In morte di Ermanno Olmi, filmaker totale, estremista della semplicità, cantore di contadini e operai

Un estremista della semplicitá, il poeta dei contadini e degli operai, il narratore più umanamente coinvolto con i suoi personaggi. Il cinema italiano piange Ermanno Olmi, scomparso ieri a 86 anni, con la consapevolezza di avere perduto un autore insostituibile non solo per il talento e la versatilitá, ma soprattutto per le radici, la formazione, la coerenza e la moralitá con cui ha contrassegnato oltre cinquant’anni di carriera: rincorrendo e realizzando, infatti, i sogni del giovane cinèfilo bergamasco, poi ragazzo della milanese Bovisa e infine adottato altopianese d’Asiago, Olmi è stato in grado di rappresentare da un’angolatura inconfondibile sia la progressiva sparizione dei valori della cultura cattolica contadina, sia il travaglio delle mutazioni e le omologazioni subite dal proletariato ubano. Se nel giorno della scomparsa è normale che i media tramandino l’alto profilo professionale dell’Olmi insignito di una Palma d’oro, due Leoni veneziani e un’infinitá di David e Nastri, è indispensabile ricordare che la sua strada non è stata spianata sin dall’inizio perchè all’epoca dell’esordio al crepuscolo dei ’50 fino alla consunzione nell’estremismo dello tsunami sessantottino il suo identikit è stato tenuto in sospetto d’ambiguità e non era affatto scontato per i cineclub programmare la tenera storia d’amore di Il posto invece della Corazzata Potemkin o Il posto delle fragole.

Aperto alla vita e al convivio, maestro senza aureola di discepoli allenati all’autosufficienza tecnica piuttosto che ai precetti teorici -essendo stato un filmaker totale, spesso sceneggiatore, produttore, scenografo e anche direttore della fotografia- Olmi ha praticato l’intransigenza dell’artista, eppure la sua carriera inizia quando viene assunto come fattorino alla Edisonvolta, dove riesce a farsi strada arrivando a fondare una Sezione cinema che diventerá famosa per la qualitá e la modernitá dei suoi documentari che vanno ben oltre lo scopo originario di promozione dell’attivitá aziendale. Dopo avere girato l’esile quanto raffinato racconto d’amicizia Il tempo si è fermato, fonda con alcuni amici, tra cui spicca il futuro caposcuola della critica cinematografica Tullio Kezich, la societá di produzione “22 dicembre” per la quale scrive e dirige nel ’61 proprio Il posto che, rispetto all’impianto neorealistico, espone un sentimento di condivisione e sensibilitá umane molto piú raccolto e intimo.

Dunque Olmi è ormai apprezzato come “cineasta cattolico” e non sorprende il fatto che tra il ’65 e il ’77 firmi titoli come E venne un uomo, biografia non agiografica di Papa Giovanni XXIII, Un certo giorno, I recuperanti o La circostanza che, al di lá della loro alterna incisivitá, propugnano una visione del cinema come surrogato spirituale della vita, omaggio alla memoria degli antieroi della quotidianitá, traduzione più profana che sacra del culto per l’intangibilitá della natura. Il film che segna l’apice del suo non agognato successo è, peraltro, L’albero degli zoccoli (1977), girato nella sua terra e recitato dagli attori non professionisti in stretto dialetto bergamasco tanto da essere sottotitolato anche per il circuito nostrano: cronaca non edulcorata della dura esistenza di quattro famiglie di contadini padani di fine Ottocento e vincitrice a sorpresa a Cannes, questa omerica rievocazione di un mondo destinato alla sparizione incarna secondo noi la grandezza e il limite dell’autore. Padrone assoluto di ogni inquadratura e di un ritmo incredibilmente omogeneo a quello delle opere e i giorni che si materializzano sullo schermo, Olmi utilizza la nostalgia come arma impropria contro i “moderni” modelli di vita omologati che gli fanno orrore e metafora contro la religione ufficiale secondo lui allineata sulle esigenze del neocapitalismo consumistico.

Accusato a suo tempo di “trascurare” le ideologie progressiste, si riscopre, insomma, ideologo un pò troppo rigido e scoperto: una peculiaritá nociva alla successiva produzione che, si condivida o meno la sua esplicita adesione alla Chiesa “autentica” del cardinale Martini, soffrirá in più di un’occasione dell’esigenza di anteporre la retorica del rapporto umano e del primato degli umili sugli intellettuali al rischio delle emozioni e alla libertá della fantasia. In ogni caso nonostante la terribile malattia che ne ha minato progressivamente il fisico, ha mantenuto salda l’indomita personalità ed è anche per questo che importa poco prendere le distanze da film malfermi come Il segreto del bosco vecchio, Centochiodi o Il villaggio di cartone e compiacersi di abbaglianti riuscite come Il mestiere delle armi (2001), non solo il suo primo film epico, ma anche quello stilisticamente più libero e iconograficamente più potente. I critici dell’ultima generazione che non riuscivano più a entrare in sintonia con la sua sete di veritá assolute tornarono a celebrarlo chiamando in causa Rossellini e Tarkovskij. In realtà Olmi, sperimentatore e cultore di un linguaggio personale anche a costo di trasgredire l’inesausta fede cristiana, assomiglierá per sempre solo a Olmi.

 

Fonte:

La scomparsa di Olmi

‘Il segreto del bosco vecchio’ di Buzzati: il senso delle occasioni perdute

“Ma due o tre volte, quella notte, ci fu anche il vero silenzio, il solenne silenzio degli antichi boschi, non comparabile con nessun altro al mondo e che pochissimi uomini hanno udito”. (Da Il segreto del bosco vecchio di Dino Buzzati)

Dino Buzzati

Nel racconto fiabesco “Il segreto del bosco vecchio”  dello scrittore, giornalista e drammaturgo Dino Buzzati, la montagna, il bosco, gli animali, gli spiriti sono protagonisti indiscussi di uno scenario onirico e reale al tempo stesso. I venti, i geni dei boschi, i briganti e i taglialegna, sono le incarnazioni del bene e del male come nelle favole più antiche. Oltre al bosco fatato e ai personaggi simbolo di un’infazia oramai perduta compaiono il colonnello Sebastiano Procolo e suo nipote orfano, Benvenuto Procolo.

Intrecciata alla storia fantastica c’è la storia degli umani da raccontare penosa e difficile. Nelle vicende dello zio (l’eroe negativo del racconto) e del nipote si possono cogliere i temi e le dimensioni caratteristiche della narrativa di Buzzati: la paura e il rifiuto della vita di città, il cui emblema, di contro alla nuda e sincera verità della montagna, è la pianura: il luogo di esilio. La dimensione onirica, manifesta il bisogno di immergersi nella potente e incontrollabile forza della natura, rigeneratrice e devastante; il recupero di un contatto con le presenze animali e vegetali, proiezioni fantasmatiche che popolano e animano il “regno segreto” di Buzzati, colorano e accompagnano l’inevitabile commistione tra il piano realistico, caparbiamente difeso dal colonello Procolo, e quello fantastico, dato dall’aura che avvolge tutti i personaggi umani e non del racconto.

È un percorso iniziatico, una prova di coraggio, una ricerca di sentimenti puri e di umanità che deve portare al trionfo del bene sul male; proprio come nelle favole. Sebastiano Procolo è intenzionato ad abbattere il bosco per fini speculativi e spinto dalla bramosia vuole impossessarsi anche della parte di proprietà che è toccata a Benvenuto; la sua avidità lo condurrà persino a stipulare, contraddicendo la sua razionalità di uomo dell’esercito, un’alleanza col terribile vento Matteo per progettare l’omicidio del nipote. Alla fine però Sebastiano fa spazio nel suo cuore all’affetto per il nipote e rimedia alla situazione che tragicamente precipita sacrificando sé stesso.

Le tematiche che il racconto suggerisce sono due: la prima è il passaggio dall’infanzia alla giovinezza di Benvenuto, costretto a lasciarsi alle spalle il mondo fantastico per entrare nel mondo degli uomini. Il secondo è la crisi e la conseguente redenzione del colonnello Procolo che, ostaggio dell’avarizia e dell’avidità, riscopre il contatto con la natura, la verità nei rapporti e l’altruismo. Significativo il passaggio in cui si racconta di come il colonnello perda la propria ombra, allusione allo smarrimento di sé. E lo smarrimento è tappa necessaria affinchè i due protagonisti possano ritrovarsi. Il romanzo è un vero e proprio percorso di formazione che riflette sul senso delle occasioni perdute e sulla solitudine, e porterà il colonnello e il nipote ad essere persone diverse alla fine della loro storia; entrambi mutano i propri punti di vista, il colonnello riacquista dignità, il nipote saggezza: c’è chi cresce e c’è chi muore.

“Il segreto del bosco vecchio” scorre con semplicità assoluta; non è possibile distinguere tra i fatti narrati la realtà dalla fantasia. L’atmosfera surreale lascia convivere i particolari fantastici  con la quotidianità dei gesti e dei pensieri dei protagonisti. Ed è proprio per questa sua capacità di rendere realistico ciò che è solo immaginazione che lo fa annoverare come uno degli autori più esclusivi e innovativi del panorama letterario italiano novecentesco.   Del romanzo esiste una bellissima trasposizione cinematografica. Il film, che conserva il titolo originale, è stato diretto da Ermanno Olmi nel 1993.

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