Lo scrittore Erri De Luca, il governatore della Campania Vincenzo De Luca e la pentastellata Valeria Ciarambino di fronte al potere

Vincenzo De Luca: Entri, entri.

Erri De Luca: Grazie. – si ritrova in un’enorme sala affrescata con le gesta di… guarda meglio, raffigurazioni in stile rinascimentale di Vincenzo De Luca contro i titani, De Luca domatore di cavalli come Ettore, e poi De Luca e… la fondazione di Salerno, con sottoscritto a.D. 0.

Vincenzo De Luca: Lo so cosa si sta chiedendo.
Ma Erri è come inebetito.

Vincenzo De Luca: A. D. 0. Non sta per anno Domini, ma per anno De Luca.
Erri De Luca: Eh!!?? Veramente poi ero perplesso su tutto.
Vincenzo De Luca: Sì, sotto c’erano dipinti barocchi etc… sa, quelle borbonate assurde, non so se capisce il riferimento, ma i Borbone sono spagnoli, mica napoletani, almeno credo, e comunque il mondo è cambiato, ci sono io, non loro, quindi dipinti miei, non loro, li ho fatti coprire con queste nuove opere d’arte. Anche l’arte deve progredire.

Erri De Luca: Non so se gli invasati si possano definire geni.
Vincenzo De Luca: Non cerchi di offendermi, io sono un tipo calmo, non rispondo con insulti, ma non si approfitti.
Erri De Luca: No, non risponde, lei comincia proprio con gli insulti.
Vincenzo De Luca: Non l’ascolto, piuttosto pensi a Van Gogh, un pazzo, si tagliò l’orecchio, ma dipinse da genio.

Erri De Luca: Lei sarebbe come van Gogh?
Vincenzo De Luca: Ahaha, non cadrò nei suoi giochi di parole, voi scrittori le usate perché non avete altro.
Erri De Luca: Che strano, lo avrei detto dei politici?
Vincenzo De Luca: Si sbaglia, dietro le nostre parole c’è altro, ben altro…
Erri De Luca: I secondi fini?
Vincenzo De Luca: Il popolo, che è con me!
Erri De Luca: Quello camorrista sicuramente…
Vincenzo De Luca: Una minoranza quasi inesistente, e poi non ho chiesto io i loro voti. Comunque si sieda davvero. Le offro qualcosa e le dico perché l’ho fatta chiamare. Ecco sì, prenda pure. – e gli avvicinò un bicchiere…

Erri De Luca beve ma poi… sputa tutto: Ma che è?
Vincenzo De Luca: Aceto, un piccolo omaggio al suo libro Aceto, arcobaleno, dove parla di quei tre. La vita è aceto, dolore.
Erri De Luca: Non solo, è senso.
Vincenzo De Luca: E’ la politica a dare senso alla vita delle persone.
Erri De Luca: La politica o il potere?
Vincenzo De Luca: E’ la stessa cosa.
Erri De Luca: E comunque se crede di aver fatto un riferimento colto si considera troppo.
Vincenzo De Luca: No, non c’è n’è mai abbastanza di me, mi creda, c’è troppo poco De Luca in questa regione.

Erri De Luca: Ho un altro parere.
Vincenzo De Luca: Sì lo so, lei è sempre contrario, non importa chi sta al potere, lei odia il potere, ho letto il suo libello, Parola contraria, interessante mescolanza di stupidità mal scritta e invidia fin troppo evidente, lei mi sembra un rancoroso ormai idiota.
Erri De Luca sta per esplodere: Lì parlavo del diritto al dissenso contro la Tav al nord. Sono sicuro del resto che l’idiozia la riconosce come in uno specchio.
Vincenzo De Luca: Comunque vorrei confrontarmi con lei su che cosa sia la politica, proprio partendo dal quest’ultimo libro.

A Erri De Luca parve quasi che ci fosse la possibilità di non dover buttare all’aria proprio tutto delle intenzioni di quell’uomo: – Va bene.
Vincenzo De Luca: Perfetto, inizierei da questo. – Vincenzo De Luca si piega e si rialza con un sanpietrino in mano che tira in testa a Erri De Luca, dicendo – Questo incita a fare lei in quel libro, vero?
Erri De Luca ormai a terra tramortito, nella confusione mentale che lo prende, gli sembra di vedere addirittura una foto in bianco e nero di Salerno dietro il governatore. Sopra c’è Salerno a. D. per dire ante De Luca: tutto bosco, sotto Salerno a. D. per dire anno De Luca 0: una metropoli simile a Berlino. – Io non dico questo, non incitavo alla violenza, infatti sono stato assolto.
Vincenzo De Luca: Anch’io, ma…
Intanto sentono bussare alla porta.

Vincenzo De Luca: Oh, l’onorevole regionale Ciarambino, la nostra chiattona, che ci fa qui? Ha fame? Se vuole può mangiarsi De luca, lo scrittore ovviamente.
Valeria Ciarambino si avvicina velocemente alla scrivania del governatore, ma la stanza è lunga…
Vincenzo De Luca: Ha ricevuto il mazzo di fiori?
Valeria Ciarambino: Come no, li ho portati con me.
Vincenzo De Luca: Come mai?
Ma lei lo ignora.
Vincenzo De Luca: Risponda! Cos’è, non ci vede più dalla fame?
Valeria Ciarambino: Io ho fame della verità!
Vincenzo De Luca: E allora, bella chiattona mia, non sarai mai sazia, a voi grillini la verità basta solo se la cucinate voi.
Ma ormai la Ciarambino è addosso a De Luca.
Vincenzo De Luca: Ma che fai!?
Lei lo prende per la testa e gliela sbatte ripetutamente sulla scrivania fino a ucciderlo.
Erri De Luca cerca di fermarla ma…
Valeria Ciarambino: Sei dalla parte del potere forte, dovevo immaginarlo che eri un’ipocrita – e afferra anche lui, che per un attimo, guardando la Ciarambino urlare a bocca aperta ha davvero paura che lei possa mangiarlo, ma lei si limita a … uccidere anche lui.

Non andò nessuno a reclamare i corpi delle vittime, né il popolo per Vincenzo De Luca, né i no tav per Erri De Luca, così nell’ignoranza più completa, i becchini che leggono solo che il cognome di entrambi è lo stesso, li seppelliscono insieme, come fossero parenti.
Sulla lapide il marmista, che deve incidere nomi e date, non sa che lì sono seppellite due persone, pensa ce ne sia una sola, così invece di scrivere, come gli era stato detto:
Erri e Vincenzo de Luca, A.D. 2017
scrive:
Eri Vincenzo De Luca, A.D. 2017

Valeria Ciarambino mai scoperta come assassina di entrambi, diventa governatrice della Campania e nel discorso d’insediamento dice: Il popolo campano è libero da un governatore infame, che ha voluto uccidere il suo omonimo, prima di suicidarsi.

5 anni dopo la stanza del governatore è affrescata con la Ciarambino che sconfigge i titani, doma i cavalli…

XXIX edizione del Salone del libro di Torino

Mancano pochi giorni all’apertura del Salone del libro di Torino. Quest’anno il titolo del Salone 2016 che si svolgerà dal 12 al 16 Maggio è “Visioni”. L’idea è quella di un filo conduttore che faccia emergere la capacità di guardare lontano partendo da una salda conoscenza del patrimonio letterario, artistico e filosofico. Grande spazio ai “visionari” tutti coloro che hanno saputo distinguersi per la lungimiranza del progetto, l’innovazione, l’originalità dei metodi operativi e la sapienza divulgativa e comunicativa. Tra i visionari il fisico Roberto Cingolani, direttore dell’Istituto italiano di Tecnologia (IIT), centro per la robotica e nanotecnologie.

Salone del libro di Torino 2016: tra cultura e tecnologia

L’Istituto Italiano di Tecnologia porta al Salone il suo robot androide ‘ICub’, unendo così il libro, insostituibile veicolo di condivisione, le più moderne tecnologie. Insieme a Cingolani ci saranno Marino Golinelli e Brunello Cucinelli. E ancora Guido Tonelli responsabile dell’esperimento che al Cern ha permesso di scoprire, con quello di Fabiola Gianotti, il bosone di Higgs, racconterà i prossimi capitoli di questa nuova avventurosa scoperta. Renato Bruni, docente di Botanica all’Università di Parma, propone la biomimetica come metodo innovativo per dimostrare che la natura è all’avanguardia nell’offrirci soluzioni efficaci, sostenibili e rivoluzionarie. Philippe Daverio terrà una lectio magistralis dal titolo Visionari e televisionari con lo scopo di insegnare come un quadro possa aprire la strada a una pluralità di narrazioni e prospettive infinite. Legata all’arte è certamente la fotografia, in grado di trasformare un’immagine in aperture concettuali modificando la comune percezione; è il caso di un altro visionario Oliviero Toscani che sarà al Salone con un volume che raccoglie le sue opere più famose dal 1965 al 2015.  La visionarietà coniugata al passato consente di «rivedere» e riscrivere la propria storia con strumenti nuovi; è ciò che propone Carlo Ginzburg coniugando insieme scienze umane, arti figurative e letteratura e concentrandosi sulle menzogne e le violenze delle società contemporanee.

Ovviamente la letteratura resta presentissima nelle innovazioni del Salone e per gli autori italiani resta un appuntamento immancabile; in questa 29° edizione Roberto Saviano festeggerà i dieci anni del successo di Gomorra con un’edizione aggiornata del libro. Ci saranno il premio Nobel Dario Fo, Claudio Magris, Erri De Luca, Corrado Augias, Dacia Maraini, Diego De Silva, Alberto Angela, Umberto Galimberti, Luciano Canfora, Antonio Moresco, Antonio Scurati, Elena Stancanelli, Rosa Matteucci, Carlo Bonini Antonio Pennacchi, Marcello Sorgi, Michela Murgia, Donato Carrisi, Giancarlo De Cataldo, Gustavo Zagrebelsky, Igiaba Scego, Domenico Quirico. Un programma ricchissimo, giornate piene di eventi e di ospiti. Tutto il Salone si occuperà di un focus sulle letterature dei Paesi Arabi e saranno presenti importanti ospiti come la scrittrice egiziana Ahdaf Soueif, il poeta siriano-libanese Adonis, il marocchino Mahi Binebine sarà presente anche Shirin Ebadi, la prima donna mussulmana a ricevere il Premio Nobel per la pace, Michael Cunningham, Bernard Quiriny, Muriel Barbéry, Amitav Ghosh, Jeffrey Deaver, Tommy Wieringa. In più quest’anno il Salone esce dai padiglioni del Lingotto e porta i suoi «visionari» in tutta Torino e nei Comuni dell’area metropolitana più di 350 appuntamenti in 170 luoghi differenti. Scuole, chiese, biblioteche, librerie, teatri, atelier, ospedali dove ci saranno incontri con autori, reading, letture, convegni, performance musicali e teatrali, proiezioni, bookcrossing e booksharing, mercati del libro usato, mostre, showcooking.

Quest’anno numerosi saranno anche i premi e le ricorrenze che daranno vita ad altre occasioni di incontro e discussione. Ricorrono infatti 500 anni della prima pubblicazione dell’Orlando furioso. Il poema di Ludovico Ariosto sarà rievocato dalla studiosa Lina Bolzoni. Con l’Omaggio ad Amleto di Fabrizio Gifuni con un evento di Nadia Fusini dedicato a La tempesta sarà ricordato William Shakespeare. A celebrare Miguel Cervantes ci sarà con la proiezione del film Quijote di Mimmo Paladino, con Peppe Servillo e Lucio Dalla. Per i cent’anni della scomparsa di Guido Gozzano ci sarà l’omaggio di Isabella Ragonese così come per i cent’anni dalla nascita di Natalia Ginzburg, Nanni Moretti e Margherita Buy interpreteranno pagine di Lessico famigliare.

Il Salone di Torino si conferma ancora una volta come la più grande libreria italiana del mondo ma anche un prestigioso festival culturale, un essenziale punto di riferimento per gli operatori professionali del libro e uno spazio vivo, dove sviluppare idee tra tradizione e innovazione.

Il peso della farfalla, di Erri De Luca

Al primo e superficiale sguardo che cade sul piccolo Il peso della farfalla (2009), di Erri De Luca, ciò che automaticamente accade, ad un livello più o meno conscio della mente, sarà l’applicazione di svariate etichette quali “libretto”, “storia leggera”, “libricino”, “sotto all’ombrellone”, “davanti al camino”. In qualche modo, l’apparenza indurrà il cervello impreparato a sottovalutare l’opera che si trova davanti. Si verrà indotti a crederlo una specie di opera minore dello scrittore partenopeo Erri de Luca, un elaborato prodotto nei ritagli di tempo tra un articolo e l’altro, tra la pubblicazione di maestose traduzioni bibliche e l’ispirazione che conduce a storici e indimenticabili romanzi. Un errore di valutazione banale, di cui il lettore anche meno esperto o attento si accorgerà in meno di due pagine.

Il peso della farfalla è la storia di un’ascesa e di un declino, l’intrecciarsi unico e irrecuperabile di due vite opposte ma speculari e simili, la storia di due anime libere. Protagonisti un capriolo orfano e maestoso e il cacciatore che lo rese tale; filo conduttore della storia è la lotta della vita, lo scontro finale tra uomo e animale, dopo una vita di battaglie e di rincorse, colme di antico rispetto e basate sull’amore per la vita solitaria e montana.

Due esseri appartenenti a specie diverse, ma accomunate da uno spirito che rifugge la compagnia, e che spinge a preferire l’isolamento freddo dell’inverno, per nascondere i propri segreti di potenza. Il peso della farfalla è un racconto di vite parallele, purtroppo destinate ad uno scontro che distrugge, anziché creare. Una storia che fa riflettere, in un periodo storico in cui cresce sempre più la consapevolezza dell’importanza dell’ambiente ma, con essa, aumenta esponenzialmente anche il distruttivo menefreghismo e la noncuranza dei governi, e delle grandi istituzioni internazionali, che ancora non si spingono a muoversi con gesti decisi e coraggiosi, con atti che possano salvaguardarlo mettendo la parola “fine” a questo capitolo autolesionista della storia umana.

Il piccolo libro è anche uno spunto di riflessione forte anche per l’aspetto del rispetto nei confronti del nemico, dell’avversario. Un rispetto raro, con pochi predecessori. L’esempio più alto e celebre si trova forse in Achille, che concede al vecchio re Priamo, inginocchiato e umanamente sconfitto nella tenda del semidio, di riportare a casa il corpo del figlio da lui assassinato, anziché tenerlo come trofeo di gloria. Un rispetto agli antipodi dell’odio cieco e famoso del capitano Achab che conduce i suoi uomini e la sua nave verso la morte, pur di inseguire un’insensata vendetta contro un animale, la balena, Moby Dick.

Il peso della farfalla è un’opera che non va sottovalutata, questa è la conclusione finale del lettore, che arriverà al punto finale della storia con una velocità disarmante, guidato da una prosa peculiare ed incalzante, che sembra un susseguirsi logico di aforismi, affatto banali, sulla natura, sull’essenza della vita, sul rispetto. Non ci sono capitoli, ma brevi e spezzati paragrafi, in cui si confondono quasi i soggetti, le due anime simili; paragrafi che trascinano il lettore nella vita intrecciata della preda e del cacciatore, fino all’ultimo canto del cigno, fino all’ultimo battito d’ali della farfalla bianca, senza sbilanciarsi in posizioni estremiste, bensì con grande equilibrio ed incanto, con richiami semplici e poetici e per questo meravigliosi e forti alla quotidianità della vita umana.

Consigliato soprattutto a chi ama montagna e conosce le sue leggi e la spietatezza. Un piccolo sussidiario di vita che ci ricorda come uomini e animali siano entrambi il risvolto della stessa medaglia, sebbene De Luca lasci sottointendere (cadendo purtroppo nella frequente retorica antropocentrica di chi pretende di applicare le categorie del bene e del male in natura ) che l’animale è sempre migliore dell’uomo. La natura è profondamente amorale.

Erri De Luca: ‘Il giorno prima della felicità’, un melò poco riuscito

Romanzo dai buoni sentimenti, Il Giorno prima della Felicità (2009) dello scrittore partenopeo Erri De Luca, non riserva molte sorprese e colpi di scena. Sin dalle prime pagine si intuisce che tutto finirà bene, qualsiasi evento coinvolga il protagonista.

La trama de Il Giorno prima della Felicità richiama uno dei tanti film ambientati nei quartieri poveri di Napoli, qui il giovane eroe, una sorta di David Copperfield partenopeo, orfano e abbandonato a se stesso può confidare sulle premure di un portinaio dal cuore d’oro che lo alleva come fosse suo figlio. Il bambino scopre nel cortile del palazzo in cui vive un rifugio segreto, utilizzato durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Così al racconto si uniscono i ricordi sull’occupazione tedesca, una storia nella storia, espediente abusato ma sempre di indubbio effetto sul lettore. Il portinaio si fa a sua volta narratore e racconta le atrocità determinate dalla miseria. Ma siamo in un romanzo dai buoni sentimenti, pertanto immancabile è l’amicizia con un ebreo che egli ha protetto.

Nel lavoro di De Luca è possibile individuare ogni “furbata” che si sa per certo è in grado di coinvolgere il lettore e permette alla trama di non subire cadute di tensione emotiva. Il passato evocato dal portinaio si intreccia al presente del protagonista e l’atto del narrare pone l’accento sulla magia della parola sia essa scritta o orale. La disamina metaletteraria scivola però nel didascalico moraleggiante.

A coronare questa fiera delle banalità è l’amore, inevitabilmente travagliato e ancora una volta ricalcato su qualche figura romanzesca di brontiana memoria oltre che la  fastidiosa tenacia di volere a tutti i costi trovare e far trovare al lettore somiglianze con lo spirito della cultura ebraica, ed ecco che spunta il perseguitato che vive nell’oscurità delle cantine.

Pagina dopo pagina il lettore accompagna il protagonista dall’infanzia alla maturità e si abbandona alle parentesi introdotte dall’autore con arguzia. Infatti nulla è casuale e come nei romanzi di formazione che si rispettino il finale aperto è il suggello sulle “grandi speranze” riposte nel giovane scugnizzo.

De Luca evoca con perizia ed empatia la vita nei quartieri, la loro miseria e affonda la penna nella realtà. Tuttavia l’epilogo sbrigativo si colloca più nella dimensione televisiva e rovina la patina neorealista. È innegabile che l’autore sappia raccontare una storia con padronanza ma gli stereotipi sono notevoli e a volte non è ben chiaro il suo intento, ovvero se voglia raccontare la storia di un bambino o celebrare il proprio amore per la scrittura e i libri. In quest’ultimo frangente si evince un trasporto maggiore, una spinta emotiva che a tratti l’autore non riesce a controllare e a trattare con sufficiente distacco. Di conseguenza la dimensione narrativa e quella metaletteraria non si saldano ma restano su due livelli sbilanciati e distinti. Si cerca invano di replicare l’inarrivabile e poetico universo letterario di Eduardo De Filippo, come dimostrano la presenza dei ciabattini macchietta, dei portinai che insegnano a vivere, sciorinando pillole di saggezza, e di don Gaetano, vero protagonista della storia che sa leggere nei pensieri della gente e che alleva il bambino.

Il giorno prima della felicità risulta un melò non tra i migliori di De Luca, con un finale frettoloso, dove l’autore partenopeo ha messo troppa carne al fuoco, in cui si rintracciano calchi letterari, cinematografici e televisivi, ma con un intento tutt’altro che piacevole e originale, dettato da esigenze più che altro commerciali, un filone nel quale il lavoro di De Luca si inserisce a pieno titolo.

‘I pesci non chiudono gli occhi’, di Erri De Luca

La voglia di crescere, di cambiare, quel desiderio di vedere il corpo maturare, trasformarsi; c’è tutto questo in I pesci non chiudono gli occhi dello scrittore partenopeo Erri De Luca.

“L’infanzia smette ufficialmente quando si aggiunge il primo zero agli anni. Smette ma non succede niente, si sta dentro lo stesso corpo di marmocchio inceppato dalle altre estati, rimescolato dentro e fermo fuori.”

Erri De Luca torna, nel 2011, con un romanzo edito da Feltrinelli, infarcito di frasi che sembrano poesia. Una musica che accompagna una dolce e amara malinconia, sembra attorniare queste pagine. Un uomo che torna indietro con la propria mente, la guerra, il dopoguerra, gli americani, i tedeschi, una città distrutta e un padre che cerca fortuna altrove. Ancora un’isola, probabilmente Ischia, dove De Luca aveva ambientato “Tu, mio”, dove trascorrere l’estate, tra enigmi da risolvere e due nuovi occhi da guardare.

Da quei cinquant’anni tutto è cambiato, tutto o niente. Quel bambino è ancora li, ricorda e sente, sente e ricorda. Vede ancora quegli adulti, conosciuti attraverso i libri del padre, nient’altro che “…bambini deformati da un corpo ingombrante. Erano vulnerabili, criminali, patetici e prevedibili.”  

Nelle parole di De Luca conosciamo un altro piccolo protagonista senza volto, siamo noi, è lui, siamo noi. Un’infanzia fatta di silenzi, di sguardi persi nel vuoto, in quella voglia di cambiare, di apportare al corpo quella trasformazione che la mente già sente sua, in ogni più piccolo centimetro di essa. Ma il corpo resta li, fermo, immobile, e allora resta da scegliere una strada da percorrere per forzarlo, quel cambiamento. Con una rottura dello stesso corpo, solo così, qualcosa, sarebbe cambiato.

Le parole scorrono con dolcezza, attraverso quella malinconia che ci riporta indietro ogni qual volta osserviamo i luoghi che hanno accompagnato la nostra infanzia, quei luoghi fatti di quegli attimi che ci hanno cambiato. E allora il bambino cambia, il corpo inizia la sua trasformazione, “forzata”; attraverso il sangue, le lacrime nascoste, prese di posizione di fronte ad una madre che non sa scegliere, che sembra aver bisogno dell’appoggio di un “bambino” di dieci anni per trovare le sue risposte. O è forse quel bambino, a sentire di doverle dare, quelle risposte.

Il romanzo, racchiuso nella sua dolcezza, ci parla di una storia ordinaria, ma indimenticabile. Poche parole, poche notizie, piccoli accenni, spesso brevi commenti. L’indispensabile per raccontare quei momenti che tutto cambiano.

E poi lui, quel sentimento che sconvolge l’animo, che lo riempie e lo svuota, che smuove dentro, che arricchisce con le sue mille ferite. L’amore, quel solo verbo, “amare”, che il bambino non riesce a comprendere. I grandi se ne riempiono la bocca senza nemmeno sapere cosa sia. Ma quell’estate anche questo cambia. L’ amore arriva e ha due occhi che, il nostro giovane protagonista non riesce a smettere di guardare.

“Ero rimasto immobile a guardarla. “Ma tu non chiudi gli occhi quando baci? I pesci non chiudono gli occhi.””

I racconti di quei momenti che riportano all’ infanzia, si alternano ai pensieri dell’uomo ormai divenuto adulto: lo scrivere di oggi, il salire su un palco a strimpellare la chitarra, la morte dei genitori, la mano di sua madre che posava tiepida sulla fronte, fino all’ultimo. E ancora la madre, che amava tanto gli scrittori e che lo amava, anche come scrittore. Spesso, quando qualcuno dei suoi libri le era particolarmente piaciuto, lo guardava e diceva “Aro’ sì asciuto?” (Da dove sei uscito). E lo stupore, accompagnato da un dolce sorriso, per quell’amore, per quel verbo che, ancora oggi, gli adulti non sono in grado di comprendere.

Lo scrittore si lascia andare ad un certo autocompiacimento, ma le pagine scorrono veloci. I pesci non chiudono gli occhi è nn altro libro da “divorare”, come tutti quelli con cui lo scrittore napoletano ci ha appassionato. E quella lingua, il napoletano, quella che anche chi non la conosce, non può fare a meno di amarla. E così, Erri De Luca, torna a Napoli, noi camminiamo accanto a lui, ascoltiamo quella musica dolce, quella malinconia che accompagna le nostre giornate, gli anni che passano, inesorabili, come il tempo che corre troppo velocemente. Ma a De Luca, come un dono, è stato fatto quel dono che si concede solo ai grandi scrittori. Lui lo ferma il tempo, il nostro tempo, quello passato: ai ricordi andati, rimasti in quell’isola dove, quel tempo da bambini, si fermava per imparare a vivere.

“Capivo all’indietro quello che succedeva dentro i libri, quando uno si accorge della specialità di un’altra persona e concentra su quella l’esclusiva della sua attenzione. Capivo l’insistenza di isolarsi, starsene in due a parlare fitto. Non c’entrava per me il desiderio, quell’amore chiudeva con l’infanzia ma non smuoveva ancora nessun muscolo degli abbracci. Scintillava dentro, mi visitava il vuoto e me lo illuminava.”

Montedidio, di Erri De Luca

“Fai bene a dire tenere invece di avere. Avere è presuntuoso, invece tenere lo sa che oggi tiene e domani chi sa se tiene ancora.” Montedidio di Erri De Luca è una storia narrata con dolcezza e passionalità, con amore e orgoglio in quella lingua, quel dialetto che ti si “appiccica” addosso se sei nato e cresciuto a Napoli.

Non siamo a Gerusalemme, bensì a Napoli in uno dei suoi luoghi più antichi, forti, colmi di storia, di realtà, di verità, quella che scorre nelle vene, quella che non puoi dimenticare, allontanare, ma solo vivere. Un ragazzino sembra essere il protagonista di uno dei libri più belli scritti da colui che continua ad emozionarci con quel dialetto, quella lingua e tutto dice attraverso poche parole, piccoli gesti.

L’italiano è una lingua senza saliva, il napoletano invece tiene uno sputo in bocca e fa attaccare bene le parole. Attaccata con lo sputo: per una suola di scarpa non va bene, ma per il dialetto è una buona colla.”

Ma qui, tra queste pagine, ancora una volta nei romanzi di De Luca, la nostra protagonista è Napoli, raccontata e vissuta. Un ragazzo mette per iscritto i suoi pensieri, la sua vita. A tredici anni impara il “mestiere”, l’italiano, “l’ammorre”, quello con due emme, quello che forse non puoi raccontare. O forse si. Perchè lui, Erri De Luca, ci riesce. Riesce a spingersi oltre con semplicità e dolcezza, riesce a portarci in quei quartieri, vicoli, strade stretta dove anche i fantasmi sembrano non avere pace.

“… per le scale di sera passano gli spiriti. Senza il corpo hanno nostalgia solo delle mani e si buttano addosso alle persone per desiderio di toccare.”

Il primo lavoro è nella bottega di un falegname dove il nostro piccolo “protagonista” di Montedidio incontra e conosce un vecchio ebreo giunto a Napoli solo per caso. La sua meta era un’altra, Gerusalemme, appunto. Giunge in treno Don Rafaniello. E lì, mentre osserva e spera, odori, rumori, un qualcosa d’immenso mai visto prima lo porta in quella città, in quel paradiso che nessuno sembra aver compreso, non ancora, non oggi, non ora, non qui. Don Rafaniello resta a Napoli, insegna al piccolo bambino che vuole diventare uomo, a osservare la gente, il loro modo di stare al mondo, a comprendere i loro sogni, quei desideri nascosti, quegli adulti che non sanno che farsene della felicità. L’infelicità sembra più facile, si attacca addosso, come la colla, come il napoletano, come quella lingua.

Un mistero avvolge la vita di questo vecchio ebreo, una predizione, il sopraggiungere di quella fine, lieve, tanto attesa, che porta sollievo. Le ali di un angelo, o forse è lui, quell’angelo.

E poi il degrado familiare, la malattia della madre, un padre assente e l’ammore, quello per Maria. Una ragazzina, una bambina che la vita e le attenzioni malsane del padrone di casa hanno reso già grande. E ancora lui, il nostro piccolo uomo che sogna di salvarla, la sua amata e continua a vivere accanto a quell’angelo ebreo aspettando quelle ali che spunteranno dalla sua gobba. Lui lo sa, è solo questione di tempo. Volerà.

E poi un’immagine. Un oggetto che percorre le pagine di questo romanzo. Un pezzo di legno magico, un “bumeràn“, un regalo ricevuto dal padre con cui il ragazzo si allena ogni giorno, ma senza farlo volare. Aspetta, osserva. Lì non c’è spazio, presto ce ne sarà.

“…sopra questo quartiere di vicoli che si chiama Montedidio se vuoi sputare in terra non trovi un posto libero tra i piedi”.

Ma sarà questo continuo esercizio a portare in lui la consapevolezza del cambiamento. Il corpo cresce e cambia, così come la mente, i pensieri. Bisognerà attendere quella notte, la notte di capodanno. Quella notte in cui tutto finisce e tutto ha inizio. La notte della profezia, la notte del volo di un angelo, la notte fatta di libertà e speranze. Una notte che lascia “due piume e un paio di scarpe“.

“Le Monde” ha definito Montedidio il miglior lavoro di De Luca. In un tempo che sembra essere avvolto in un solo secondo, lo scrittore napoletano mostra un’adolescenza mai cominciata. Dal primo giorno di lavoro all’ultimo giorno dell’anno tutto sembra svolgersi in un istante. Un tempo veloce e inesorabile. E ancora lei, Napoli. Le sue strade, la sua forza, la sua voglia di essere compresa, l’impossibilità di riuscirci. Non tutti sono nati per capirla, questa città. I tentativi di capire, comprendere. Capire se stessi, capire ciò che cambia e ci avvolge, capire il mondo, quello degli adulti e quello che tocca la vita, in ogni sua sfumatura.

Piccoli capitoli, brevi, forti, intensi. Immagini che escono fuori attraverso poche parole. Eccolo. Un altro. Un capolavoro. Un’opera degna di essere vissuta.

“Mi chiedo da solo: non me ne potevo accorgere per conto mio di esserci? Pare di no. Pare che ci vuole un’altra persona che avvisa.” 

“Non ora, non qui”, di Erri De Luca

“Molti particolari non formano un ricordo, molti ricordi non costituiscono un passato.” Torniamo indietro nel tempo attraverso le parole di colui che è stato definito “lo scrittore del decennio“. Erri De Luca, in “Non ora, non qui”, opera che ci sembra di comprendere a fatica nelle sue prime pagine, ci insegna in un silenzio fatto di dolci parole, l’intimità di un ricordo forse sepolto nella memoria. Il tempo è distanza, malinconia. Una malinconia che di dolce non ha più nulla. Un tempo che torna a galla dalla memoria sepolta. Quella memoria che, forse, spesso, cerchiamo di cancellare.

Un bambino di nove anni, il dopoguerra, le difficoltà della vita, una vita crudele che non ha rispetto per niente e nessuno. Un trasloco che lo porta lontano, un primo passaggio verso quell’età adulta che una volta giunta, cerchiamo di allontanare con tutte le nostre forze. Una povertà che si cerca di combattere, di capovolgere. Vista e vissuta da lontano con la sola certezza di essere strappato dalle proprie radici, dalla propria vita, dalla sua Napoli. E poi lei. Una madre che sembra non comprendere. Un figlio lasciato a se stesso, a quelle parole che non vogliono uscire accanto a quel mondo che non sembra volerlo accettare per quello che è.

“Così si snodava il reparto familiare: genitori preceduti dalla figlia e seguiti con lieve ritardo da me.

La difficoltà nel parlare porta con se una fatica incontrollabile di avvicinarsi al mondo.  Perchè questo mondo non ammette quella sensibilità, non ora, non in questo momento. Forse mai. “Non ora, non qui.

Da bambino non ammettevo il passato.” De Luca, con quella dolcezza, quella sensibilità che ci porta ad amare ogni sua parola, ci riporta indietro. A quel rapporto materno che ha condizionato le nostre vite. A quelle paure che ci hanno reso più forti o forse solo più soli. Una solitudine difficile da combattere, impossibile da comprendere.

L’opera prima dell’autore napoletano, ci mostra una madre e un figlio, una foto, un’immagine che nella nostra mente sembra essere sbiadita, ma che diventa più chiara pagina dopo pagina, parola dopo parola. Una donna frustrata dalla propria condizione, dalla propria vita, una donna che non riesce a capire, una donna sola.

Ancora una volta ci siamo noi nelle parole dello scrittore napoletano. Siamo nei suoi protagonisti, una madre e un figlio. Siamo nelle immagini che la nostra mente crea legata ad ogni frase. Siamo nella sua malinconia, nella sua dolcezza, in una morte che sembra giungere lenta e ancora una volta legata al volto materno. Siamo in quei ricordi. In quel legame che non può spezzarsi. Siamo la madre. Siamo il figlio.

Amarezza, tristezza, bellezza. Elementi ricorrenti nelle opere di De Luca, il cui talento sta nel riuscire a coinvolgere tutti, a prescindere dall’età, dal livello di istruzione e dal ceto sociale, ma senza autocompiacenza. “Non ora, non qui” sussurra ai lettori, attraverso una scrittura colta che si nutre di filosofia che per qualcuno può risultare noiosa ma che ci fa comprendere il senso delle parole usate dallo scrittore che riflette sulla società moderna e su quello che conserviamo dentro. In questo senso il romanzo di De Luca è democratico e spiazzante nel finale.

E poi ancora un’immagine. Un finestrino di un autobus; è da li che il nostro protagonista osserva la propria madre. Ora ha sessant’anni. Torna indietro e noi con lui. Un racconto che entra nel racconto. Un momento in cui madre e figlio giungono ad essere coetanei, ma legati da quell’incomprensione che durerà fino all’ultimo istante, fino a quell’ultima parola.

Un romanzo che si presenta con una forza indistruttibile. Una lacrima che scende dopo quell’ultima frase.; è così, è inutile negarlo. Erri De Luca è lo scrittore del millennio.

“Avevi ragione, molte delle cose che mi sono accadute furono errori di tempo e di luogo, cose da dire: non ora, non qui.”

 

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