghe lettere agli amici più intimi il lontanissimo passato, la sua primavera fiorita fra le rive del Nilo e le ciminiere di Sesto San Giovanni. Morì a Genova il 13 settembre 1971.

 

Bibliografia

Paolo Orano, Autori proletari. Leda Rafanelli in Avanti! del 22 febbraio 1906.

Carlo Carrà, La mia vita, Milano, Rizzoli, 1945. I ricordi di Carrà sono molto imprecisi (si parla della collaborazione con Monanni a pagina 71). Di Carrà devono essere ricordati i disegni per Sciarpa Nera, la copertina al pamphlet antimonarchico di Paolo Valera, Il cinquantenario (Milano, Casa Editrice Sociale, 1911), il ritratto di Pietro Gori su La Rivolta di Milano del 10 maggio 1911.

Da ricordare che Giuseppe Monanni collaborò dalla Svizzera a Critica Sociale con due articoli: La questione dell’oro (numero del 16-31 gennaio 1917) e Mirbeau (numero del 1-15 marzo 1917).

Raffaele Ottolenghi morì suicida nel 1917. Su di lui il necrologio di Filippo Turati su Critica Sociale del 16-30 giugno 1917.

L’intellettuale dissidente

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