Il fantastico nei racconti di Massimo Bontempelli: da ‘La scacchiera davanti allo specchio’ a ‘Eva ultima’

In particolare sono due i generi affrontati da Bontempelli che più hanno risentito dell’influenza del fantastico, il meraviglioso fiabesco delle Due favole metafisiche e i racconti.

Quali sono i procedimenti narrativo-retorici e i sistemi tematici che dimostrano l’influenza di tale modo sui diversi generi? Attingendo ai contributi di Ceserani, sarà importante illustrare ora gli elementi specifici più ricorrenti del modo fantastico.

Introduzione al fantastico di Bontempelli

Nel volume Il fantastico, Ceserani dedica un capitolo alla ricerca e alla catalogazione di questi procedimenti, distinguendo fra quelli tematici e formali. Tra questi ultimi troviamo la narrazione in prima persona, accompagnata talvolta dalla presenza di destinatari espliciti, per accrescere il coinvolgimento del lettore e la sua identificazione con il lettore implicito, la messa in rilievo dei procedimenti narrativi nel corpo stesso della narrazione, al fine di attirare il lettore e al tempo stesso renderlo continuamente consapevole che di narrazione si tratta, o l’interesse per le capacità proiettive e creative del linguaggio, che si esplica per esempio nell’utilizzo in termini narrativi della metafora, tramite il quale il rapporto verbale tra i mondi semantici diventa materiale, creando passaggi di soglia e di frontiera dalla dimensione del quotidiano a quella del perturbante.

Il passaggio di soglia è raggiunto anche attraverso i cosiddetti “oggetti mediatori”, la cui presenza nel testo dimostra la veridicità del viaggio compiuto dal protagonista nell’ “altro mondo”, dal quale ha portato con sé il suddetto oggetto.

Ancora importante è la teatralità, cioè la tendenza ad utilizzare procedimenti appartenenti alla tecnica e alla pratica teatrale, che comprende anche l’attivazione di elementi di figuratività sia materiali, come gli specchi, relativi al vedere, sia come esaltazione della gestualità, per esempio “mettendo in scena”. Frequentemente utilizzata è poi la figura retorica dell’ellissi in momenti cardine del testo, dove cioè la narrazione raggiunge il culmine, con effetto di sorpresa e di incertezza nel lettore, incapace di trovare risposte alle proprie domande. Ma, come sostiene la Bessière, «Per sedurre, il fantastico ha il dovere di deludere».

Dal punto di vista tematico spiccano la contrapposizione fra luce e buio legata soprattutto all’ambientazione notturna, l’attrazione verso la vita dei morti, l’individualità borghese come soggetto della modernità, con tutte le contraddizioni che lo portano sovente anche alla follia, intesa non più come una differenza fra il folle e l’uomo normale, ma come tramite verso una più profonda conoscenza.

Legati a quest’ultimo sono poi il tema del doppio, che nel fantastico si unisce a oggetti come lo specchio e mette in crisi il concetto di soggettività, e quello del nulla, tematica fortemente moderna che si spinge fino al nichilismo. Lazzarin pone, accanto ad una tematica e ad una stilistica e retorica del fantastico, anche una topica, cioè un insieme di luoghi comuni utilizzati in diversi contesti e con diverse funzioni, come per esempio il tòpos dello sguardo inquietante ed ardente del personaggio fantastico.

La scacchiera davanti allo specchio, trama e contenuti

Scritto nel 1921 e pubblicato presso l’editore Bemporad a Firenze nel 1922 nella «Biblioteca Bemporad per ragazzi» con illustrazioni di Sto (Sergio Tofano), La scacchiera davanti allo specchio seguirà Viaggi e scoperte nel volume Mondadori del 1925 e, infine, con Eva ultima, costituirà il volume Due favole metafisiche (1921-1922), sempre presso Mondadori, dal 1940.

L’originaria pubblicazione in una collana per ragazzi, il nome scelto dall’autore per l’ultimo volume, e la dedica al figlio Mino, complicano ulteriormente la già difficile categorizzazione dell’opera; si potrebbe, infatti, ingenuamente essere indotti a considerarla solo come una semplice storia per bambini. Tuttavia, ad un occhio più attento, essa si potrebbe situare alla convergenza di più generi, traendo elementi in particolare dal mondo della fiaba e dal fantastico.

Il soggetto si riconosce quindi solo nel momento in cui si vede nello specchio. Interessante, a questo punto, riprendere le considerazioni espresse da Mangini nel capitolo del volume Letteratura come anamorfosi dedicato allo specchio e alla sua stretta relazione con l’anamorfosi; il «riconoscimento della propria immagine speculare, costitutivo dell’identità del soggetto (e cioè della sua presunta autonomia dall’oggetto), è in realtà un riconoscimento di sé nell’Altro (o di sé come Altro) e dimostra innegabilmente che il soggetto non può incontrarsi e ri-conoscersi altrimenti che così: come Altro, appunto».

Il protagonista vive lo sdoppiamento fra sé e la sua immagine nel momento in cui compie l’attraversamento della soglia. Le parole del Re sono eloquenti: «Quando dico che sei qui, intendo che qui c’è un altro come te: la tua immagine, via; siete due, come io e quel Re Bianco che sta costì dalla tua parte».

Molto forte è poi l’influenza della pittura metafisica nell’ambientazione che circonda il manichino; in seguito alla sua esplorazione, il protagonista arriva infatti in un «vasto fossato, riquadrato come una piazza d’armi ma sprofondato molto più basso del suolo», all’interno del quale si stagliano vari oggetti, che «stavano in certo modo come stanno gli alberi e le rocce nella campagna. […] Erano, ecco, erano una specie di paesaggio, fatto di oggetti invece che di piante e altri prodotti naturali».

Saltano subito alla mente le pitture di Giorgio De Chirico, dove a popolare le grandi piazze squadrate sono, oltre le architetture, oggetti come statue e manichini, che arrivano a fondersi in una sorta di ibrido in opere come Le Muse inquietanti (1919). Per Piscopo, Bontempelli accetta l’opzione “saviniano-dechirichiana” del manichino, assumendolo «non a stereotipo funzionale, ma a referente materiale per eccellenza nell’atelier dell’artista, in quanto suggeritore e moltiplicatore di metafisicità, ovvero di spettralità; ma anche in quanto valore da recuperare in contraddizione col consumismo volgare e col Kitsch di massa. La presenza del manichino presso i metafisici ha una funzione complessa. È cifra di misteriosità e d’inquietudine».

Nei suoi scritti teorici, Bontempelli esplicita di volersi riallacciare all’antica tradizione omerica, per riavvicinare la narrazione alla lirica, come accade in ogni primordio, dove «poesia coincide con l’invenzione della favola».

Come osserva Bosetti, però, la soluzione da lui proposta non è irrazionalistica, ma anti-intellettualistica, in quanto Bontempelli intende distaccarsi da “quella deprecanda orgia di verismo documentario” di cui la prosa era rimasta vittima. Questa sorta di primitivismo bontempelliano è, però, complicato dalla distinzione che egli introduce tra la meraviglia del fanciullo e lo stupore dell’artista. Solo quest’ultimo è, come accadeva ai pittori quattrocenteschi, attivo e capace di «popolare il mondo di creature immaginate in cui le esperienze quotidiane si sono totalmente risolte e trasformate.

Eva ultima, l’opera problematica di Bontempelli

Scritta nel 1922, quindi ad un anno di distanza dalla Scacchiera, ed uscita per la prima volta presso l’editore Stock di Roma nel 1923, Eva ultima è la seconda delle due “favole metafisiche”, ma ciò non deve trarci in inganno nel considerarla affine alla prima, con cui sicuramente condivide l’atmosfera magica e meravigliosa, ma da cui si discosta anche ampiamente, soprattutto per la maggiore artificiosità.

Eva ultima è un’opera problematica, ma che costituisce un tassello imprescindibile in un discorso sul fantastico bontempelliano. Anche di fronte ad essa ci si trova in difficoltà a doverla incasellare in un genere specifico; fin dall’inizio, infatti, sono ripresi temi e stilemi dei generi maggiori dell’800, ma subito rovesciati in una sorta di parodia.

I racconti più propriamente “fantastici” di Bontempelli sono considerati da molti critici, non a torto, come i risultati più felici della sua produzione artistica. Se già nel 1943 Carlo Bo afferma che in Bontempelli «il racconto ha una soluzione intatta: ha la misura stessa dell’invenzione», Baldacci, nell’introduzione al Meridiano dedicato alle Opere scelte dell’autore, auspica l’uscita di un volume, sempre nella collana dei Meridiani, incentrato solo sui racconti.

Anche Luigi Fontanella afferma che le raccolte degli anni ’20 sono da considerarsi come espressioni della maturità artistica del narratore. Nonostante ciò, una raccolta completa di racconti non è ancora stata pubblicata, e quelle già esistenti sono pressoché irreperibili. Anche per quanto riguarda la critica, se fioriscono pubblicazioni sui romanzi e sul teatro, non si trova altrettanta letteratura sul racconto.

La produzione novellistica di Bontempelli si snoda lungo tutta la sua attività, a partire dalle prime opere rifiutate, Socrate moderno e Amore, passando per la filosofica raccolta Sette Savi e la sperimentale Viaggi e scoperte, arrivando fino alla magica Miracoli e alle più mature Galleria degli schiavi e L’amante fedele.

 

 

Fonte: https://www.academia.edu/36651096/Il_lavorio_delle_fantasime._Il_fantastico_nei_racconti_di_Massimo_Bontempelli

‘L’uomo che uccise don Chisciotte’ di Terry Gilliam: la rivendicazione del primato della fantasia sulla realtà

Un film atteso 25 anni, realizzato tra molte difficoltà e che nella prima stesura, la quale si basava su un semplice viaggio indietro nel tempo da realizzarsi con un budget colossale, vedeva nel cast un giovane Johnny Depp, Jean Rochefort (scomparso lo scorso anno) e Vanessa Paradis, che rende onore allo spirito e al linguaggio della geniale e celeberrima opera di Cervantes, Don Chisciotte, il libro più giocondo e allo stesso tempo assennato che il lettore possa mai immaginare, come recita il prologo. Il regista visionario Terry Gilliam per il quale la follia, il grottesco e l’irrazionalità sono il sale della vita e la cifra dei suoi film (l’indimenticabile serie di esilaranti gag dei Monty Python, Brazil, La leggenda del re pescatore, Le avventure del Barone di Münchausen, L’esercito delle dodici scimmie, Paura e delirio a Las Vegas, Parnassus-L’uomo che voleva ingannare il diavolo), nel suo L’uomo che uccise Don Chisciotte, riflette sul senso della follia, dell’illusione, del credere fermamente alle propria immaginazione per sentirsi utili a questo mondo.

Toby (Adam Driver) è un cinico regista pubblicitario che decide di girare uno spot nell’entroterra spagnolo, ma non riesce mai a trovare la giusta ispirazione. A cena, in un ristorante, un venditore ambulante cerca di vendergli un DVD pirata girato dallo stesso Toby quando era un giovane e promettente regista dal nome L’Uomo Che Uccise Don Chisciotte. Con quel lavoro aveva fatto promesse, creato numerose aspettative negli abitanti ma non tutte hanno sortito l’effetto sperato. In questo senso il film di Gilliam è anche un’amara riflessione sul fare cinema, prendendo in considerazione il fatto che Gilliam non ha mai avuto vita facile con i produttori e in questa occasione si è preso la sua rivincita. La domanda che aleggia è: come si può emergente onestamente in un mondo popolato dai cultori del denaro e del successo facile e possibili finanziatori e produttori che tengono in scacco creature pulite e anche un po’ ingenue, nonché fortemente gelosi delle loro ‘proprietà’ femminili? Difficile non pensare al caso Weinstein in una pellicola dove c’è un continuo scambio tra passato e presente, riferimenti anche alla politica attuale e ai sogni perduti.

Ci vuole follia per poter lottare e non soccombere contro i giganti di oggi, che si sono moltiplicati, ovvero contro i soprusi, le angherie, gli opportunismi, il potere: è questo il “messaggio” del film di Gilliam che mostra l’impatto che il film nel film, L’uomo che uccise Don Chisciotte, ha avuto sugli abitanti di un piccolo villaggio, in primis sul calzolaio (interpretato dallo strepitoso attore shakespeariano Jonathan Pryce) divenuto il celebre cavaliere la cui missione è quella di vivere numerose avventure, liberare i deboli dalle prepotenze dei più forti e celebrare la bellezza dell’amata Dulcinea (Joana Ribeiro), che non riesce a liberarsi del personaggio che aveva interpretato, personaggio che prenderà possesso anche dell’anima e della mente di Toby, epigono barocco di nuove rocambolesche avventure affianco della sua bella che però crede essere il suo fidato scudiero Sancho Panza, che rappresenta la parte razionale e realistica della coppia. Si tratta di un cinema al quadrato, dello sdoppiamento, della meta-finzione: come si sdoppia l’autore del libro Cervantes, inventandosi un autore fittizio, l’arabo che non deve essere creduto in quanto tale e quindi bugiardo, Hamete Cide che però inizialmente viene fatto passare come autore vero del Don Chisciotte, di cui Cervantes è il traduttore che conosce bene lo spagnolo, anche Toby si sdoppia facendo diventare la ragazza di cui è innamorato da Dulcinea di quando aveva 16 anni a Sancho Panza, dieci anni dopo la realizzazione del film.

Meno sarcastico e pungente dell’Armata Brancaleone di Mario Monicelli, L’uomo che uccise Don Chisciotte, è un film attualizzato, avvincente pieno di ritmo, che unisce, come fa l’opulenta opera di Cervantes, dramma e commedia, evitando di rappresentare per ovvie ragioni tutte le novelle intercalate dell’opera letteraria per ovvie ragioni, rivendicando il primato della fantasia sulla realtà attraverso la figura dell’hidalgo come archetipo del ribelle puro moderno.

L’uomo che uccise Don Chisciotte uscirà nelle sale italiane giovedì 27 settembre. Da non perdere!

 

Di seguito le pagine ufficiali del film-evento:

Pagina ufficiale del film: https://www.facebook.com/DonChisciotteFilm/

Pagina FB della distribuzione M2 Pictures: https://www.facebook.com/M2Pictures/

Instagram M2 Pictures: https://www.instagram.com/m2pictures/

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