Edith Södergran, fondatrice del modernismo finlandese

La vita di Edith Irene Södergran fu breve come una “stella caduta risuonando”, anche se la sua luminosità fu più evidente per i posteri. La giovane poetessa finlandese infatti fu considerata post mortem una delle voci più autorevoli dell’espressionismo e del modernismo nazionale e della poesia svedese (lingua in cui si espresse, pur essendo finlandese).

Il modernismo di Södergran

Södergran molto probabilmente è stata profondamente influenzata dai simbolisti, influenza che ritroviamo anche in questa lirica struggente e suggestiva, fatta di immagini e di languore. Lo stesso languore con cui attendiamo che l’altro si avvicini nonostante le schegge a baluardo della nostra condizione solitaria

Quando viene la notte,
io sto sulla scala e ascolto,
le stelle sciamano in giardino
ed io sto nel buio.
Senti, una stella è caduta risuonando!
Non andare a piedi nudi sull’erba,
il mio giardino è pieno di schegge.

Tramite l’uso di vari mezzi stilistici, la poetessa scandinava canta la bellezza e la ricchezza della vita, e alterna visioni di beatitudine ultraterrena a momenti di malinconica rassegnazione, in un personale mondo di immagini.

Södergran e lo svedese

Lo svedese non era né una scelta pragmatica né una lingua ovvia per la poesia d’avanguardia di Södergran, la quale, nata da immigranti finlandesi-svedesi a San Pietroburgo e dove frequentò una scuola preparatoria tedesca, era competente in tedesco, russo, francese e inglese, oltre allo svedese nativo.

Allo stesso modo, la decisione di Södergran di passare allo svedese per la sua poesia pionieristica ha limitato la circolazione del suo lavoro tra il pubblico accademico e quello popolare negli Stati Uniti. 

Ma passare allo svedese è stata una decisione decisamente avanguardista, coerente con la visione di Södergran per la sua arte. Ha cercato di liberare l’anima svedese dalla decadenza delle generazioni precedenti e di infonderle un nuovo spirito rivoluzionario.

L’importanza della natura

Nel suo manifesto “Arte individuale”, la poetessa scrive, “Jag betraktar detgamla samhället som modercellen, som bör stödjas till dess individerna resa den nya världen” [Considero la vecchia società come una cellula madre che dovrebbe essere sostenuta fino a quando gli individui non erigeranno il nuovo mondo].

Infine, e forse più significativo per la sua duratura influenza, è il suo lessico poetico straordinariamente semplice, che seduce i lettori a impegnarsi con una poetica che risulta non essere né semplice né naturale per le definizioni convenzionali.

Il lessico preferito di Södergran coinvolge gli elementi primordiali della natura, come i colori primari (soprattutto rosso, blu e bianco), fuoco, vento, acqua, sole, stelle e le caratteristiche fisiche del corpo femminile, da cui emanano tutti gli altri elementi. Il corpo femminile, quindi, funge da luogo e fonte di creazione per i nuovi campioni di poesia Södergran.

La forte associazione del poeta-oratore creativo con le funzioni fisiche del corpo femminile ha un’importanza particolare per la poesia lirica dati i suoi usi elegiaci convenzionali, in particolare da parte di un oratore maschio che desidera un’amata perduta.

Come sostiene Teresa Brennan, “l’ordine simbolico in cui opera il linguaggio, che rende possibili la cognizione, l’articolazione e il giudizio, è stato basato su una fantasia psichica della donna”.

Nelle poesie di Södergran inoltre sono state evidenziate dalla critica dei legami con il mito di Arianna abbandonata da Teseo.

 

 

Fonte https://www.ilcapoluogo.it/2020/06/28/emergenza-poesia-le-stelle-di-edith-sodergran/

‘Gli egoisti’: l’opera postuma di Federigo Tozzi sull’ambiente letterario romano

Lo scrittore toscano Federigo Tozzi è un classico che gode di una paradossale fortuna: sempre più studiato, ma tutt’ora poco letto; ormai da tempo assurto nel canone (soprattutto grazie a Debenedetti e Baldacci), ma in forme particolarmente mosse e dibattute. Il che, certo, dipende anche dal carattere scorciato ed ellittico delle sue narrazioni, i cui vuoti, disorientanti per il lettore ingenuo, hanno variamente sollecitato la critica. Del resto, se classico è quell’autore che «non ha mai finito di dire quel che ha da dire», Tozzi lo è in modo particolare; anche perché, con lui, più se ne sa, e meno si può concludere; più si guardano da vicino i suoi testi, e più si rivelano nuovi spessori.

In tal senso anche un romanzo breve come Gli egoisti – forse minore, e certo dalla critica meno considerato – può costituire un valido terreno di prova: un testo ricco e problematico, sul quale sono stati dati giudizi dai margini d’oscillazione anche molto ampi, ma che, appunto, non smette di interrogarci. Scopo di questo contributo sarà dunque quello di metterne in luce alcune peculiarità stilistiche e narrative, muovendo dal testo e tornando al testo. Senza pretese conclusive, ma cercando di avvalorare gli spunti interpretativi con osservazioni d’insieme e primi piani. Gli egoisti sono un’opera postuma, non licenziata dall’autore e pubblicata per la prima volta nel 1923 (in un unico volume assieme a L’incalco, per le cure di Emma Tozzi e Giuseppe Antonio Borgese), sulla base di un dattiloscritto probabilmente composto tra il 1918 e il 1919, e sostanziosamente rivisto nel gennaio del 1920 (due mesi prima della morte).

Trama e contenuti del romanzo di Tozzi

Gli egoisti, ambientato in una Roma seducente e ingannatrice, ed imperniato sull’ambiente letterario romano, ha per protagonista Dario, un musicista di Pistoia trasferitosi a Roma in cerca di fortuna. Un conflitto interiore tormenta l’animo dell’uomo che spesso viene assalito dalla solitudine: Dario ama Roma e Albertina, ma entrambe sembrano respingerlo. Il rifiuto scatena in lui impulsi contrastanti che lo portano ad allontanare e detestare ciò che in realtà desidera. Vagando per Roma con gli amici nel vano tentativo di dimenticare le proprie delusioni, Dario riuscirà a far emergere i suoi più profondi sentimenti. Un grande libro, Gli egoisti, dove arte e vita si confondono tra spine indistricabili, in poche pagine, purtroppo poco capito e grande nella misura stessa in cui esso si salda con le origini prime della vocazione tozziana: il battesimo dannunziano.

Il carattere non definitivo della versione pubblicata e la discontinuità della sua gestazione sembrano riflettersi nella struttura profonda di questa opera. E questo non tanto perché la natura desultoria e scheggiata del narrare tozziano risulta qui quasi esasperata dalla suddivisione in sedici brevi capitoli così frammentati al loro interno da apparire come unità narrative, se possibile, più labili del solito. Ma piuttosto perché, nella stesura degli Egoisti, paiono essersi alternate intenzionalità, per non dire poetiche, diverse. Da un lato, infatti, con modalità che paiono muoversi nella scia di Con gli occhi chusi, buona parte del romanzo – secondo noi, quella migliore – persegue la rappresentazione (psico)drammatica, necessariamente ondivaga e sussultante, della nevrosi e della visionarietà del protagonista, alter ego di Tozzi. Dall’altro, nel finale soprattutto, sembra emergere un’istanza etico-ideologica che subordina la rappresentazione al messaggio.

Aspetti linguistici

L’ambientazione romana del romanzo, al di là della toponomastica, non comporta nessuna nota linguistica di colore locale; ma forse è responsabile del fatto che la componente toscana è qui meno rilevata che nei precedenti romanzi. Negli Egoisti, infatti, senesismi e toscanismi sono quasi del tutto assenti anche nel dialogato. E, in definitiva, si limitano ad alcuni tratti fonomorfologici (v. bevere, escire, leticare, riescire, smovere, torbo, ma soprattutto il verbo-insegna doventare, 11 occorrenze, sempre preferito a diventare) e a poche forme più accusate: crocchiolante (‘croccante, scricchiolante’), 15 diaccio, p. 458 (‘ghiacciato’), giomella, p. 476 (‘cavità formata dalle mani giunte’), rincincignare, p. 469 (‘spiegazzare’), rincalcagnato, p. 473 (‘ammaccato’), scrinatura, p. 453 (‘scriminatura’), stroppione, p. 459 (‘scardaccione’, nome comune del ‘cirsium arvense’) e trasaltare, p. 465 (‘trasalire’).

Quanto ai consueti effetti di relativizzazione e soggettivizzazione, essi si manifestano in forme ulteriormente insistite; come segnala l’accentuato ricorrere di come (con valore approssimante), forse, parere, sembrare e, soprattutto, di quasi e come se (comparativo ipotetico). I riscontri statistici lo dimostrano,18, ma basterebbe anche una semplice rilettura del primo capitolo per convincersene. È però nella resa degli stati allucinatori e visionari del protagonista che pare di poter cogliere il nucleo più originale degli Egoisti. Qui infatti il frantumato procedere della rappresentazione tozziana non solo ha luogo entro un quadro di estrema de-realizzazione, ma contempla anche nuove forme, ancor più destabilizzanti, d’incrinatura d’una dimensione narrativa tradizionale:

Ad un tratto, gli parve che la sua anima si mettesse a suonare; ma non percepiva distintamente nessuna musica; come se fosse stato profondamente sordo. Cercò d’ascoltare meglio: attese che una nota più bella si chiarisse; per poterla ricordare. Attese con ansia acre, quasi disperata. Ma, quella larva sparì; e non ne restò nessun segno. Pure, era sicuro di averla sentita! Ora, gli pareva d’essere in una piazza; dove non era stato mai; camminava a passi cadenzati, e una specie di fanfara, anche questa inespressa, lo faceva muovere come se danzasse. La piazza era grande e non finiva più; si allargava sempre; benché restasse eguale.
(cap. II, p. 459)

la narrazione degli Egoisti è tutta un susseguirsi di microeventi e un altalenarsi di stati d’animo contrastati, che si presentano come assoluti ed effimeri insieme. Al senso di una interiorità senza saldezza, che senza sosta si sfa e si trasmuta, si somma così quello di una realtà esteriore anch’essa in continua agonia e mutamento: colta, per lo più, nei suoi scollamenti e nel suo deformarsi; percepita come sul punto di cedere, pronta a fendersi e a richiudersi, ma sempre senza possibilità di rivelazioni o incanti durevoli:

Ma si fermò ad ascoltare un pino che si smuoveva; come se fosse stato per aprirsi quanto era largo il cielo. Allora, tremando tutto, non potendo più tenere la voce che non obbediva alla volontà, le gridò:

– Stanotte, scriverò la musica che io sento ora!
E, quando egli si fu calmato, senza che Albertina fosse riuscita a dirgli una
parola, tutta la notte era stellata, e il pino fermo e chiuso.

D’altronde la vita di un artista, di uno scrittore è anche questo. E Tozzi lo sapeva bene.

 

Fonte: https://www.academia.edu/10015153/2013_Gli_egoisti_di_Federigo_Tozzi._Appunti_per_una_rilettura

Arti figurative, musicalità dei versi e richiami eterogenei nei misteriosi ‘Canti Orfici’ di Dino Campana

Storia vecchia come il mondo quella che associa i poeti ad una qualche forma di pazzia. Già Platone d’altronde era stato chiaro: un uomo è incapace di poetare o dare responsi se non è fuori di sé, invasato, finché la sua mente vacillante non c’è più. Dino Campana la fama del folle inizia a cucirsela addosso sin da giovanissimo con le azioni più che con l’inchiostro della penna: le fughe improvvise, il misterioso vagabondare tra i monti, i subitanei furori, la tormentata storia d’amore con Sibilla Aleramo, le minacce a Papini reo di aver perduto il suo prezioso manoscritto, tutti elementi che avrebbero presto portato a una precisa diagnosi e a una fatale condanna: schizofrenia, sia internato.

Il definitivo ricovero segna il punto di non ritorno: sul giovane poeta imbronciato di belle speranze cala un velo e lo stesso può dirsi per i suoi Canti Orfici, pubblicati dopo svariate peripezie soltanto nel 1914 e finanziati principalmente dalle sottoscrizioni dei pochi amici ed estimatori.
La critica si divide quasi immediatamente tra chi lo disprezza, da Papini fino a Saba che di lui dice che era matto e solo matto, e chi riesce, come Montale, a cogliere la novità di un’opera misteriosa e straniante, di un’arte tutta alienata dinanzi alle istituzioni letterarie, scriverà Sanguineti. Non c’è da stupirsi: sin dal titolo i Canti Orfici contengono un avvertimento. Se canti allude alla componente primigenia musicale della poesia, orfici, parola carica di misticismo, è sia un atto di fede che una restrizione del campo dei lettori: solo un’élite di iniziati come gli adepti del culto di Orfeo sarà capace di sciogliere il mistero, di leggere tra le righe, di apprezzare la grandezza dell’opera.

Dino Campana, da buon veggente, guarda al mondo che lo circonda con occhi diversi, coglie segrete corrispondenze, recepisce messaggi rivolti al suo io e li fissa sulla pagina. Di sicuro, in un periodo in cui si registra da più parti la crisi diffusa dei valori e delle forme con cui la letteratura ha fino ad allora saputo esprimersi, anch’egli tenta di percorrere nuove strade e lo fa con l’impeto del visionario. Nella sua esperienza unica e irripetibile il poeta toscano condensa la ricerca di un esclusivo e proficuo rapporto con le arti figurative, il lavoro sul ritmo e sulla musicalità del verso, la produzione di immagini e simboli disturbanti che strizzano l’occhio al mistero, le frequenti allusioni a qualcosa di inafferrabile, così vicino e così irrimediabilmente distante. Straordinariamente innovativo, il suo è un esperimento rischioso ed egli sa che può fallire, ma vi si dedica anima e corpo per l’intera vita, anzi, ne fa il senso ultimo della vita. Tutta colpa della follia?

Gli studi sui Canti Orfici, moltiplicatisi negli ultimi decenni e arricchiti dei contributi offerti da materiali inediti (ma raramente fuoriusciti dall’ambito accademico), ci restituiscono il ritratto di un autore estremamente lucido che compie scelte precise e consapevoli. I modelli da cui trarre ispirazione, sia a livello tecnico-formale che ideologico, sono tutti presenti nella raccolta, creano un amalgama eterogenea di richiami e reminiscenze che si moltiplicano e si compenetrano come in un complesso gioco di specchi. Si ritrovano allora i grandi maudits d’Oltralpe, in particolare Rimbaud, l’amato Whitman dal lento incedere al limite del prosastico, il Carducci classicheggiante intimo cantore di paesaggi, il Pascoli dell’allusività e del mistero, il D’Annunzio verlibrista passionale moltiplicatore di simboli e allegorie, il Dante della Commedia, sorta di fratello spirituale col suo pellegrinaggio dalle tenebre verso la luce, persino Nietzsche riecheggia in più punti.
E ancora, mentre viene celebrata la grandezza dell’arte rinascimentale (Leonardo, Michelangelo, Botticelli, Durer e gli altri “divini primitivi”), oggetti e ambienti assumono le tonalità evocative dell’Espressionismo, le spigolose sfaccettature del Cubismo, la dinamicità futurista e il fascino onirico del Surrealismo. Perché nell’estasi del furore creativo Dino Campana non ha bisogno di distruggere la tradizione tout court, gli basta piuttosto selezionare gli autori, i pensatori, gli artisti che costituiscono la “sua” tradizione e nel loro solco inserirsi per proseguire la ricerca. Nelle sue scelte, anzi, egli si riserva di attingere a piene mani da ciò che più gli va a genio in ciascuno di loro e questo spiega anche alcune sospette contraddizioni fra dichiarazioni autoriali e prassi (si pensi, ad esempio, a quel D’Annunzio definito “Vate grammofono” la cui lezione è, però, imprescindibile o alla contestazione del Futurismo sul piano letterario in quanto “senza armonie”, ma di cui sono condivisi diversi assunti teorici).

Fedeli all’ideale di una poesia totalizzante in cui far confluire la cultura in blocco abbracciandone le più svariate manifestazioni, i Canti Orfici puntano ad essere un “libro-tutto” e risultano invece un “libro-limite”, nel senso che mostrano tutti i limiti di un progetto già intrapreso da altri (Mallarmé e Lucini) e votato per sua stessa natura al fallimento. Lo sforzo di Dino Campana è eroico, la chimera “pallida-esangue” che insegue di fatto inafferrabile, l’opera cui attende richiede dedizione e sacrificio, ma allo stesso tempo condanna all’isolamento e all’incomprensione di un ambiente culturale coevo aperto si allo sperimentalismo, eppure anche pronto a condannare ciò che non comprende appieno. Il poeta accetta allora con coraggio il suo destino, amaramente lo prevede, rinuncia alla lotta e lancia il j’accuse finale nell’epigrafe del libro:

They were all torn and cover’d with the boy’s blood.

Sono parole scelte con cura, versi, opportunamente rimaneggiati, tratti dalla celebre Song of Myself di Walt Whitman: erano tutti stracciati e coperti col sangue del fanciullo.
Il fanciullo è lui, Dino Campana, innocente come tutti i poeti, una vita in lotta con se stesso e con il mondo alla ricerca di un equilibrio precario sempre sull’orlo dell’abisso; gli aguzzini sono coloro che hanno ucciso l’uomo e l’artista, che gli hanno tappato la bocca, che più o meno coscientemente ci hanno restituito il ritratto a tinte fosche di un povero pazzo da porre ai margini, forse perché già al di là della loro portata.
I Canti Orfici, affascinanti, misteriosi, sfuggenti nella loro eterogeneità, restano l’esperienza poetica sublimata e il testamento spirituale di un autore ridotto troppo a lungo, ingiustamente, al silenzio. Li si definisca come si vuole, ma non il parto di un folle.

Crepuscolo mediterraneo perpetuato di voci che nella sera si esaltano, di lampade che si accendono, chi t’inscenò nel cielo più vasta più ardente del sole notturna estate mediterranea? Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici, i vichi dove ancora in alto battaglia glorioso il lungo giorno in fantasmi d’oro? (Da Crepuscolo mediterraneo)

Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso. (Da La notte)

Non so se tra rocce il tuo pallido Viso m’apparve, o sorriso Di lontananze ignote Fosti, la china eburnea Fronte fulgente o giovine Suora de la Gioconda: O delle primavere Spente, per i tuoi mitici pallori O Regina o Regina adolescente: Ma per il tuo ignoto poema Di voluttà e di dolore Musica fanciulla esangue, Segnato di linea di sangue Nel cerchio delle labbra sinuose, Regina de la melodia: Ma per il vergine capo Reclino, io poeta notturno Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo, Io per il tuo dolce mistero Io per il tuo divenir taciturno. Non so se la fiamma pallida Fu dei capelli il vivente Segno del suo pallore, Non so se fu un dolce vapore, Dolce sul mio dolore, Sorriso di un volto notturno: Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti E l’immobilità dei firmamenti E i gonfi rivi che vanno piangenti E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera. (Da La Chimera)

 

“Dingo”: il cane di Mirbeau e il post realismo

Octave Mirbeau è uno di quegli autori marchiato dal sottotitolo: “dimenticato dalla critica”. Vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento, Mirbeau non ha avuto vita facile: molte sue opere e commedie teatrali sono state travisate addirittra per romanzi erotici, e quindi censurati, tanto della rottura delle stantie moralità che ha rappresentato.

Tra i grandi innovatori del romanzo, tra i più fini traghettatori verso un nuovo modo di scrivere, Mirbeau nelle sue opere riesce a far intravedere in filigrana quello che Marinetti andava teorizzando in quel periodo. Ci sono diversi livelli di lettura di questo romanzo, strano, particolare, ma che a noi lettori del duemila non deve sorprenderci: per noi che abbiamo il quadro della storia già completo e non dobbiamo far altro che voltarci indietro e guardare, magari non sorprenderà molto che lo scrittore riesce a segnare anche una tensione che decreta netta distanza dal passato balzachiano e degli echi zoliani. Non a caso sono suoi i tre capitoletti, censuratissimi all’epoca, che ha chiamato proprio “La morte di Balzac”. Per sua stessa definizione, o meglio, “autodefinizione”, Mirbeau è un espressionista, un Van Gogh dalle nervose e imprevedibili pennellate.

Dingo, insieme a La 628-E8, il romanzo che ha per protagonista una automobile, rappresenta proprio una di queste pennellate folli, ma di quella follia che serve a spingere oltre l’asticella dell’umano possibile. Pubblicato nel 1913, Dingo è un romanzo che vede come protagonista un cane. Il narratore-personaggio è coinvolto solo da spettatore nell’opera: assiste come potrebbe assistere ognuno di noi. Forse dietro questo scrittore spigoloso, che non sopporta le ipocrisie, duro e irreprensibile, c’è forse l’alter ego di Mirbeau: ma non è questo quello che di questo romanzo preoccupa più di tanto.

“Preoccupano” invece le infinite (o perlomeno molteplici) possibilità di lettura. Dingo è un cane selvaggio, che, affamato, arriva al piccolo paesino di Ponteilles-en-Barcis, nel Vexin. È affamato, ammazza le pecore, semina terrore. Si aggira e vagabonda. Una ondata di selvaggia prepotenza. Ma non fa male a nessuno: un po’ come la bella Juliette Binoche in Chocolate, che arriva vestita di rosso e apre una cioccolatteria nel bigotto paesino.

A proposito delle molteplici possibilità interpretative: <<Surtout un chien tel que Dingo, “animal réfractaire à la classification par espèces”, et qui, au lieu de n’être qu’une copie conforme fabriquée en série, est tout à la fois, selon Pierre Dufief, “un individu unique”, un “modèle esthétique” contrastant avec la laideur ambiante des humains>> (<<Soprattutto come cane Dingo “animale refrattario alla classificazione per specie” e che, invece di essere una copia fatta in serie è allo stesso tempo, secondo Pierre Dufief “, un individuo unico” un “modello estetico” in contrasto con la bruttezza della specie umana>>) È quello che dice Pierre Michel parlando di questo libro. E ancora: <<L’ennui, pour cette interprétation naturiste, c’est que Dingo n’est pas seulement un de ces  bons chiens chantés par Baudelaire, compagnons de misère des poètes et des marginaux, modèles de pitié pour les humbles et les souffrants de ce monde>>. (<<Il problema di questa interpretazione naturista è che Dingo non è solo uno di questi buoni cani raccontati da Baudelaire, compagni di poeti miseria e modelli marginali di pietà per gli umili e per la sofferenza di questo mondo>>.)

Insieme al suo padrone, attraversano la Svizzera, l’Italia, la Germania: pian piano il suo padrone si accorge delle grandi e non comuni abilità del suo cane. A volte è rabbioso, aggredisce le persone, altre è mansueto e sembra farsi carico di una umanità forse anche sconosciuta agli stessi umani.

Durante questo lungo viaggio, tra l’uomo e il cane si stabilisce un legame profondo, intimo, come se Dingo non fosse un cane: “À Paris, Dingo redevint triste. Il ne sut plus que faire. Trop de gens, trop de maisons, de rues encombrées, plus assez d’espaces et de grands horizons. Il languissait, s’étiolait, ne montrait aucun empressement à sortir, dormait presque tous les jours, roulé en boule, sur des cousins”. (“A Parigi, Dingo è diventato triste. Non sapeva cosa fare. Troppe persone, troppi case, strade affollate, sufficienti spazi e ampi orizzonti. Lui languiva, è appassito, non ha mostrato alcuna smania di uscire, dormiva quasi tutto il giorno, raggomitolato su cugini.”)

È un romanzo in cui le solitudini si incontrano: o meglio, Dingo le mette in risalto, come se le evidenziasse quando si accosta a uno dei qualsiasi personaggi: Sir Herpett,  Jules Claretie. Di questo ce ne rendiamo conto quando Dingo muore, lasciando solo il suo “compagno umano”, che tanto aveva voluto allontanarsi dai suoi simili.

Dingo è un testo di satira sociale, come molta critica francese afferma: è forse giusto non divagare troppo e dare una più o meno netta sistemazione a questo romanzo. Anche se le speculazioni filosofiche, gettate come semi in tutta l’opera letteraria e teatrale di Miabeau, non possono esimerci dal leggere anche questo romanzo con gli occhi offuscati dalla patina della satira. La tecnica di Mirbeau sembra incavarsi in quel solco di destrutturazione dell’io, quell’allontanarsi dall’essere. Con personalità come questa non bisogna essere prevenuti ed affidarsi ciecamente alla critica: è innanzitutto uno sperimentatore, uno dei primi che lascia spazio al lettore, che lo lascia libero di pensare, che non lo immobilizza in pagine di crudo realismo.

 

Le principali correnti, movimenti e tendenze stilistiche del Novecento

Nei primi anni del Novecento si affacciano  nuove forme di avanguardia,che  mirano  ad un totale superamento della tradizione, delle istanze classiche, romantiche, naturaliste e decadenti. Si va alla ricerca di nuovi temi e l’arte stessa è sotto attacco in quanto istituzione, non ha più quella superiorità propria di un sistema autonomo. Nascono cosi nuove correnti, movimenti, tendenze letterarie come:

Espressionismo: tendenza stilistica caratterizzata da una certa propensione verso il lato emotivo della realtà, in contrapposizione all’oggettività dell’impressionismo di cui uno dei maggiori esponenti è Frank Kafka.

Futurismo: nasce in Francia nel 1910 con un manifesto pubblicato su “Le Figarò”scritto da Marinetti. L’attenzione si concentra sulla civiltà delle macchine, della velocità, della forza, del dinamismo, la dissacrazione dei valori tradizionali, la fiducia nel progresso.

Dadaismo: movimento culturale fondato a Zurigo da Tristan Tzara nel 1916, si propone in maniera anarchica di prendersi gioco dell’arte nella società borghese attraverso opere evanescenti con umorismo e derisione, il manifesto dei dadaisti è:

«Dada non significa nulla. È solo un suono prodotto della bocca».

Surrealismo: nasce come evoluzione del Dadaismo e si propone come automatismo psichico puro, essendo influenzato dalla lettura de “L’interpretazione dei sogni” di Freud ed incentrando la sua riflessione sull’amore inteso come fulcro della vita, sogno, follia e liberazione dalle convenzioni sociali, superando il razionalismo.

Crepuscolarismo: corrente letteraria nata in Italia caratterizzata da un forte bisogno di confessione e rimpianto per i valori tradizionali, rifiutando sia la poetica carducciana che quella d’annunziana. Ma questa perenne insoddisfazione non sfocia nella ribellione, ma trova rifugio e sfogo nei luoghi più segreti dell’anima, accompagnandosi ad una certa malinconia. I principali rappresentanti sono Gozzano, Palazzeschi, Moretti, Corazzini, Marrone, Govoni i quali tendono a ridurre la poesia a prosa, trasgredendo la metrica tradizionale.

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