Rime Rubate, la nuova raccolta di Michele Piramide: un riverbero antico di parole incastonate nel mondo moderno

Rime rubate è la nuova raccolta di poesie del sannita Michele Piramide, edita Ensemble editore, con prefazione di Alessio Iannicelli epostfazione di Stefano Tarquini.

Cos’è l’arte poetica se non una condizione presente in ogni singola persona? In modi diversi, con sfumature più accese o sbiadite, l’arte è l’atrio del sogno: con l’arte si viaggia, si fantastica, si auspica. La poesia ne è la testimonianza: attraverso la parola si veicolano immagini, sensazioni, emozioni. Chiunque prende in prestito l’arte dal mondo circostante, dalle persone che incontra o dal proprio contesto, per poi costruire la propria visione  dell’universo, unica e soggettiva. Una sorta di apprendimento per imitazione, come teorizzava Albert Bandura, poi rielaborato ad hoc; e grazie a queste ruberie involontarie che si creano mondi irripetibili. Lo stesso Michele Piramide, citando Oscar Wilde all’inizio della raccolta Rime rubate, scrive:

Chi ha talento prende in prestito, chi è un genio, ruba’’.

Quello che colpisce della poetica di Michele Piramide è la maestria con cui riesce a far sì che antico e moderno si incontrino e cooperino, testualmente e letterariamente. Alessio Iannicelli, nella prefazione della raccolta,  afferma a tal proposito:

‘’Michele aveva racchiuso nella sua opera tutto ciò che era antico e attuale nello stesso tempo, aveva saputo catturare l’animo della persona comune e incanalarlo nelle figure di eroi epici, e figure iconiche del mondo moderno’’.

La poesia di Michele Piramide è una mescolanza di linguaggi che ne creano solo uno: il lessico dell’emozione. L’autore, infatti, cita trame mitologiche, personaggi della cultura e diversi riferimenti letterari,  ma quello che colpisce è come ‘’sveste’’ questi  iconici protagonisti della storia e della letteratura, incanalandoli in una visione quotidiana e contemporanea.  La raccolta si apre con un componimento: Marinella. Probabilmente la famosa Marinella di Fabrizio De Andrè, che Michele Piramide inserisce in un contesto attuale, non distorcendo la natura del personaggio:

Pieni i miei sensi di te.

Sinuose forme, strozzati versi caldi corpi.

Mare in tempesta gli occhi bui.

Porto sicuro, straziato viandante, confuso ristoro.

 

Ogni  poesia ha come titolo il nome di un protagonista simboleggiante un riferimento storico o letterario. Nel componimento dal titolo Beatrice l’autore scrive:

Sei aria.

Bianca, come un pensiero,

fredda e leggera.

Sei ricordo d’infanzia.

Intangibile e angelica.

Vorrei aver avuto il coraggio di sfiorarti.

 

La Beatrice di dantesca memoria è qui incastonata  in una dimensione onirica e angelica, come la natura del personaggio suole immaginarla. Emblematico il verso ‘’sei ricordo d’infanzia’’; un chiaro riferimento all’amore di Dante, la cui visione di Beatrice risale proprio a quando la fanciulla aveva nove anni. E ancora  Pier Paolo (Pasolini), Romeo e Giulietta, Enea e Didone: un tuffo in un passato arcaico che non diventa vetusto o ridondante nella poesia di Piramide, ma che invece comunica contenuti attuali. Nella poesia Tenco il contenuto è moderno e struggente, al contempo:

Ora siete liberi.

Liberi di soffrire in silenzio,

muti e attoniti.

Liberi di vedere la sabbia riempirmi i polmoni.

Liberi di piangere fiumi di parole.

Liberi di vivere e fingere.

 

Personaggi svestiti del proprio ruolo e inseriti in contesti quotidiani parlano al lettore: Luigi (Tenco) e la sua libertà, i suoi quesiti, i suoi ideali rivolti all’umanità. Il tutto cadenzato dalla creazione di un ritmo armonico del lessico, frutto di assonanze, allitterazioni, parole scomposte e composte che donano alla poesia di Piramide un suono scorrevole, una sinfonia di parole che appare ora intensa, ora lieve.

 

Rime rubate: haiku moderni fra attualità ed eleganza antica

La struttura della poesia di Michele Piramide si rivela nella sua semplicità: moderni haiku che giungono come un dardo nelle emozioni del lettore, che si accinge a godere di queste flusso di parole incastonate in immagini dal contenuto importante e serio ma non, tuttavia, prolisso.

Non ci sono orpelli nella poesia di Michele Piramide, solo un concentrato di sentimenti in cui il lettore si può rispecchiare. La sua poesia ricorda molto la  poetica di Francesco Scarabicchi, definita appunto ‘’poesia realistica’’,  le cui tematiche ripercorrono i temi del ricordo e del tempo. Alcune delle poesie del poeta marchigiano hanno come titolo un nome, proprio come accade nella produzione letteraria di Piramide. Un esempio è  Ginetta, un componimento datato 1980:

Oh, la follia di sguardi alla rinfusa,

le grida e quel falsetto inimitabile

quando sognava i fiori di conchiglie

o il presepio a Sorrento in una scatola,

il biscuit restaurato e le sue calze

smagliate per sempre dentro gli anni,

polvere e oro nella casa bassa,

tra il giardino e le rose mai appassite.

 

Se per il poeta marchigiano la poesia è figlia della memoria, Michele Piramide rimodella e fa sua questa asserzione, astrattamente e nella concretezza;  cita nomi di una cultura letteraria e storica appartenente al passato e, nella sua produzione, inserisce porzioni di arte che capta durante la sua esperienza di vita,  per poi creare un proprio universo letterario in cui il flusso emozionale è il focus principale della sua poetica. Rime rubate è un inno all’importanza del sentimento e dell’emozione, in cui ogni lettore può riflettersi sentendosi compreso: un libro che è, nella sue essenza, uno specchio letterario che riflette e traduce le emozioni del lettore.

 

“Senza Orario Senza Bandiera”: l’uomo secondo i New Trolls

Senza Orario Senza Bandiera-Fonit Cetra-1968

Il 1968 è stato un anno particolare in quasi tutto il mondo. La contestazione studentesca, le battaglie per i diritti civili, il Vietnam, la liberalizzazione dei costumi, le droghe, hanno reso quest’anno un punto di svolta cruciale per la storia del XX secolo. E’ stato altresì un anno di grande fermento intellettuale, culturale e musicale; è perfettamente inutile ricordare il numero di capolavori usciti in questo anno magico da una parte all’altra dell’Atlantico. In Italia, sebbene in maniera molto più blanda, alcune di queste istanze si sono fatte sentire ed uno dei dischi in cui sono maggiormente presenti è senza dubbio Senza Orario Senza Bandiera, storico debutto dei genovesi New Trolls, uno dei gruppi più importanti del progressive rock italiano. Già nota al grande pubblico per singoli di successo quali Una Miniera, Quella Musica, Visioni, la band capitanata da Vittorio De Scalzi e Nico Di Palo ha più volte fornito prova di grande perizia tecnico/compositiva unita ad un’abilità vocale fuori dal comune, ma per l’esordio discografico vero e proprio sceglie di avvalersi della collaborazione di due “pezzi da novanta”: i concittadini Fabrizio De Andrè e Riccardo Mannerini che forniscono testi di grande impatto emotivo e poetico. Per la parte musicale si rivolgono a Gian Piero Reverberi già arrangiatore e compositore di grande successo. Il risultato è un concept album composto da dieci memorabili brani uniti tra loro da intermezzi musicali di grande bellezza e forza concettuale che rendono quest’opera un viaggio dell’Uomo alla ricerca di se stesso, della propria realtà e della propria storia. Un tuffo nell’animo umano effettuato senza preconcetti o idee di fondo, “senza orario senza bandiera” appunto.

“Andrò ancora per le strade del mondo con occhi sinceri/Cercherò ovunque il dolore la gioia dell’uomo” (Andrò Ancora-New Trolls-1968)

Il percorso si apre con la semi-acustica Ho Veduto, in cui l’andare per il mondo si trasforma in un’esperienza catartica di grande valore culturale e si prosegue con Vorrei Comprare Una Strada in cui la dimensione del sogno si trasforma in un rifugio dalle bruttezze della realtà. Signore Io Sono Irish affronta il tema della Fede attraverso gli occhi puri e l’ingenuo ottimismo di un operaio profondamente religioso mentre la solitudine assume le sembianze di Susy Forrester, persa nel suo assurdo narcisismo e nella sua irragionevole altezzosità. Il lato A si chiude con la forza dell’amore in grado di far dimenticare perfino gli inganni e le perdite al gioco in Al Bar Dell’Angolo. Il contrasto tra il progresso inarrestabile della civiltà umana e i valori che sono alla base della vita emerge in Duemila in cui la figlia di un pescatore guarda a bocca aperta le sue scarpe mentre i razzi volano nel cielo alla ricerca delle stelle. L’orrore della guerra è rievocato nel drammatico dialogo tra due ex marine in Ti Ricordi Joe?, mentre il pacifismo si veste delle accorate parole di Padre O’Brian, che chiede di destinare una parte dei fondi destinati agli armamenti per aiutare i lebbrosari; la timidezza paralizzante rivive nella figura dell’innamorato Tom Flaherty, incapace di dichiararsi e il grido di speranza finale è affidato ad Andrò Ancora, che riprendendo il motivo di Ho Veduto, chiude il viaggio.

I New Trolls con Fabrizio De Andrè

New Trolls, De André, Mannerini per un album che unisce  rock viscerale e genuino cantautorato

Tematiche universali, difficili da trattare che il duo De Andrè-Mannerini ha saputo affrontare disegnando personaggi in cui è molto facile rispecchiarsi dal momento che rappresentano archetipi delle pulsioni umane nascoste in ognuno di noi. A dar forza alle parole interviene la musica composta dai New Trolls in grado di unire il rock più viscerale al cantautorato più genuino facendo di quest’album una sorta di unicum nel panorama musicale italiano. Una curiosa e riuscita commistione tra chitarre distorte e poesia che dimostra l’altissimo grado di ispirazione degli autori e la validità del progetto. La parte del leone è ovviamente riservata agli stessi New Trolls che grazie alla loro vocalità (su tutte il timbro roco di De Scalzi e gli inarrivabili vertici di Di Palo) fatta di complesse armonie, soffici cantati, strepitosi falsetti non fanno rimpiangere i più famosi gruppi anglosassoni del periodo. Sarebbe ingiusto, tuttavia, limitarne la grandezza alle sole parti vocali, dal momento che anche dal punto di vista strumentale meritano un encomio, su tutti la batteria di Gianni Belleno, il basso di Giorgio D’Adamo e l’organo di Mauro Chiarugi. Un album atipico ma sensazionale in grado di coniugare alti valori poetici e tematici con il pop ottenendo grande successo di pubblico e di critica, a dimostrazione che alle volte quelle che possono sembrare idee assurde possono trasformarsi in splendide e durature realtà.

“La Buona Novella”: Il Vangelo secondo De Andrè

Dal Vangelo secondo Fabrizio De André, “La Buona novella”.Si potrebbe affermare senza paura di essere smentiti, che, per complessità del tema trattato, per la profondità delle parole usate e per la bellezza delle musiche composte, siamo di fronte all’album più bello ed importante della storia della musica italiana. “La Buona Novella”, datato 1970, è un’allegoria, un concept-album difficile, ambizioso, maestoso ma anche incredibilmente poetico e commovente. D’altronde non è mai facile parlare di Dio ( altri artisti come Mick Jegger, Renato Zero, Franco Battiato, Francesco Guccini, I Nomadi ne hanno parlato nelle loro canzoni), di fede e di religione senza scadere nella banalità, nel cattivo gusto o peggio, nell’offendere qualcuno. Per ovviare a questo spinoso problema Fabrizio De Andrè sceglie un punto di vista atipico, singolare. Sceglie di mostrare il lato umano di figure da sempre dotate di una forte carica spirituale quali il Cristo, la Vergine Maria, San Giuseppe e i due ladroni. Ma il lato umano di tali personaggi non è certo rintracciabile nei quattro Vangeli Canonici, va cercato altrove ed il buon Faber lo trova nei testi “maledetti” dalla Chiesa, nei libri messi “all’Indice”, nel lato oscuro della cristianità, i cosiddetti Vangeli Apocrifi. Molti di voi si chiederanno cosa sono i Vangeli Apocrifi. Sono, molto semplicemente, quei testi risalenti all’epoca di Cristo che non sono riconosciuti dal Vaticano perché tendenti a descrivere eventi quali la Natività, la Passione e la Resurrezione in maniera molto più “terrena” e molto meno “divina”. Lo stesso De André ha ammesso:

« Quando scrissi “La buona novella” era il 1969. Si era quindi in piena rivolta studentesca; e le persone meno attente – che poi sono sempre la maggioranza di noi -: compagni, amici, coetanei, consideravano quel disco come anacronistico. Mi dicevano: “cosa stai a raccontare della predicazione di Cristo, che noi stiamo sbattendoci perché non ci buttino il libretto nelle gambe con scritto sopra sedici; noi facciamo a botte per cercare di difenderci dall’autoritarismo del potere, dagli abusi, dai soprusi.” …. Non avevano capito – almeno la parte meno attenta di loro, la maggioranza – che La Buona Novella è un’allegoria. Paragonavo le istanze migliori e più ragionevoli del movimento sessantottino, cui io stesso ho partecipato, con quelle, molto più vaste spiritualmente, di un uomo di 1968 anni prima, che proprio per contrastare gli abusi del potere, i soprusi dell’autorità si era fatto inchiodare su una croce, in nome di una fratellanza e di un egualitarismo universali. »

In dieci magnifiche canzoni, introdotte da una maestosa Laudate Dominum, si snoda la vicenda della vita di Gesù dalla nascita fino alla morte sul Golgota. Si parte dall’Infanzia di Maria, il cui titolo dice tutto, ed attraverso il Ritorno di Giuseppe fino alla poeticissima il Sogno di Maria si affronta il tema dell’Annunciazione, del matrimonio combinato e della gravidanza inaspettata (in fondo Maria è una ragazza/madre). La Natività vera e propria è affidata alla splendida e pseudo/femminista (specie nel verso “Femmine un giorno e poi madri per sempre/ Nella stagione che stagioni non sente”) Ave Maria in cui la poetica di De Andrè tocca vertici incredibili legandosi a meraviglia con le note concepite da Giampiero Reverberi. Il lato B tratta della Passione e si apre con la terribile Maria nella bottega del falegname, dove, attraverso un struttura in forma di domanda/risposta, Maria apprende la terribile notizia della condanna a morte del figlio. Via della croce, ovvero l’ascesa al patibolo di Gesù e la straziante Tre Madri, introducono quel capolavoro assoluto che è Il Testamento di Tito, ovvero i Dieci Comandamenti in musica (incredibile!), in cui il ladrone “buono”, Tito appunto, confessa in punto di morte di aver violato, una ad una, le leggi donate dal Signore a Mosè ma di provare pietà per quell’uomo che muore con lui da innocente e di aver finalmente compreso, grazie a quel gesto finale, il vero significato della parola Amore. La chiusura è affidata a Laudate Hominem, una ripresa vera è propria del pezzo di apertura del disco, in cui, grazie al cambio di titolo, si vuole sottolineare la natura prettamente umana del Cristo. Arrangiato superbamente da Giampiero Reverberi ed inciso con l’ausilio dei musicisti della PFM (Premiata Forneria Marconi), La Buona Novella è un album quasi incredibile perché nessuno, né prima né dopo, ha mai “osato” affrontare e, perché no, mettere in discussione uno dei movimenti religiosi più diffusi del mondo. Il rivoluzionario cantautore ligure ha saputo coniugare etica ed estetica. Ma si sa, De André è De André e con quella sua classe, con quel suo tocco, con quel suo genio poteva dire e fare praticamente qualsiasi cosa.

La spiritualità espressa meravigliosamente da De André in questo album, in realtà è sempre stata presente nella lirica del cantautore, molte volte intrecciata con motivi sociali e anarchici come dimostrano La città vecchia del 1965 e Preghiera in gennaio del 1967. De André riesce a rendere anche quel fascinoso alone di mistero che accompagnava  la figura di Gesù (rappresentato come un uomo “vestito di sabbia e di bianco”).

La Buona Novella è una rilettura del Vangelo e del suo messaggio cristiano, insistendo sulla denominazione di Figlio dell’uomo e non di Figlio di  Dio che in verità non è lontana da quella dei Vangeli canonici. De André si dimostra un poeta (come non considerare pura poesia un’opera simile) innamorato dell’essere umano e nemico del potere come lo è  stato Gesù, non di certo un esempio di pio cristiano ma sicuramente un uomo profondo lontano dalla sterile estetica della fede praticata da molti cattolici.

Una visione riduttiva e in un certo senso comoda per chi è laicamente nemico del potere e vicino ai più deboli? (In realtà vi sono molte persone non credenti che sono inconsapevolmente portatori del messaggio cristiano, e ciò farebbe pensare ad un Dio immanente non trascendente) Certamente qualcuno potrebbe pensarlo, chiedendosi perché del Vangelo si prendono solamente gli aspetti che fanno più comodo. Tuttavia nell’ascoltare queste poesie ci si rende conto di come un approccio di questo tipo possa risultare producente e avvinicare la gente alla se non alla fede alla spiritualità. De André, da perfetto autore del ‘900, è uomo degli interrogativi, dei dubbi, non delle risposte, di crisi non di certezza, tranne, forse, una che rappresenta la strada che ci conduce a Dio che può essere percorsa, secondo il cantautore, guardando ai nostri simili, agli altri e quindi all’ uomo Gesù che nel Vangelo secondo Giovanni, 14,1-14 dice :<<Chi ha visto me, ha visto il Padre>>.

Il pensiero di Faber non è poi così lontano da quello di alcuni  teologi come Von Balthasar il quale, facendo da eco a De André, si chiede e risponde: “Chi è il cristiano? Uno che impegna la propria vita per i fratelli, perché egli stesso è debitore della vita al Crocifisso. Ma che cosa può dare seriamente ai fratelli? Non soltanto cose visibili: il suo dono – ciò che è stato dato a lui stesso – affonda nelle cose invisibili di Dio”.

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