Ungaretti: “per essere poeti bisogna anche saper fare i conti con il mistero che alberga in ogni animo’

Ungaretti dovrebbe essere un modello per i poeti contemporanei spesso illeggibili perché incomprensibili.

Ognuno, dopo aver finito di scrivere una raccolta poetica, dovrebbe rileggere “Allegria”, che si caratterizza per i versicoli immediati.

Dovrebbe essere la prova del nove per tutti i poeti. Allo stesso modo ogni  romanziere dovrebbe, dopo ogni sua fatica letteraria, rileggere “Se questo è un uomo” e “Una giornata di Ivan Denisovič” perché questi due capolavori riescono a coniugare anche essi sostanzialità e testimonianza.

La spontaneità di Ungaretti

Poi magari ogni scrittore potrebbe  decidere se pubblicare o rivedere di nuovo il lavoro. Ma ritorniamo ad Ungaretti. Sono talmente dirette e spontanee le  sue liriche, che riescono a spiazzare e a colpire favorevolmente anche i lettori più snob, abituati alla poesia del Novecento che si distingue per essere così intellettuale!

Ungaretti è agli antipodi di poeti così ricercati come Eliot e Pound. Riesce a semplificare il linguaggio e ad essere scarno ed essenziale. Nei suoi versi troviamo tutta la sua vita di esule che si forma culturalmente a Parigi (conoscendo Apollinaire e Picasso) e che combatte sul Carso.

La testimonianza della guerra

Queste poesie di Ungaretti sono testimonianza ineguagliabile della guerra.

Sono prive delle descrizioni e dell’eloquenza della lirica di quegli anni. Non vi sono leziosismi né orpelli inutili. Sono frutto di una ispirazione, che trascendono la metrica, la retorica e l’estetica. Non venga in mente a nessuno che le sue poesie scaturissero solo da intuizioni, seppure formidabili.

Tra intuizioni e lavoro

C’era del lavoro alle spalle. Erano state molte le varianti e le revisioni prima delle versioni definitive. Ad onor del vero bisogna anche ricordare che Ungaretti distrusse le tradizionali forme poetiche nelle prime liriche, ma successivamente dimostrò di saper utilizzare anche versi canonici come novenari ed endecasillabi.

Forse si oserebbe troppo a scrivere che fu una sorta di cubista della poesia nella sua prima fase. Come ebbe a scrivere Ungaretti per essere poeti è necessaria non solo la pazienza, la conoscenza della tradizione, l’intelletto.

Il senso del mistero

Bisogna anche saper fare i conti con il mistero che alberga in ogni animo: soltanto così una poesia può diventare unica come la sua. Ungaretti, quando scrisse i suoi primi innovativi versicoli, aveva appreso la lezione dei simbolisti francesi. Ma Ungaretti era completamente originale.

Aveva subito saputo distinguersi dai suoi illustri predecessori. Era un predestinato della poesia. Lo stesso Thomas Merton scrisse che Ungaretti era sconvolgente e che la sua intensità annientava.

Alcuni suoi versi rimarranno per sempre nella memoria di molti: “m’illumino d’immenso”, “è il mio cuore il paese più straziato”, “si sta/come d’autunno/ sugli alberi/ le foglie”, “Di che reggimento siete/ fratelli?”, “Non sono mai stato/ tanto/ attaccato alla vita”, “tra un fiore colto e l’altro donato/ l’inesprimibile nulla”.

La precarietà della vita

Queste illuminazioni esprimono in modo impareggiabile la precarietà e la fragilità proprie di chi combatte in una guerra assurda. Ungaretti aveva combattuto la grande guerra e per capire quanto fu devastante la prima guerra mondiale non bisogna andare molto lontano: basta andare a visitare Asiago, che fu completamente rasa al suolo in quegli anni.

Ungaretti viaggiò molto. Visse molto. Soffrì molto. Non soltanto per l’esperienza della guerra ma anche per la morte del figlioletto di nove anni a cui dedicò la raccolta “Giorno per giorno”.

Il dolore per la morte del figlio

Il poeta si chiedeva come era possibile continuare a vivere e a fare le cose di ogni giorno quando non poteva più vedere il suo bambino, la cui voce non avrebbe udito più.

Scrisse Ungaretti: “E t’amo, t’amo, ed è continuo schianto!…”.

Nella sua vita il poeta sperimentò i dolori più terribili: gli orrori della guerra e la scomparsa del figlioletto. Ma Ungaretti riuscì a non lasciarsi mai sopraffare dalle avversità e dai tristi eventi. Riuscì sempre a superare questi periodi di crisi, testimoniando con i suoi versi le tragedie vissute.

Il bisogno di fraternità

La follia della guerra riuscì a vincerla confidando nell’uomo: credendo nella fraternità. Il dolore atroce per la perdita del figlio lo sconfisse non solo con la terapia della scrittura ma anche con la religiosità.

Ungaretti scrisse in modo apparentemente semplice ed è comprensibile a tutti. Ma non lasciatevi ingannare. Ungaretti era anche un profondo conoscitore della lingua e della poesia.

C’è chi potrebbe pensare che molti sarebbero in grado di scrivere come Ungaretti ma è un giudizio affrettato dovuto a pura superficialità e faciloneria: pensarla così è pura ingratitudine nei confronti di uno dei più grandi poeti del Novecento.

Ungaretti fu il primo a scrivere in quel modo così breve e coinciso.

 

Di Davide Morelli

 

Ricordando Thomas Mann, mediatore tra Vita e Spirito

Thomas Mann (6 giugno 1875 – 12 agosto 1955) ha inscritto la propria complessa letteratura nel territorio della vita, in cui tutti noi ci riconosciamo, perché è un territorio ermetico, tra non-essere-ancora e non-essere-più. Di questo regno intermedio, demonico, mutevole, l’arte si fa espressione, a volte anche contro le taglienti pretese dello spirito.

L’ermetismo di questo straordinario mediatore lunare tra vita e spirito, autore del romanzo-saggio, si rifrange nei molteplici volti dei protagonisti delle sue opere maggiori: da Thomas Buddenbrook a Tonio Kröger, da Giuseppe a Felix Krull, da Gustav von Aschenbach a Adrian Leverkühn, i quali rappresentano una fantasmagoria delle sue controfigure più o meno parziali, fantasiose o ideali.

Thomas Mann e la Germania

Andando oltre i dibattiti sul romanzo ‘ottocentesco’ di Mann, o sulla sua idea perenne di borghesia, oppure sui suoi rapporti con lo spirito tedesco, si potrebbe partire, in occasione dell’anniversario della sua nascita, da una constatazione riguardo lo scrittore tedesco e nello specifico la sua produzione letteraria da parte del filologo ungherese Kerényi nel carteggio con Thomas Mann: “una grande entelechia con inclinazione mitologica, anzi con indole mitologica, con i tratti maliziosi di un essere ermetico”

La cifra spirituale e letteraria più originale di Mann, che è il suo lascito, può essere colta nel suo carattere ermetico.

Ma come viene visto oggi Thomas Mann? Quale potrebbe essere la più giusta definizione?

L’ermetismo di Thomas Mann

Seguendo le considerazioni di Kerenyi, Thomas Mann è visto come colui che, «in questo settore del mondo umano, nel regno intermedio tra vita e morte, si muoveva come i Greci reputavano che si muovesse il loro dio Hermes. La realtà psichica del dio Hermes […] consisteva nella possibilità (che però corrisponde anche adun’altissima facoltà spirituale) di trovarsi a casa propria persino in quel regno».

Se esiste un testo letterario in cui è rappresentata la “superiore realtà” di Hermes, questo è senza dubbio La montagna incantata dove il ludus viene scoperto, e il mistero rivelato proprio dall’autore nell’ultima pagina del romanzo, quando afferma che la storia di Hans Castorp forse non fu esemplare, ma nemmeno inutile: fu “una storia ermetica”

La politica

Il primo Mann, quello che arriva fino alle geniali e deliranti Considerazioni di un impolitico dove si chiede: Cos’è lo spirito tedesco? Come può esprimersi sotto la forma del borghese? E che rapporti ha con l’umanesimo? è quello che ritorna nel Doktor Faustus nel quale emerge come lo spirito tedesco sia pessimista.

Il “pessimismo” ha un’origine e una valenza ben precisa, in quest’ambito culturale; ne sono figli Nietzsche, Wagner e lo stesso Thomas Mann.

Questa origine si trova in Schopenhauer. Mann, in quanto romanziere “ottocentesco”, delinea consapevolmente la sua discendenza: «per quanto è essenziale al mio spirito, io sono un vero figlio del secolo nel quale cadono i primi venticinque anni della mia vita, il diciannovesimo […]. Romanticismo, nazionalismo, borghesia, musica, pessimismo, umorismo, questi elementi che erano sospesi nell’atmosfera del secolo passato sono anche le componenti principali e impersonali della mia esistenza»

Il pessimismo borghese

Un altro aspetto importante della letteratura di Mann è il “fattore morale” borghese che riguarda non solo l’uomo d’affari, ma anche l’artista, lo scrittore, come Mann chiarisce a proposito di se stesso: «in contrasto con quello meramente estetico, con la contemplazione edonistica della bellezza, anche col nichilismo e col vagabondaggio all’insegna della morte, è propriamente un sentirsi borghesi, ossia cittadini della vita, è la sensibilità per determinati doveri vitali […], a recare un apporto produttivo alla vita e al suo sviluppo; è ciò che impone all’artista di non concepire l’arte come una dispensa assoluta dalle responsabilità umane, di fondare una casa, una famiglia, di dare una base solida, decorosa, non trovo altra parola, borghese, alla sua vita spirituale, per avventurosa che essa sia»

La ‘borghesia’ nasce dunque in reazione a questo presentimento pessimistico del vuoto e dell’infondatezza.

La teologia

E la teologia? Per disquisire di quest’altro importante aspetto nell’opera di Thomas Mann, bisogna fare riferimento al Doktor Faust, e allo studio di Maar il quale in un articolo del 1989, ha annesso alla “costellazione” del romanzo un altro nome significativo, quello di Gustav Mahler, di cui ha studiato la posizione in tutta l’opera di Thomas Mann.

Il fatto che la posizione di Mahler nel Doktor Faustus sia sfuggita a numerosi critici prima di Maar come Adorno, è dipeso in parte da due fattori: le modalità della sua “apparizione” e la falsa constatazione che ne ha impedito il riconoscimento. Maar ha dimostrato con prove incontestabili (una fotografia posseduta da Thomas Mann e la descrizione che il romanziere aveva dato di Gustav von Aschenbach in Morte a Venezia) che il diavolo con cui Leverkühn discute lungamente nel capitolo XXV del romanzo e che, dopo una prima trasformazione, assume certi pensieri adorniani sulla crisi della musica e sulla sua “impossibilità” nella situazione storico-sociale “moderna”, non assume affatto i tratti fisici di Adorno, come generazioni di critici avevano sostenuto, bensì quelli di Gustav Mahler.

L’attualità di Thomas Mann

Di cosa ci parla oggi Thomas Mann, l’uomo che era spaventato dal caos del mondo e che seguiva gli eventi del suo tempo con la stessa puntigliosità utilizzata per comporre i suoi romanzi, era un testimone sempre vicino agli eventi e sempre dentro i dibattiti culturali e politici che li accompagnavano?

Soprattutto che la sua Montagna non è incantata come molti pensano, ma magica, in quanto essa può suscitare incanto, “ma anche sortilegio e maleficio” e del resto “nel corso della narrazione si assiste ad una vera e propria iniziazione”, quella che Mann fa sperimentare a Hans Castorp e della sua progressiva “salita” agli inferi e la cui conclusione è segnata da quell’“orribile danza” e da quella “voluttà smaniosa e maligna” che è la prima guerra mondiale, sui cui campi intrisi di sangue si compirà il sacrificio del protagonista.

Ascendenze freudiane

Mann ci parla di tendenze civili e demoniache presenti nell’uomo: ascendenze freudiane dunque e della potere che ha un grande evento storico di scuoterci. Di teologia, di passione, do sagacia, di filosofia contemporanea, della necessità di dare credito al temo, alla sofferenza, alla gioia; nel caos della vita.

Nonché le seguenti parole contenute in Considerazioni di un impolitico, lui che era antinazista ma anche radicato nella contraddizione:

“Non solo non penso che il destino dell’uomo si esaurisca nell’attività pubblica e sociale, ma addirittura trovo quest’opinione disgustosa e inumana”; “Amore! Umanità! Li conosco, quel teorico amore e quella dottrina umanitaria, professati a denti stretti per provocare un senso di ribrezzo nel popolo…. Tremenda, certo, è la guerra. Se però nel vivo della guerra il letterato politico si mette in posa e proclama di sentire nel petto il respiro d’amore dell’universo, questo è il più spaventoso degli spaventi e insopportabile”.

La personalità dunque nasce da un conflitto e la si ha quando si è qualcuno, non quando si hanno opinioni. Pensiero tagliente ed estremo, inconcepibile per chi accoglie solo l’ovvio e per chi non è uno spirito libero; questo sembra essere uno dei lasciti più importanti e al contempo urticanti del mago Thomas Mann.

 

https://zeitblatt.com/remembering-thomas-mann-mediator-between-life-and-spirit/

 

Piero Bigongiari: “Vetrata”, il tempo che passa

Piero Bigongiari è tra le personalità letterarie più di rilievo del novecento italiano, che ha accompagnato la sua attività di poeta a quella di traduttore, nonché di autore di studi critici, tra i quali spicca Poesia italiana del Novecento (1960). La sua figura gode di grande autorevolezza in quanto è  considerato uno dei più importanti poeti ermetici toscani, insieme a Mario Luzi e Parronchi. Interessato all’arte in ogni sua forma, Bigongiari  include nella sfera delle sue amicizie poeti di grande rilevanza come Leone Traverso, Giuseppe Ungaretti, Carlo Emilio Gadda, Elio Vittorini, Alfonso Gatto, Vasco Pratolini, Mario Luzi.

Piero Bigongiari pubblica nel corso della sua vita lavori che riguardano la poesia e l’arte, sia moderna che contemporanea come La figlia di Babilonia (1942, prima pubblicazione poetica), Le mura di Pistoia (1958), La torre di Arnolfo (1964), Col dito in terra (1986), Nel delta del poema (1989). Tra le opere critiche ricordiamo Poesia italiana del Novecento (1960), Leopardi (1962), La poesia come funzione simbolica del linguaggio (1972) ed altri lavori. Per quanto riguarda l’arte: Il Seicento fiorentino (1975),  Dal Barocco all’Informale (1980).

La sua poetica va ad incontrare pienamente lo spirito ermetico che si era diffuso per il periodo, infatti essa è intrisa di un misticismo onirico e adornata da un codice di parole sguscianti e di difficile approccio. Per quanto riguarda questa caratteristica, in Bigongiari si possono distinguere due periodi di crescita: il primo periodo, quello maggiormente “astrattista”, dove la parola crea un sentiero di biforcazioni infinite che definisce una realtà mutevole e inarrivabile, (periodo che va dal 1942 ai primi anni 70′) e il periodo più maturo e “realista” dove la parola diventa di per sè legata alla realtà indissolubilmente, divenendo essa stessa parte reale del reale.

I temi trattati da Piero Bigongiari vanno dalla vita di tutti i giorni alle riflessioni più intime e profonde, rivisitate sempre in chiave simbolica, un esempio ne è la poesia Vetrata, contenuta nella selezione antologica Autoritratto poetico del 1985, dove il poeta esprime attraverso un linguaggio semplice ma labirintico, il tema della memoria e del tempo che passa.

Vetrata

O memoria, la terra è il tuo ritorno
negli occhi, le magnolie
in un torno di gridi dai cortili
traboccano, sui lividi ginocchi
spunta l’età più grande come un’alba.
Una febbre rimuove dagli stipiti
la madre dolcemente: là trasporta
simile a luce le vele dal porto:
afosa muove sulle braccia a chi
non scorda. Mentre un lampo rosa inonda
la finestra, l’attesa: una tempesta
di caldo, un bacio che fa vana ressa.
E i cani spenti di una festa delirano
di viola se grappoli di nulla
pendono già a un oriente.

La poesia parla con chiarezza e oscurità nella stesso tempo, l’invito iniziale è diretto, o memoria, come se si parlasse di un carme celebrativo. Di qui in poi la poesia si colora di immagini sfocate di una perduta infanzia: grida dai cortili, ginocchi lividi e spensieratezza, una madre in apprensione, legata allo stipite della porta a sorvegliare. Dopo l’immagine iniziale inizia a prendere forma il presente, che compone la seconda parte dell’opera. La madre scompare dolcemente come la luce viene a mancare poco a poco ” là trasporta simile a luce le vele dal porto” 

Seppur il presente non sia il passato, di esso resta un ricordo che non svanisce e che resta, tanto da desiderare un ritorno, l’attesa di un bacio antico nel riposo della memoria. L’attesa però si consuma senza realizzarsi così il passato svanisce nel delirio tanto che se dall’oriente (il passato) non nasce più nulla, il futuro non ha più speranze.

Di per se è interessante anche analizzare il titolo dell’opera di Piero Bigongiari. La vetrata è quel luogo dal quale si osserva, ed è forse questo il personaggio che maggiormente risalta nella poesia, quella di un osservatore senziente che osserva il passato e il futuro combinarsi in un sogno da cui la realtà è all’oscuro e per cui essa è incompleta. La “visione” della vita viene perciò resa vana e delirante perché insufficiente a vedere se stessa. La vita è nascosta dietro una vetrata.

“Toccata”: la musicalità di Luzi

La lirica Toccata (in settenari con due endecasillabi e due ottonari sdruccioli legati da rime e assonanze), risale al 1932 e testimonia dei modi del primo Mario Luzi, anche se fu raccolta nel volume La barca non alla prima edizione del 1935, ma alla seconda, del 1942. L’occasione sembra scaturire dall’osservazione della natura, colta nel trapasso stagionale dall’inverno alla primavera, ma i riferimenti alla realtà sono molto labili e servono più che altro a concretizzare uno stato d’animo che è di sospensione e di indecisione. L’incertezza che caratterizza la poesia riguarda i modi di manifestarsi della vita stessa e il suo senso segreto: di fatto la poesia, celata da un tono di apparente constatazione, contiene un interrogativo esistenziale, ci comunica un’ansia di conoscenza che è al fondo di tutta la ricerca ermetica, quella più autentica.

Ecco aprile, la noia

dei cieli d’acqua di polvere,

la quiete della stuoia

alla finestra, un tocco

di vento, una ferita;

questa aliena presenza della vita

nel vano delle porte

nei fiumi tenui di cenere

nel tuo passo echeggiato dalle volte.

 

Il titolo della lirica sottolinea la forte ricerca di musicalità intrapresa da Mario Luzi, che si rifà alla poesia simbolista francese (in particolare a Mallarmé) e a quella di Eliot: la “toccata” infatti è una composizione per strumento a tastiera del periodo barocco, di andamento libero e di carattere improvvisato. L’ermetico Luzi qui sperimenta strumenti nuovi come dimostra l’introduzione di due versi parissilabi (gli ottonari) all’interno di un tessuto di settenari ed endecassilabi: i due ottonari non solo trovano posizione in maniera simmetrica, ma sono entrambi sdruccioli. Tutti i versi, tranne il quarto, sono interessati da rime (noia/stuoia; ferita/vita) e assonanze (porte/volte). Dal punto di vista strutturale, la pausa alla fine del verso 5 divide nettamente la poesia in due parti: la prima è caratterizzata da un ritmo irregolare e da molti enjambement (la noia/dei cieli d’acqua di polvere e la quiete della stuoia/alla finestra); la seconda invece vede protagonista una sostanziale coincidenza tra metrica e sintassi, come sottolinea il parallelismo degli ultimi tre versi: nel vano…nei fiumi…del tuo passo.

Gli elementi formali sottolineano una bipartizione che è anche significato; la prima parte è infatti dedicata  alla descrizione di alcuni aspetti della realtà: aprile, i cieli piovosi e polverosi, la stuoia immobile alla finestra, ecc… La seconda parte fa riferimento alla realtà meno individuabile, il cui valore simbolico è evidenziato non solo dalla presenza di una forte analogia (fiumi tenui di cenere), ma soprattutto dal contenuto dei versi 4-5: il tocco/di vento diventa infatti una ferita, con un passaggio dal fisico al psicologico, dal reale al simbolico, tipico della poesia ermetica; il verso 6 spiega  perché il colpo di venta si configura come una ferita: esso è un segno di vita e al poeta, che dalla vita si sente tenuto fuori, tale presenza appare aliena ed inquietante.

 

 

“Anch’io”, la disarmante semplicità di Giorgio Caproni

Giorgio Caproni nasce a Livorno nel 1912; la sua vita infantile e giovanile viene turbata inevitabilmente dagli eventi della prima guerra mondiale, infatti l’autore presenta quegli stessi anni come anni sanguinosi e pieni di miseria. Dopo un infanzia vissuta nel pieno dopo-guerra a 12 anni, il giovane Caproni comincia i primi studi a Genova. Successivamente, ormai maggiorenne, comincia ad inviare anche le sue prime composizioni a vari editori che gli frutteranno la pubblicazioni di due raccolte: Come un’allegoria (1936) e Ballo a Fontanigorda (1938). Nel 1939 il poeta si trasferisce a Roma, qui vive anche lui tutti i turbamenti dovuti alla seconda guerra mondiale e si schiera infatti dapprima per il regime, poi quando gli viene chiesto di entrare a far parte delle brigate della Repubblica di Salò, si schiera per la Resistenza. Gli eventi della guerra e le riflessioni del poeta su di essi confluiscono nella raccolta Il passaggio di Enea datato 1956. Ha vissuto a Roma fino alla fine della sua vita, nel 1990.

La poetica alacre ed elegiaca di Caproni, scaturita dall’ermetismo e dal vocianesimo ligure (Sbarbaro) è improntata su una finezza espressiva che sfocia in un’apparente semplicità e comunicabilità, col tempo però l’autore matura la sua poetica sempre più tendendo all’affermazione di una realtà ingannevole e mutevole che non trova un mezzo attraverso cui possa essere espressa, non con i versi, non con la poesia e forse che deve rimanere inespressa per essere compresa.

La poesia Anch’io, che fa parte della raccolta Il muro della terra (1975), parla con disarmante semplicità di un intenzione propria del poeta livornese oltre che di qualsiasi letterato o poeta, ovvero la rottura della superficialità della comunicazione e giungere a una comunicazione profonda e ispirata. La poesia sembra sintetizzare il fine ultimo della raccolta: Perforare il muro della terra:

Ho provato anch’io.

E’ stata tutta una guerra
d’unghie. Ma ora so. Nessuno
potrà mai perforare
il muro della terra.

La poesia si presenta come breve e forse semplice, ma ciò non deve trarre in inganno. Si propone un interpretazione complessiva.

Ho provato anche io

Questo verso potrebbe essere interpretato come la dichiarazione di una partecipazione umana di un personaggio quale potrebbe essere lo stesso Caproni oppure un uomo qualunque, che come molti altri prima o dopo di lui partecipa a un rito antico come il mondo, il rito della comunicazione e della trasmissione dell’esistenza, sopratutto dell’interpretazione di questa e della sua perpetuazione dentro vie remote e intime del cosmo, ovvero sotto terra.

E’ stata tutta una guerra di unghie

La voglia di trovare un modo di comunicare perfetto, che non lasci spazio alle incomprensioni e che dia adito a un universale comunione di intenti si esprime in questo verso, le unghie afferrano e dilaniano contemporaneamente la realtà che il poeta cerca di esprimere, quindi sembra impossibile poter esprimere la realtà senza prima traviarla e modificarla con le proprie unghia, estensioni ideali della propria mano e quindi della propria vita, del proprio punto di vista.

Ma ora so

La consapevolezza giunge miserevole e triste, come la sconfitta di un guerriero. La realtà è davvero sfuggevole e fragile.

Nessuno
potrà mai perforare
il muro della terra.

La sconfitta è universale. Nessuno potrà mai scalfire quella barriera che è posta tra gli uomini e l’essenza profonda della terra, che diventa metafora dell’esistenza e della realtà. Nessun uomo potrà quindi avvicinarsi tanto all’essenza della terra, neanche dopo aver combattuto anche con le unghie. La terra coltiverà sempre il suo segreto lontano dagli uomini e dalla loro comprensione, restando un arcano segreto che nessuno potrà mai svelare, un muro che non può essere perforato dietro cui si cela la verità irraggiungibile del tutto.

Giuseppe Ungaretti: ragioni di una poesia

Giuseppe Ungaretti, come ogni vero poeta che si rispetti, riflette sui problemi dell’espressione poetica e dello stile come dimostrano alcune sue annotazioni uscite sulla rivista “La Ronda” nel 1922. Il poeta ermetico parte da un saggio di Jacques Rivière su Dostoevskij in cui si afferma che “gli abissi umani sono perlustrabili”. Rivière opponeva all’opera dello scrittore russo, l’arte francese, l’arte del romanzo francese, il metodo occidentale d’analisi psicologica. L’errore di Revière, secondo Giuseppe Ungaretti, era di credere che l’opera del grande scrittore russo potesse trasporsi in problemi di metodo, di analisi, di psicologia, generando in questo modo un buon romanzo di tipo francese. Dice il poeta:

“Se il buio non è un buio materiale delle cose, non la notte passeggera, non un effetto di fumo o di nebbia […] ed è invece un buio dello spirito all’ultimo limite, come si farà a infrangerlo con le ridicole violenze e i lucignoli delle povere invenzioni nostre, quelle comprese della buona marca scientifica vantata da Rivière? Se Dostoevskij fosse stato francese, sarebbe stato tutt’al più uno Zola […]. Rileggiamo Dostoevskij. Vi concontriamo una turba, ma è sempre la stessa persona che gira su se stessa, e il suo moltiplicarsi è derivato dalla vertigine del suo giro. Vano a Dostoevskij, e a chiunque, qualsiasi tentativo di definire logicamente  tale fantasma facendogli assumere, comunque, un atteggiamento di controllo verso le circostanze”.

Giuseppe Ungaretti sa bene che per l’essere umano tutto poggia sempre su un fattore oscuro che non siamo in grado di misurare affinché possiamo fare chiarezza, anche se volessimo interpellare le “luci” proustiane o freudiane. Dobbiamo imparare a convivere con il mistero che è in noi, senza mai dimerticarcene e dè per questo che secondo il poeta l’arte per noi avrà sempre un fondamento di predestinazione e di naturalezza, ma, allo stesso tempo, anche razionale. Ma, come dice il poeta, trovata la via della logica, un ciottolino può diventare un macigno o viceversa: è questa la nostra possibilità di portare la realtà, scoprendone la poesia e la verità? Questo è uno degli effetti della metamorfosi della nostra mente. Che sia questo l’unico potere magico dell’uomo? Per cui la parola ci riconduce, nella sua origine oscura, al mistero? Questa è l’arte greco-latina, di prosa e di poesia, questa è la nostra civiltà; da millenni.

Nel 1930, sulla <<Gazzetta del Popolo>>, Ungaretti afferma:

“Pensavo alla memoria, e non potevo non essere ingiusto col sogno. In verità non era ingiustizia; ma la persuasione, che stava maturandosi in me, che la poesia italiana non fiorisce se non in uno stato di perfetta lucidià: tecnica, sensazioni, logica, sogno o fantasia e sentimento: tutte queste cose per noi non hanno senso se simultaneamente non vivano oggettivate per un poeta, in una parola che canti”.

La memoria, in questo senso, ha una funzione chiarificatrice e a tal proposito Ungaretti ammette di aver commesso un errore quando ha detto che in Dostoevskij non c’era se non un fantasma che diventava turba per potenza allucinante di chi scrive. C’è davvero una turba, ma non di fantasmi, bensì di cuori sofferenti. Da qui Ungaretti inizia il suo esame di coscienza tra inquietudini e perplessità come dimostra Inno alla Pietà; per il poeta si tratta ora di spalancare gli occhi impauriti davanti alla crisi di un linguaggio, di cercare nel valore di una parola. Secondo lui, infatti ogni uomo moderno dovrebbe riconciliare il vero con il mistero. Dunque, questa è stata la prima preoccupazione del poeta di oggi: la riconquista del ritmo per risvegliare l’innocenza e per fare ciò è necessario recuperare la memoria. Ma cosa sono i ritmi nel verso? Ce lo dice lo stesso Ungaretti:

“Sono gli spettri d’un corpo che accompagni danzando il grido di un’anima”.

Il poeta moderno possiede il senso acuto della natura, ha partecipato e partecipa agli eventi più tremendi della storia, ha imparato ciò che vale l’istante nel quale conta solo l’istinto. La poesia è una forma estremamente sintetica per natura e i mezzi che l’uomo utilizza per arrivare ad essa sono sempre infelici mettendo insieme immagini lontane tra loro.

Il pensiero di Giuseppe Ungaretti sul significato della poesia si va via via ampliando e definendo negli anni come dimostrano le raccolte del grande poeta , subendo delle revisioni. Ungaretti perviene alla convinzione che in arte conta il miracolo, che la parola ha un valore sacro. Il sentimento dell’ Allegria dà conferma al poeta che non si ha nozione di libertà se non per l’atto poetico che ci dà a sua volta nozione di Dio. Ma il linguaggio di cui l’uomo si serve nella sua fase terrena può contenere una qualche rivelazione facendoci andare oltre la storia? Tale questione, che si era posta Vico e Leopardi (al quale Ungaretti fa spesso riferimento), dovrebbero porsela tutti gli aspiranti poeti.

Tuttavia di una cosa possiamo esser certi: la vera poesia si presenta prima di tutto a noi nella sua segretezza.

“Soltanto la poesia, l’ho imparato terribilmente, lo so, la poesia sola può recuperare l’uomo, persino quando ogni occhio s’accorge, per l’accumularsi delle disgrazie, che la natura domina la ragione e che l’uomo è molto meno regolato della propria opera che non sia alla mercé dell’Elemento”. (G. Ungaretti)

 

 

Salvatore Quasimodo: un viaggio poetico tra mito e realtà

Salvatore Quasimodo nasce a Modica, in Sicilia, nel 1901, ma la sua vita è un continuo viaggiare tra le varie città d’Italia, dapprima con tutta la famiglia al seguito del padre capostazione, poi per alcuni anni (1919-26) a causa di condizioni economiche precarie che lo vedono impegnarsi in diverse attività professionali, ed infine per dedicarsi all’attività letteraria. Tra i tanti trasferimenti compiuti durante gli anni dell’infanzia ricordiamo quello nel febbraio del 1909,quando il padre del poeta  viene incaricato di riorganizzare il traffico ferroviario nella stazione di Messina che nel dicembre del 1908 è colpita da una devastante calamità naturale. Sono anni, questi, che segnano profondamente  il poeta e che sono rievocati in versi nella poesia “Al Padre”, contenuta nella raccolta “La terra impareggiabile”.

Il tema della natura, in cui Quasimodo si immerge interrogandosi e identificandosi con essa, scavando a fondo nelle sue sfumature segrete e inafferrabili, che sembrano radicate in un indecifrabile passato arcaico, è fondante nella sua arte poetica, è proprio a Messina che consegue il diploma ed inizia a collaborare con il “Nuovo giornale letterario” dove pubblica le sue prime poesie.  Si trasferisce a Roma, e qui pensa di continuare gli studi di ingegneria, ma a causa di precarie condizioni economiche deve impiegarsi in più umili attività. Nello stesso periodo inizia lo studio del greco e del latino, che saranno per lui fonti di grande ispirazione e da questo studio dedito e attento nasceranno i suoi lavori di traduttore tra il 1940-45. A Firenze è in contatto con l’ambiente di Solaria per le cui edizioni pubblica nel 1930 la sua prima raccolta intitolata “Acque e terre”. L’ ambiente della rivista si propone di creare un’attività culturale drammatica e umana proprio mentre l’Europa del fascismo e del nazismo preparano la loro opera di distruzione cancellando dalla storia del periodo ogni traccia di umanità. E l’obiettivo culturale e artistico della rivista influenzano il Quasimodo che quella “umanizzazione” va ricreando col suo talento letterario nelle sue opere, dove nelle prime raccolte, contenute nel volume del 1942 di “Ed è subito sera”, che comprende anche la serie di” Nuove poesie”, emerge un io lirico che pensoso si interroga sul paesaggio, sente “vivere e morire” in sé il mondo, dove la “dolce collina d’Ardenno” gli porta all’orecchio un “fremere di passi umani” e al paesaggio, primo fra tutti quello della sua città natale, la Sicilia, si sovrappongono richiami al mito e alla sua sacralità, che non a caso è la culla dell’umanità.

Nelle raccolte successive “Giorno dopo giorno” del 1946e tre anni dopo  “La vita non è sogno” il poeta è volto ad un colloquio più aperto con gli uomini, ad una maggiore attenzione per la realtà sociale; sente l’impegno , attraverso il “potere” sacro ed eterno della parola poetica , di ricostruire la calpestata dignità umana e contribuire a “rifare” l’uomo.  Ma nonostante ciò Quasimodo non tradisce la sua vena essenzialmente ermetica, la quale, non ha bisogno di eclissarsi per potersi conciliare al meglio  con il nuovo orizzonte neorealistico. Di questo ermetismo Quasimodo rappresenta una delle colonne portanti e la scelta di uno stile difficile, immerso nella ricerca dell’ analogia, in un’inquieta e intima esperienza interiore, rappresenta una risposta “alternativa” alle difficoltà della situazione storico-sociale presente. Dall’ermetismo il poeta apprende la ricerca della parola essenziale e suggestiva che gli consente di superare un puro autobiografismo di stampo romantico per leggere nella sua pena quella comune degli uomini ed in questo non fatichiamo a riconoscere l’affinità con l’altro grande esponente dell’ermetismo, Giuseppe Ungaretti.                                                                         

Dal 1934 è a Milano dove insegna e svolge  una varia attività di pubblicista, molto fruttuosa nel periodo del dopoguerra, quando si accosta a posizioni democratiche e di sinistra. La sua fama cresce notevolmente fino ad ottenere il premio Nobel per la letteratura nel 1959. Muore a Napoli nel 1968 e l’ultima raccolta “Dare e avere”  del 1966 rappresenta un bilancio che il poeta fa della propria esperienza umana e poetica, toccando tra le varie riflessioni emergenti dalle disparate esperienze di viaggio effettuate, anche la tematica della morte, a cui si accosta con accenti di notevole intensità lirica.                                     

La migliore poesia di Quasimodo appare intessuta di ricordi fissati nel paesaggio siciliano, paesaggio d’infanzia, e insieme, mito di una primitiva innocenza e perduta comunione con le cose, sembra  infatti rifarsi ad un’altra grande corrente culturale che si sviluppa in Francia nel diciannovesimo secolo: il Simbolismo. L’elemento fondamentale dell’arte simbolista, che riflettiamo nella poesia quasimodiana è che sotto la realtà apparente, si nasconda una realtà più profonda e misteriosa a cui si può attingere solo attraverso l’intuizione poetica. La figura retorica maggiormente utilizzata diviene allora  l’analogia, proprio perché si elabora un linguaggio nuovo, non più logico ma analogico, in quanto la parola poetica assume la capacità del far emergere  quelle segrete, misteriose, intime, oscure corrispondenze tra le cose, tra la natura e le emozioni del poeta. Si guardi al lessico volutamente indeterminativo : sostantivi astratti, quelli generici capaci di ammettere diversi significati, altri che indicano situazioni imprecisate in termini di concretezza.

In queste analogie, dove viene sprigionata una musicalità avvolgente e insistente , in questa trasfigurazione della natura, si avverte la vicinanza ad un altro importante modello, quello dannunziano.  Ma nel Quasimodo la ricerca dell’armonia con la natura, l’identificazione con essa, la rappresentazione di questa come un Eden in cui si rimpiange una perduta innocenza umana, non ancora corrotta dal male di vivere, si fa più tenue,  scarnifica e riduce all’essenziale quella passionalità prorompente tipica  di Gabriele D’Annunzio.  

 

                                                                                                                                                                                                                             

Dalla raccolta “Acque e terre” leggiamo il componimento “Specchio”, di cui , qui di seguito un passo:

“Ed ecco sul tronco/ si rompono le gemme:/ un verde più nuovo dell’ erba/ che il cuore riposa:/ il tronco pareva già morto,/ piegato sul botro. / E tutto mi sa di miracolo;/ e sono quell’ acqua di nube/ che oggi rispecchia nei fossi/ più azzurro il suo pezzo di cielo,/ quel verde che spacca la scorza/ che pure stanotte non c’ era”.

Constatiamo dunque come in questo componimento il poeta senta vivere e respirare in sé la natura, si identifichi con essa, fino a sentirsi parte rinascente della natura che germoglia in Primavera. C’è un panismo dilagante che porta il poeta ad essere “acqua di nube che oggi rispecchia nei fossi”, a identificarsi come parte di un tutto che alla luce della nuova stagione, così come la flora e la fauna tornano alla vita abbandonando il torpore dell’Inverno, allo stesso modo l’anima  abbandona l’inaridimento dovuto alle disillusioni della vita umana e rifiorisce, tornando a vivere e a sperare. Il tronco che pareva morto e torna alla vita è metafora di quanto detto.

Da Oboe sommerso”  del 1932 ricaviamo invece l’esempio più efficace dell’ermetismo quasimodiano:

 

“…Un oboe gelido risillaba

foglie perenni,

non mie e smemora….! ”                  

Ad una prima lettura del componimento la sensazione che ne riceviamo è una sorta di messaggio nascosto, criptato, di difficile comprensione. Abbiamo una serie di successioni foniche delle quali è complesso scorgere il reale significato. Affidiamoci allora al titolo : l’oboe, uno strumento non comune, il cui suono è sommerso. L’oboe strumento, si identifica e materializza metaforicamente nell’oboe poesia il cui suono sommerso diviene significato sommerso e nascosto, da riportare a galla.

Della raccolta “Giorno dopo giorno” è invece la lirica “l’uomo del mio tempo”:

“…Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue                                                                                                                                                                           salite dalla terra, dimenticate i padri…”

Scorgiamo già solo attraverso la lettura di questi due brevi versi, l’invito del poeta a “riplasmare” l’umanità, devastata, corrotta, depravata, “stuprata” dalla violenza, dal sangue, dalle guerre. “Dimenticate..”, grida il poeta, dimenticate la storia per riscrivere la storia, distruggete l’uomo per ricreare l’uomo, ripudiate i padri per essere nuovi padri.

Leggere Salvatore Quasimodo è come compiere “un viaggio” poetico tra passato e presente, tra antico e moderno, tra mito e realtà, tra anima e mondo, tra il detto e il non detto,  che attraverso un animo poetico che palpita, pulsa, vive nel tutto a cui attinge ,ci dimostra che la letteratura è vita nella quale immergersi per ritrovare quell’intima, segreta,innocente comunione con le cose del mondo.

 

Di Elvira Fornito.

Uomini e no: la lezione esistenziale di Elio Vittorini

Elio Vittorini

Elio Vittorini nasce a Siracusa nel 1908. Dopo aver trascorso un’adolescenza abbastanza turbolenta, fa l’assistente nei cantieri edili, il linotypista ed il correttore di  bozze. Dopo pochi anni, è a Firenze dove entra in contatto con il gruppo di Solaria.

Al di là dei risultati nel campo specifico della narrativa, Vittorini, con il suo costante impegno di miglioramento con le traduzioni delle opere di alcuni scrittori americani del tempo, con il suo essere sempre in prima linea come organizzatore culturale, con le sue polemiche e, negli ultimi anni della sua esistenza anche con il suo silenzio, è stato un protagonista indiscusso nella nostra storia letteraria.

Come ci viene spiegato in Guida al Novecento di Salvatore Guglielmino, già nella sua conclusione del suo primo romanzo Il Garofano Rosso pubblicato a puntate su Solaria, emerge con chiarezza quella strada che percorrerà fino in fondo, che è quella della presa di coscienza, della rivolta, dando prova di una notevole capacità di rappresentazione concreta della realtà, il tutto attraverso una lettura lirica della storia che riguarderà tutta la sua produzione.Su questa strada procede nel 1936 con Nei Morlacchi e Viaggio in Sardegna fino ad arrivare  a Conversazione in Sicilia nel 1942 e Uomini e no nel 1945.  In questo periodo si iscrive al PCI e fonda il Politecnico. Queste tappe della sua vita sono fondamentali per la comprensione di alcune tematiche trattate.

 

In Uomini e no il protagonista è Enne 2, un partigiano che combatte negli anni della Resistenza a Milano. Enne 2 è  un uomo combattuto e disperato a causa della sua storia d’amore con Berta, una donna sposata. La prima “impresa partigiana” che viene raccontata nel libro è l’attentato contro quattro militari tedeschi e il capo del Tribunale, attentato che innescherà una forte reazione da parte dei nazifascisti che rispondono con la fucilazione di ben quaranta civili. La nuova azione del gruppo di Enne 2 è motivata da una scena agghiacciante: il giorno successivo Enne 2 e Berta vedono  i cadaveri di alcuni civili uccisi dai tedeschi, tra cui una bambina, un anziano e due ragazzini. Questo nuovo accaduto tiene uniti per una notte Berta e il protagonista che, intanto, assiste all’ennesima crudeltà compiuta dai nazisti: un povero ambulante,  viene fatto sbranare da due cani, per aver ucciso la cagna del generale Clemm. Dopo questo, il gruppo di Enne 2  inizia un nuovo attacco contro Cane Nero, il capo dei fascisti: l’azione, però,  non ha successo e ad Enne 2 non resta che scappare. I fascisti promettono una ricompensa per il suo ritrovamento e la sua cattura. I suoi compagni gli propongono di fuggire dal suo rifugio ma Enne 2 sceglie di restare, nonostante gli avvertimenti circa l’arrivo dei fascisti da parte di un operaio. Il protagonista riuscirà nell’impresa ma in cambio della sua stessa vita. Nell’ultima parte dell’opera  Enne 2, esorta l’operaio che l’aveva aiutato precedentemente, a lottare dandogli una pistola ma, il ragazzo, alla fine, non se la sente di uccidere un soldato.

Il racconto, a tratti ermetico, è interrotto da alcuni interventi dell’autore, evidenziati in corsivo,  parti dialogate e frasi in tedesco, che inducono il lettore ad un’analisi sulla propria condizione esistenziale, alla consapevolezza dell’alienazione e alla necessità di un processo di liberazione. Nelle sue pagine coesistono realismo e simbolismo,  la realtà descritta è emblema, metafora di un’umanità ormai ferita.

Vittorini, proprio come Pavese, adotta una nuova dimensione lirica, trasfigurando ogni precisa connotazione storica o realistica e lo fa insistendo sul valore fonico della parola, attraverso l’utilizzo di vere e proprie clausole poetiche che conferiscono ai suoi testi sempre qualcosa di solenne e suggestivo. Risulta, quindi, chiaro quale fosse il suo divario con gli scrittori del Neorealismo  , che intendevano realizzare un’analisi diretta della realtà circostante.

In Uomini e no, che non può essere di certo considerato un romanzo celebrativo di carattere politico, l’evento storico più significativo, la Resistenza a Milano, spinge l’autore ad essere molto più fedele a ciò che osserva, ed infatti c’è una difficoltà di superamento proprio in un ampliarsi del nucleo narrativo che, questa volta, cambia e si arricchisce con nuovi dettagli e descrizioni.

Tuttavia, questa tendenza trasfigurante, fatta di metafore irrealistiche e lirismo, la meditazione piena d’angoscia sul tema dell’amore e della morte disturba e complica l’impianto narrativo che non risulta affatto omogeneo. Non dobbiamo però dimenticare che in quegli anni ricchi di polemiche e di equivoci sul modo di fare letteratura impegnata, veniva fuori una difficoltà enorme nel tentativo di definire il ruolo della stessa, in quanto per Vittorini la letteratura non doveva ridursi a “suonare il piffero della rivoluzione” .

Un articolo di Fabrizio Onofri su L’Unità del  1945 definiva il romanzo di Vittorini “il libro di un intellettuale che porta con sé tutti i difetti e le incongruenze della società in cui è vissuto, una società di privilegiati in cui la stessa cultura è stata oggetto e strumento di privilegio”;nel 1976, Giorgio Amendola rivela che Onofri  aveva avuto verso lo scrittore “un rapporto di rottura morale, perché durante la guerra partigiana egli si era imboscato e poi aveva presentato “un romanzo,”Uomini e no”,che forniva un quadro falso e retorico dei gappisti”. La scrittura di Vittorini, in effetti, non è di comprensione immediata, disincantata per  la mancanza dell’ ottimismo storico che non caratterizza questo romanzo sperimentale. Per alcuni quindi è stata un’opera fallimentare. Questo errore di percezione, è dovuto ad una certa superficialità e immaturità estetica degli intellettuali di sinistra; a Vittorini non interessa  il realismo, né quello storico né quello psicologico; affermerà infatti in una dichiarazione di poetica:

Io, gli scrittori li distinguo così: quelli che leggendoli mi fanno pensare “ecco, è proprio vero”, e che cioè mi danno la conferma di ‘come’ so che è in genere sia la vita. E quelli che mi fanno pensare “perdio, non avevo mai supposto che potesse essere così”, che cioè mi rivelano un nuovo particolare ‘come’ sia nella vita.  Naturalmente lo scrittore siciliano predilige questi ultimi.

In Uomini e no c’è quindi il tentativo di dare voce, con essenzialità e forza, a cose che per anni erano state taciute celebrando  sì la necessità della Resistenza, ma insinuando nella coscienza del lettore dubbi su quanto è accaduto: sul tempo, sul senso della guerra, della lotta, del morire, sull’essere uomini e no. Da non perdere.

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