Guerra in Ucraina. È sul fronte dell’informazione la battaglia che tutti dobbiamo combattere

I russi non conoscono la realtà della tragedia ucraina; molti italiani hanno idee sbagliate sulla crisi climatica. Censura e fake news distorcono la percezione, vanno contrastate con la conoscenza e la partecipazione.    

Lo hanno scritto in molti: l’invasione russa dell’Ucraina ha scatenato una doppia guerra. La prima si combatte sul campo, la seconda sui mezzi di informazione. La propaganda ha da sempre accompagnato i conflitti, ma in questo caso colpisce la sproporzione delle condizioni. Nei Paesi liberi abbiamo accesso a tutte le notizie e le dichiarazioni diffuse da entrambe le parti. In Russia, il Cremlino mantiene un ferreo controllo: nonostante i terribili eccidi che le sue truppe compiono in Ucraina e le sconfitte sul campo, Vladimir Putin non sta affatto perdendo il suo supporto tra la popolazione russa. È facile spiegare che questo si deve al totale dominio sui mezzi di comunicazione di massa: social media bloccati, stampa di opposizione chiusa, televisione completamente controllata dal regime.

Accanto agli indispensabili aiuti all’Ucraina che combatte, sarebbe importante riuscire a perforare questa barriera offrendo alla popolazione russa una informazione credibile e alternativa. Lo si è fatto durante la Guerra fredda con Radio free Europe, che trasmetteva al blocco sovietico in una ventina di lingue. I comunisti contrattaccavano con Radio Tirana, anche in italiano, che trasmetteva musiche balcaniche, come cantava Franco Battiato, ma anche tanta propaganda, udibile persino in Africa e in Sud America. Radio free Europe esiste ancora, e diffonde anche istruzioni per bypassare il blocco delle trasmissioni voluto da Mosca, ma evidentemente non basta per raggiungere la popolazione russa. Oggi certamente esistono mezzi più sofisticati, ma non mi sembra che a questo tema si dedichi adeguata attenzione.

In un contesto che (per fortuna) è totalmente diverso, la distorsione delle informazioni riguarda anche l’Italia. È sconfortante apprendere dalla ricerca “Media e fake news”, svolta da Ipsos per Idmo (Italian digital media observatory) e segnalata da “Media e dintorni”, la bella rubrica di Radio radicale, che il 39% degli italiani ritiene “la comunità scientifica molto divisa sul tema del cambiamento climatico”. Si tratta della percentuale più alta, tra le affermazioni scelte dagli intervistatori per verificare le posizioni nella categoria “Accordo con fatti falsi”. E si abbina, nella categoria “disaccordo con fatti veri”, con le affermazioni “L’acqua del rubinetto è salutare quanto quella in bottiglia” (30% che non ci crede) e “L’Italia è il Paese con la percentuale più alta di riciclo dei rifiuti in Europa” (29% che lo nega).

Pochi giorni dopo la diffusione della ricerca, è stata pubblicata la terza parte del rapporto Ipcc, dedicata alla mitigazione. Accanto alla precedente pubblicazione sulle politiche di adattamento, mostra che tra gli scienziati c’è invece un larghissimo consenso, su un messaggio complessivo di grande drammaticità: se vogliamo mantenere l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura entro 2°C, meglio ancora 1,5°C, le emissioni devono diminuire già dal 2025, altrimenti il mondo si avvia verso un aumento di oltre i 3 gradi a fine secolo. Si stima che per raggiungere il limite di 1.5°C i flussi finanziari per la transizione energetica devono aumentare di sei volte entro il 2030; di tre volte, invece, se intendiamo restare al di sotto di 2°C; obiettivi non impossibili, vista la quantità di denaro liquido disponibile sul mercato, con effetti positivi anche su economia e occupazione.

Anche quanto si sta facendo per l’adattamento, cioè per fronteggiare le conseguenze comunque inevitabili del cambiamento climatico, non è sufficiente a proteggere le popolazioni. Questo vale soprattutto per i più poveri, per quel 50% della popolazione mondiale responsabile (ricorda l’Ipcc) solo del 15% delle emissioni, mentre possiamo immaginare che il 10% più ricco e che emette il 40% dei gas serra troverà il modo di proteggersi meglio.

Anche se molti hanno idee sbagliate, la gente è preoccupata per la crisi climatica. Gli Stati Uniti certamente non sono all’avanguardia nella battaglia per la transizione ecologica: il loro livello di consumi, se imitato in tutto il mondo, brucerebbe ogni anno le risorse prodotte da cinque pianeti, rispetto alla media mondiale di 1,7, ci dice l’Earth overshoot day. Eppure la popolazione americana è tutt’altro che insensibile: un recente sondaggio Gallup ci informa che da sette anni il 45% degli statunitensi si dice “molto preoccupato” e una altro 27% “abbastanza preoccupato” per le condizioni dell’ambiente.

Analoghe ricerche in Italia ci danno indicazioni simili, anche se alla preoccupazione non corrispondono adeguate conoscenze e disponibilità ad agire. C’è poco da stupirsi: il Risk report che fornisce ogni anno, per conto del World economic forum, un sondaggio sui più gravi timori di mille leader mondiali, colloca sistematicamente, in testa a tutte le altre, le preoccupazioni per l’ambiente. Anche quando infuriava il Covid, i timori per la pandemia erano solo al sesto posto, mentre restavano in cima alla classifica l’allarme per la mancanza di accordi sul clima, per la perdita di biodiversità e per i fenomeni meteorologici estremi. Insomma, tutti si preoccupano per il clima, anche i big delle imprese e della politica, ma pochi hanno chiaro che cosa bisogna fare, o hanno il coraggio e la disponibilità a mettere in atto le ricette che pure esistono.

Torniamo all’Italia. Il rapporto Ipcc ha avuto un’ampia copertura su stampa e televisioni, compatibilmente con il prevalente e comprensibile orientamento dell’attenzione verso la crisi ucraina, ma penso che, anche se avesse avuto più spazio, non avrebbe inciso significativamente sull’atteggiamento dell’opinione pubblica e tanto meno su quello dei politici. Si pone dunque la domanda: se la diffusione dei fatti attraverso i media tradizionali non basta, che cosa dobbiamo fare per promuovere un salto di consapevolezza degli italiani sulle misure necessarie per fronteggiare una crisi come quella del clima, incombente e gravissima, che potrebbe compromettere il futuro delle nuove generazioni se non anche il nostro?

Certo, annunci politici condivisi che sensibilizzino sulla gravità della situazione e sulla necessità di fare whatever it takes per combattere la crisi climatica potrebbero raggiungere lo scopo. Gli italiani sono anche pronti a sacrifici e a cambiare idea se necessario, come rivela il sondaggio Ipsos – Repubblica a seguito della crisi ucraina, presentato in un articolo di Concetto Vecchio:

Quasi nove italiani su dieci (86,6 per cento) si dicono disposti a ridurre i propri consumi in caso di una crisi energetica provocata dalla guerra in Ucraina. Quasi sei su dieci (58,5 per cento) sono pronti ad accettare l’utilizzo del carbone e il 51,3 per cento si dichiara disponibile a discutere l’ipotesi di un’Italia che torni a investire nel nucleare.

Questo però avviene solo per temi sui quali l’opinione pubblica è stata fortemente sensibilizzata e sui quali avverte una sostanziale unità di buona parte della leadership politica. Non è così sulle misure per il clima, dove si verifica un circolo vizioso: gli italiani sono poco informati su quello che si dovrebbe fare veramente per la mitigazione e l’adattamento; i politici per timore di perdere consenso non si espongono se non con affermazioni generiche. Non informano e non decidono.

C’è dunque una grande battaglia da combattere sul fronte della informazione e in buona parte andrà condotta sui social mediaanche perché l’indagine Ipsos – Idmo già citata ci informa che

La stragrande maggioranza degli italiani (7 su 10) si informa esclusivamente tramite fonti gratuite o solo 1 su 4 è disposto a pagare per accedere ad informazioni di cui si fida.

social, però, spesso contribuiscono a consolidare convinzioni sbagliate, anche perché gli utenti tendono a scambiarsi informazioni tra persone con le stesse idee, creando conventicole contrapposte. La soluzione, come dice la stessa indagine, è il debunking, cioè lo “sfatamento”, l’attività di distinguere il vero dal falso attraverso un adeguato fact checkingNell’indagine si afferma che “il 90% degli italiani dichiara di fare almeno un’attività di controllo davanti a un’informazione trovata online”, ma sulla efficacia di questa attività si possono avere dubbi, se si considera che

il 60% degli italiani ritiene che una notizia sia più affidabile quando condivisa da tante persone (quota più alta tra i più giovani e i meno istruiti) e il 55% (ben più di 1 cittadino su 2) ritiene che sia più affidabile se condivisa da un amico molto attivo suisocial (quota che sale tra i più giovani e tra i meno istruiti, mentre scende nella fascia d’età 31-50 anni e tra i più istruiti).

Insomma, anche le chiacchiere da bar, se sono condivise, tendono a essere considerate vere.

Per contrastare questo effetto si devono impostare battaglie ben precise e mirate, basate su informazione e coinvolgimento. È urgente, ad esempio, promuovere la sensibilizzazione delle comunità locali sulla necessità di accelerare l’installazione delle energie rinnovabili, operazione resa ancor più importante dalla scelta di liberarci per quanto possibile dalla dipendenza dal gas russo. I progetti ci sono, ma spesso sono paralizzati dall’“effetto nimby” (not in my backyard – non nel mio cortile), che in molti casi nascono dalla mancanza delle informazioni necessarie per compiere una adeguata valutazione costi – benefici. Abbiamo scritto più volte che sono necessari interventi governativi (peraltro parzialmente avviati) per snellire gli iter burocratici che condizionano le autorizzazioni. Ma difficilmente l’obiettivo di un grande sviluppo delle rinnovabili entro il 2030 potrà essere raggiunto senza un adeguato impegno sul fronte della informazione e della partecipazione locale. I cittadini devono sentirsi partecipi delle decisioni: di questo tema, “La costruzione partecipativa delle città del domani”, si è parlato il 7 in un webinar di QN città future, organizzato con la collaborazione dell’ASviS.

Un aiuto alla transizione energetica, elemento determinante della protezione ambientale, è arrivato all’inizio di quest’anno dalla modifica dei principi fondamentali della Costituzione che ha introdotto appunto “la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”, tra i principi della Carta. Se n’è discusso in un evento dell’ASviS il 5 aprile, arrivando anche in questa sede a una conclusione che ci impegna per il futuro: gli strumenti per la transizione ecologica ci sono, ora più che mai, ma adesso bisogna farli conoscere e agire di conseguenza.

 

Fonte dell’immagine: industryview/123rf

 

Donato Speroni

La realtà è una fake news

I social network e il web sono ufficialmente luoghi insicuri. La crociata dell’establishment contro il sistema delle cosiddette “fake news” è stata lanciata dal palco della Leopolda 8. Il frontman è Matteo Renzi ma la regia è di un certo Andrea Stroppa, ragazzetto di 23 anni che ha lavorato come capo del reparto ricerca e sviluppo di una società di consulenza, la Cys4, di cui Marco Carrai, fedelissimo del segretario del PD, era socio, supportato dalla piattaforma Buzzfeed. Peccato però che l’inchiesta – firmata a quattro mani da Alberto Nardelli e Craig Silverman – che presumeva svelare l’intreccio tra movimenti nazionalisti e populisti con una rete di siti internet rei di fabbricare e diffondere “fake news” abbia ricondotto – come ha ammesso lo stesso New York Times qualche giorno dopo – a Davide e Giancarlo Colono, proprietari attraverso le loro società con scopo di lucro ma senza alcun collegamento partitico di DirettaNews e iNews24 (con annesse pagine Facebook con milioni di “mi piace” chiuse senza preavviso dallo staff di Zuckerberg!), due quotidiani online che non pretendevano fare libera informazione ma raccogliere clic riportando (e non fabbricando!) notizie e fatti, il più delle volte, con titoli incendiari e strillati. Se ci si pensa bene non c’è nulla di sensazionalistico in tutta questa storia dato che ilclickbaiting – una tecnica per attirare il maggior numero possibile d’internauti per generare rendite pubblicitarie – viene sfruttata da tutti, persino dalle testate “autorevoli”, da Repubblica al Corriere della Sera, da Il Giornale a Libero, dal Fatto Quotidiano a La Stampa. Insomma se la legge fosse uguale per tutti oggi non potremmo più informarci in rete. Ma andiamo avanti.

La produzione di “fake news” è una questione ben più seria che va oltre il flusso statistico e diventa pericolosa quando viene inserita in un’agenda giornalistica in funzione di un’agenda politica (ad esempio l’invenzione delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein per giustificare l’intervento miltiare statunitense in Iraq oppure l’enfatizzazione dell’incremento dello spread per far cadere il governo Berlusconi nel 2011 e far insediare quello tecnico di Mario Monti). In questo caso specifico, a pochi mesi dalle elezioni politiche in Italia e, vista la vittoria di Donald Trump contro il sistema dell’informazione mainstream negli Usa, serviva una capro espiatorio – due siti apartitici con milioni e milioni di utenze – da gettare nella spirale della liquidazione coatta (di “censura” non è corretto parlarne per quanto non ci sia stata la possibilità di replica sui social) per spianare la strada ad una vera e propria strategia che mira ad arginare il dissenso mediatico camuffandola come campagna “angelica” – con il supporto di Facebook – contro le bufale. In Senato sarebbe già pronto un disegno di legge presentato dal Partito Democratico a firma del capogruppo Luigi Zanda e di Rosanna Filippin, per contrastare il fenomeno “della diffusione su internet sui social network di contenuti illeciti e delle fake news”.

Un ddl che sarebbe condivisibile oltre che legittimo se non fosse in realtà un meccanismo sofisticato di auto-celebrazione e di auto-difesa funzionale alla strategia scritta sopra oltre che a scaricare la produzione di notizie false sul web ed evitare furbescamente il mea culpa. Perché diciamocelo questi presunti “nemici della disinformazione” hanno inquinato il dibattito politico-culturale per tutti questi anni con notizie orientate, faziose, manipolate, commissionate, silenziate, copiate e incollate senza nessuna verifica della fonte. Di esempi se ne potrebbero fare all’infinito ma il fact-checking ferisce a targhe alterne, quando fa più comodo, a colpi di algoritmi studiati da nerd rinchiusi nelle università che sul campo non ci sono mai andati perché la realtà, impietosa, cruda, con tutta la sua violenza simbolica, non esiste.

 

Fonte: L’intellettuale dissidente

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