‘L’impero delle clessidre’, il fantasy medievale di Mario Attilieni

“L’impero delle clessidre” di Mario Attilieni è il primo volume di una trilogia fantasy, che proseguirà con le opere “La vendetta degli Unicorni” e “La Profezia dell’Autunno”. L’autore ha creato un mondo complesso e dalla geografia ben definita – che si può anche ammirare nella mappa contenuta nel libro – e ne ha raccontato con dovizia di particolari le storie e le leggende; sono inoltre presentate delle tematiche socio-politiche che rendono il romanzo interessante e anche molto attuale.

Questo mondo fantastico è chiamato Zimania, ed è diviso in quattro regioni: la Morgania, a est, la Gianubia, a sud, la Vasazia, a ovest, e l’isola di Ebania, a nord; l’autore descrive le varie terre, molto diverse le une dalle altre così come i loro abitanti, e offre anche una storia delle colonizzazioni a cui sono state soggette: si era infatti svolta nel passato un’aspra lotta tra i Sidi, dei temibili conquistatori, e gli Aesi, gli autoctoni, che si era poi evoluta in una progressiva e inevitabile mescolanza tra i due popoli e nella proclamazione a Imperatore di Oriam Kelys, chiamato Oriam il Grande.

«Dante ripensò a quanto fosse vero quello che qualcuno gli aveva detto anni addietro: “Il mestiere di scrittore è la cosa più simile a essere Dio”. Era vero: decidi chi nasce e chi muore, cosa accade a chi. I destini delle persone. Lo scrittore è creatore e distruttore al tempo stesso, demiurgo e assassino a sangue freddo. Forse l’unico modo per cercare di capire Dio è quello di scrivere un libro».

La vicenda, però, non è incentrata solamente sulle articolate dinamiche politiche che spesso gettano Zimania nel caos; la storia infatti ruota intorno all’avventura straordinaria di Dante e di suo figlio diciottenne Achille. I due vivono una vita tranquilla nel mondo reale finché non vengono letteralmente risucchiati nel libro scritto da Dante come regalo per la maggiore età del figlio: questo romanzo non è altri che la storia di formazione del giovane Oriam, e del suo lungo e prospero regno. Dante si rende subito conto di trovarsi nel mondo da lui inventato; scaltramente, decide di incarnare il personaggio di Dante Rivolta, che nel libro aveva descritto molto simile a lui. Dopo aver convinto il figlio della veridicità della loro assurda situazione, l’uomo cerca un modo per tornare nella loro realtà: comprende di doversi impadronire dell’antichissima magia che lui, nel suo romanzo, aveva collocato presso l’Isola Sacra. Il viaggio per conquistare questa magia ancestrale sarà arduo e pericoloso; sono infatti trascorsi otto anni dalla fine del suo libro, terminato con la morte di Oriam il Grande, ed egli, da narratore onnisciente qual era, conosce molto delle dinamiche e dei segreti di Zimania ma non tutto: la storia da lui creata si è infatti evoluta spontaneamente e indipendentemente dal suo volere.

In un romanzo ricco di azione e di inventiva si riflette sulle responsabilità e sui limiti della creazione letteraria, e si presenta una vicenda che promette avventure entusiasmanti tra storie d’amore, magia, creature fantastiche e violente lotte per il potere.

 

SINOSSI DELL’OPERA. In occasione del suo diciottesimo compleanno, Achille riceve un libro che suo padre Dante ha scritto per lui. All’improvviso, per magia, vengono catapultati all’interno del libro stesso, in un mondo immaginario e fantastico, popolato di dame e cavalieri, draghetti volanti, Giganti, Amazzoni, Unicorni e particolari creature elfiche, chiamate Linchetti. Un Continente suddiviso in quattro regni, governati da quattro cugini, sul piede di guerra gli uni contro gli altri per l’eredità del nonno, l’Imperatore Oriam Kelys.

 

BIOGRAFIA DELL’AUTORE. Mario Attilieni (Lucca, 1986) si laurea in Giurisprudenza e dal 2009 comincia la sua attività imprenditoriale nel settore delle calzature alla guida di una start up negli Stati Uniti; per il suo lavoro si divide tra Italia, Inghilterra e America. Nel 2004 vince il premio di poesia “Il Bonturo”.

 

Casa editrice: Libeccio Edizioni

Genere: Fantasy

Pagine: 272

 

Contatti

Instagram: Mario Attilieni (@marioattilieni); L’Impero delle Clessidre (@limpero_delle_clessidre)

http://www.ctleditorelivorno.it

 

Link di vendita online

https://www.ibs.it/impero-delle-clessidre-libro-mario-attilieni/e/9788833874715

“Il sesto sigillo” di Mario Pastore e Giulio Spreti: mai un fantasy fu così ‘profetico’

Il sesto sigillo edito, Brè Edizioni, è il romanzo a quattro mani di di Mario Pastore e Giulio Spreti. 

Mario Pastore, esperto di organizzazione, docente in ambito manageriale e comportamentale. Giornalista a La Stampa di Torino, direttore del personale di una grande azienda manifatturiera, dopo un lungo periodo come consulente e quindi amministratore di Forrad e Forbank, vive l’esperienza di Vicedirettore generale di una Cassa di Risparmio. È tra i primi docenti di Centro Internazionale FOR di cui diventa Presidente nel 2012.

Giulio M. Spreti, esperto di marketing. Docente in ambito manageriale e comportamentale. Matura la sua esperienza in agenzie di Direct Marketing a livello internazionale, divenendo Direttore generale di Rapp & Collins. Approda alla formazione in Accademia di Comunicazione a Milano. Collabora come Cultore della Materia al Politecnico di Milano. Dal 2012 è Direttore generale di Centro Internazionale FOR.

Il sesto sigillo: Sinossi

Il sesto sigillo, vincitore del primo premio al concorso letterario Città di Jesi 2021 , è sempre più attuale.

Il 25 marzo, nel corso di una funzione religiosa tenuta in San Pietro il Pontefice, in osservanza a una specifica richiesta dell’ultima veggente di Fatima, ha consacrato Ucraina e Russia al Sacro Cuore di Maria.

E proprio dalle parole profetiche di suor Lucia dos Santos, ultima veggente di Fatima, muove il romanzo di Mario Pastore e Giulio Spreti che nel 2010, diversi anni prima degli avvenimenti, ideavano una storia basata sulle dimissioni di un Papa (avvenute poi nel 2013) e sulla possibile clonazione umana (lo stesso anno moriva a Cambridge il suo fautore e Premio Nobel per la Medicina Robert Geoffrey Edwards).

Coimbra, 11 luglio 1977
La marchesa Olga Morosini de Cadaval, sfidando la pioggia battente, insolita per la metà di luglio a Coimbra, si incamminò lungo la discesa del convento delle Carmelitane gettando un’occhiata distratta al brutto mosaico che deturpava il lato sinistro della chiesa,
proprio sopra la salitella che porta all’ingresso della clausura. Il Patriarca le aveva chiesto con uno sguardo gentile, che lei aveva saputo interpretare grazie alle ripetute frequentazioni
veneziane, di lasciarlo solo per qualche minuto con suor Lucia. Anche se in fondo era stata lei l’artefice di quell’incontro, con la sua insistenza e grazie ai consigli di Don Mario, parroco della chiesa di San Lorenzo e amico, oltre che per diversi anni segretario di Monsignor Albino Luciani, la marchesa ritenne di ritirarsi dalla cella e lasciare il Cardinale in confidenza con l’ultima Veggente di Fatima.

Ancora una volta i Cardinali sono riuniti in conclave chiamati a trovare il successore di Pietro. La Chiesa di Roma è di fronte a un bivio: continuare una gestione della tradizione multi millenaria che l’ha portata oggi a confrontarsi con problematiche che la vedono minacciata nella credibilità, oppure tentare una rifondazione riproponendo valori trascurati che possono, tuttavia, rappresentare una minaccia al sistema. Il romanzo, con il piglio di un thriller, rievoca una vicenda che prende le mosse dal terzo segreto di Fatima e da Papa Albino Luciani per giungere a maturazione ai giorni nostri. Chi sarà il portatore di questi valori, da dove viene, da dove nasce e, soprattutto… da chi? A ricordarlo è una voce inaspettata, insolita, che agisce sulla cultura e non sulle rappresentazioni; una voce che viene da lontano, molto lontano.

2010: seduti in veranda in una tiepida serata di primavera, dopo una giornata di lavoro e una bottiglia Prosecco, commentando l’ostensione della Sacra Sindone nel Duomo di Torino, nasce di getto la trama de Il Sesto sigillo – rendono noto Mario Pastore e Giulio Spreti.

Ne abbiamo abbastanza di saggi a 4 mani legati al nostro comune lavoro, lasciamo correre la fantasia e divertiamoci!  Ci siamo immaginati una storia di ‘fantascienza’, con un Papa che si dimette e con un professore che afferma di poter clonare un essere umano. Nei giorni successivi, entusiasti dell’idea, ripartiamo i compiti e buttiamo giù qualche capitolo. Poi veniamo assorbiti dalla vita, dagli impegni, dagli eventi. La storia rimane accantonata nel limbo delle nostre menti a ‘maturare’ per tre anni buoni.

2013: fine febbraio, Papa Ratzinger si dimette e nell’aprile dello stesso anno muore il prof. Robert Edwards, premio Nobel per la medicina e padre della fecondazione in vitro. Potevamo noi autori far finta di nulla e non leggere questi due avvenimenti come un ‘segno’?

Immediatamente abbiamo ripreso il Prosecco e la storia che avevamo ipotizzato, adattandola alle date fatali. Se uno scienziato fosse in grado di ‘clonare’ da un resto di DNA l’essere impresso nella Sindone e nascesse un uomo e se quest’uomo all’età di 33 anni fosse ucciso…beh, il resto è la storia de Il Sesto sigillo. Una vera e propria Apocalisse”.

 

 

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‘Le foglie del destino’, il fantasy di Marco Motta con protagonista un’eroina druida

Casa Editrice: Albatros Il filo

Collana: Nuove Voci-Imago

Genere: Fantasy

Anno: 2021

Pagine: 316

 

I druidi, dignitari appartenenti alla classe dirigente sacerdotale, maestri di vita e cerimonieri, dediti all’insegnamento della filosofia, della magia e delle arti taumaturgiche. Sono questi i celti protagonisti dell’ultimo romanzo fantasy di Marco Motta, edito da Albratos e intitolato Le foglie del destino. Spesso viene attribuita ai druidi, soprattutto in età antica, la responsabilità di sacrifici umani a fini religiosi, ma non ne abbiamo prova. Tuttavia spesso si è cercato di denigrare questa figura potente e affascinante che si ritrova come personaggio positivo nel romanzo di Motta.

Haara, il pianeta della luna Viola e Calideo, il pianeta della luna verde, sono legati all’insaputa dei loro abitanti, da un destino comune. La natura, sotto forma della divinità Agaty, richiede un cambiamento ciclico e la creazione di un nuovo pianeta frutto dalla fusione dei singoli. Gli strumenti della dea sono i Druidi Neri, la parte maschile degli utilizzatori della magia della natura, che attraverso il Male Nero, una contaminazione di tutto ciò che vive sui due pianeti, portano la morte e la conseguente rinascita nella nuova forma. Tuttavia, nel ciclo di morte e rinascita durante il quale le vicende sono narrate, i Druidi Neri attuano il loro piano di destabilizzazione di un processo millenario, cercando di creare un nuovo mondo sotto il proprio dominio.

In questo contesto, oscuro agli abitanti di Haara e di Calideo, la dea Agaty, sceglierà la giovane Druida Alys come suo strumento per contrastare il piano dei confratelli neri. La Via, cioè il sentiero che porta una giovane druida a diventare adulta, porterà la protagonista di questo libro e dei successivi, a scoprire il suo pianeta Haara. Per lei, tutto sarà una novità perché inizierà a camminare lungo la propria Via dopo aver passato i primi venti anni chiusa in un circolo druidico. Alys è ignara di quello che sta realmente accadendo al suo pianeta ma i primi contatti con il Male Nero, nella foresta delle Antiche Querce, creeranno in lei molte domande alle quali riuscirà a dare risposta lungo il suo viaggio. Le sue certezze inizieranno a sgretolarsi e prenderanno nuove forme grazie anche agli amici che incontrerà.

Alys, entrando in contatto con un cavaliere riuscirà a capire molte cose di se stessa che prima ignorava.

Le foglie del destino costituisce il primo capitolo di una saga fantasy avvincente e dalla lettura scorrevole che mette in evidenza la non importanza del sapere con certezza se i druidi fossero uomini o donne. E in effetti esiste una corrente che vuole il mondo celtico legato alla Madre terra, alla donna come origine della vita. La figura del druido non da conferma né alla fazione che vuole i druidi essere solo degli uomini, né alla fazione opposta. Motta con questo libro omaggia la figura femminile.

Nella fattispecie l’autore di concentra su una ragazza, Alys, giovane druida che intraprende un coraggioso cammino alla ricerca della Via. La sua missione è divenire una Essyn adulta. Ha commesso un grande errore: ha creduto di essere la migliore, sentendosi superiore alle sue compagne, ma è pronta a rimediare. Molti saranno gli incontri che farà lungo il viaggio, molte le visioni, gli ostacoli, la magia da plasmare, le foreste da liberare, i combattimenti che dovrà affrontare.

Ma chi erano storicamente i druidi? Cosa si sa di loro? Le nostre conoscenze sui druidi si fondano su una documentazione molto complessa e spesso contraddittoria, composta sia da testimonianze archeologiche, iconografiche ed epigrafiche che da fonti letterarie, in testi classici e in lingue celtiche.

Lo scrittore lombardo Marco Motta fa conoscere ad appassionati e non il mondo dei druidi lontano tradizione storiografica antica la quale ha ereditato e trasmesso numerosi pregiudizi ideologici relativamente al celta-tipo, ovvero un barbaro che nel combattimento è individualista, impulsivo, senza disciplina di gruppo, né strategia militare, schiavo del vino e di bagordi, poco resistente allo sforzo e facile allo scoraggiamento nel caso in cui la vittoria non giunga subito. L’autore presenta invece un universo diverso, che si vuole allontanare dai luoghi comuni proponendo al lettore la figura della druida bianca che deve rimediare alla sua superbia per poter conquistare la “rinascita”.

Il fantasy di Motta offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci si trova se stessi e al contempo una tregua dall’identità.

Motta suggerisce, attraverso un fantasy avvincente, e senza lasciarsi sedurre troppo dal desiderio o dalla tendenza di complicare la trama per appassionare ulteriormente il lettore riempiendolo di colpi di scena e di eccessivi intrecci paralleli, che bisogna trascendere se stessi, a volte, per poter davvero scoprire e afferrare la propria identità.

Le foglie del destino può essere considerato un romanzo di formazione che unisce il gusto per la visione alla riflessione su tematiche quali il rapporto uomo-Natura, in un contesto di romanzo di genere che coniuga una storia di coraggio ed eroismo al femminile e trattazione del tema ambientalista, concentrandosi intelligentemente sulla Natura e suoi suoi abitanti.

 

 

Contatti

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‘La formica argentina’, un racconto giovanile di Calvino, cupo e lirico

La formica argentina è un racconto lungo di Italo Calvino pubblicato per la prima volta nel 1952, nel decimo numero della rivista di letteratura «Botteghe oscure», scritto tra l’agosto del 1949 e l’aprile del 1952, e precede la stesura del Visconte dimezzato. Calvino scrive:

Ho scritto un racconto piuttosto abile ma un po’ gratuito, perciò non sono molto contento, uscirà su Botteghe Oscure.

Oggi fa parte de I racconti e si trova nel secondo volume, libro quarto, La vita difficile, insieme a La speculazione edilizia e a La nuvola di smog.

Scritto in prima persona, è il primo testo narrativo in cui Calvino abbandona i temi della Resistenza e della vita nel dopoguerra. La trama è semplice: il protagonista, disoccupato, insieme alla moglie e al figlioletto si trasferisce in un paesino della Riviera ligure, dietro suggerimento dello zio Augusto.

Il protagonista prende in affitto una piccola casa con giardino, che versa in stato di abbandono, senza sapere che la zona è infestata dalle formiche argentine, piccolissime e che arrivano dappertutto. I vicini le combattono in modo diverso: i Reginaudo con una quantità sproporzionata di insetticidi e veleni, il capitano Brauni le tortura e le uccide con le trappole, la signora Mauro, orgogliosa e rigida, nella sua grande e buia villa, finge che non ci siano, infine il signor Baudino, impiegato all’Ente per la lotta contro la formica argentina, le nutre con una melassa avvelenata. Il protagonista, dopo aver fatto visita ai vicini, a cui chiede consigli e dopo un sopralluogo nel giardino, si rende conto che non è possibile eliminare quella specie di formica e che l’unica soluzione è una rassegnata convivenza.

Il racconto è da subito pieno di angoscia di fronte a un nemico che si insinua ovunque: nel cibo, nel letto, nella canestra e persino nell’orecchio del bambino. La moglie appare sin dall’inizio ossessionata dalla marea di formiche, diffidente contro tutto e tutti, l’angoscia si trasforma in psicosi tanto che la donna finisce per aggredire il signor Baudino, accusato di favorire la proliferazione delle formiche per non perdere il lavoro. Alla fine del racconto, il protagonista, la moglie e il bambino arrivano al porto e … c’era il mare.

C’era una fila di palme e delle panche di pietra: io e mia moglie sedemmo e il bambino era quieto. Mia moglie disse: -Qui non c’è formiche-. Io dissi: E c’è un bel fresco: si sta bene. (…) Io pensavo alle distanze d’acqua così, agli infiniti granelli di sabbia sottile giù nel fondo, dove la corrente posa gusci bianchi di conchiglie puliti dalle onde.

La cupa narrazione si chiude con un passo di grande lirismo, la visione del mare calmo e pulito regala ai protagonisti un momento di serenità pur nelle difficoltà della vita. Il mare è l’opposto delle formiche, lava tutto, leviga, assume un significato di rigenerazione, ma prima di giungervi, la famigliola attraversa la città vecchia, digradante, che mostra i segni del male: la pietra grigia e porosa; le donne che portano ceste sul capo con gli occhi bassi; le ragazze cucitrici, da un giardino di un convento, guardano un rospo in una vasca e pronunciano a quella vista la parola angoscia; delle giovinette vestite di bianco che fanno giocare con un pallone un cieco; un ragazzo con addosso i segni della miseria, raccoglie fichi d’India da una pianta piena di spine; i bambini di una casa ricca, nonostante giochino facendo bolle di sapone sono tristi; i vecchi del ricovero rientrando, salgono le scale con il bastone e ciascuno parla da solo.

Nella lettera a Cesare Cases, Calvino smentisce che si tratti di un’allegoria pura e semplice del capitalismo come aveva drasticamente affermato il saggista, ma non può fare a meno di chiarire che il tema affrontato nel racconto non è semplicemente la descrizione di un fastidioso fenomeno naturale; esso sottende la volontà dello scrittore di mettere in relazione natura e storia. In natura esistono realtà mostruose così come nella Storia; l’immagine delle formiche, con le suggestioni emotive che sa trasmettere, è da sola un veicolo che rimanda al male connaturato nella Storia.

Per chiarire il concetto è necessario ricorrere ai testi di saggistica di Calvino. In Visibilità, la quarta delle Lezioni americane, Calvino parte dalla ben nota immaginazione visiva di Dante nel Purgatorio, per poi citare il manuale degli esercizi spirituali di Sant’Ignazio de Loyola, il quale utilizza l’immagine visuale come via efficace per raggiungere la conoscenza dei significati profondi, per giungere a Dio. Nel sottolineare l’importanza dell’immagine, Calvino scrive:

Possiamo distinguere due tipi di processi immaginativi: quello che parte dalla parola e arriva all’immagine visiva e quello che parte dall’immagine visiva e arriva all’espressione verbale. Se il problema della priorità dell’immagine visuale sull’espressione verbale era valido nel periodo della Controriforma, lo è anche oggi, sottolinea l’autore, quando l’immagine risulta essere dominante sulla parola. Le immagini nella fantasia provengono, per Dante, da Dio, secondo il pensiero attuale dall’inconscio individuale e collettivo, tuttavia esse vanno oltre il controllo esercitato dalla nostra coscienza tanto da raggiungere una dimensione trascendente.

Il protagonista (narratore) della Formica argentina non ha nome né volto, si muove tra tanti personaggi minori, ognuno dei quali ha un suo modo di contrapporsi alle formiche senza ottenere nessun risultato. Il caos, il male di vivere si è oggettivato nella vita quotidiana del protagonista che non ha una casa, non ha un lavoro, ne va in cerca e non lo trova, è preoccupato per la salute del bambino e per finire è oppresso dalla lenta burocrazia rappresentata dal signor Baudino (somigliava a una formica), indifferente di fronte ai problemi della società. L’unico rimedio, al male di vivere, potrebbe essere la solidarietà tra gli individui, ma essa manca totalmente nel romanzo, lo si nota quando la moglie del protagonista si ribella e inizia una marcia di protesta contro il signor Baudino.

La Formica argentina descrive una realtà cupa, angosciante, dove nel protagonista non c’è nessuna speranza né di tipo religioso né civile, eppure è presente un sentimento virile, che consiste nell’accettazione del male quando esso non è eliminabile. Come afferma Alberto Asor Rosa, in un articolo apparso sul quotidiano «la Repubblica» l’1 dicembre 1985, dietro la forma elegante e raffinata, la chiarezza e l’esattezza del periodare in tutta la produzione di Calvino si avverte un “nocciolo duro”, che consiste nella Natura morale dell’ispirazione calviniana, e che in essa, forse, consiste

nella Natura morale, il vero fattore di continuità, la coerenza complessiva della sua ricerca (da Il sentiero dei nidi di ragno a Palomar), il macigno sotterraneo da cui spiccava il volo la sua fantasia o si dipanava il filo sottile del suo ragionamento. (…) Per scrittore morale non intendo affatto quello che suggerisce valori o addita obiettivi; lo scrittore morale non si pone il problema di dire qual è il bene e qual è il male. Chi fa questo è un moralista (in senso riduttivo) o, peggio, un propagandista. Per me lo scrittore morale è quello che si limita a suggerire dei comportamenti e ad additare una linea di condotta: ma, al tempo stesso, affianca alla natura apparentemente limitata del “messaggio” l’inflessibile convinzione che non si può rinunciare alle regole di comportamento né a perseguire con fedeltà e tenacia una linea di condotta, pena l’inabissamento nel magma dell’indistinto e dell’arbitrario.

 

 

Fonti:

Giuseppe Bonura, Invito alla lettura di Calvino, Mursia, Torino 1972.

Marco Belpoliti, L’occhio di Calvino, Nuova edizione ampliata, Piccola
Biblioteca Einaudi 2006

Alberto Asor Rosa, Il cuore duro di Calvino, «la Repubblica», 1 dicembre
1985.

‘La forma dell’acqua’, il fantasy romantico di alta classe di Guillermo del Toro candidato all’Oscar che è anche una splendida dichiarazione d’amore verso il cinema

Dal film candidato agli Oscar 2018 The shape of water-La forma dell’acqua, risulta chiaro che il regista Guillermo del Toro sia molto più che un semplice appassionato di Lovecraft, Borges, Bava Fellini e di mostri: il cineasta messicano è prima di tutto, infatti, un vero narratore di fiabe moderne, un uomo che ha trovato nella settima arte il medium espressivo perfetto per raccontare le sue storie uniche. Altrettanto vero è che del Toro non sia un creatore di film per tutti, e ciò si vede dal fatto che il suo stile particolare gli sia valso uno strano rapporto di amore/odio con Hollywood: nonostante abbia un nutrito seguito di appassionati, infatti, i suoi racconti degli ultimi anni si erano forse un po’ allontanati dai meravigliosi estetismi narrativi de La Spina del Diavolo o de Il Labirinto del Fauno per perdersi in sovrastrutture un po’ barocche e rime estetiche di difficile decifrabilità (come nel caso del poco riuscito Crimson Peak).

Con La forma dell’acqua del Toro non solo è riuscito a creare quello che probabilmente è il suo film migliore, ma lo fa con una storia d’amore, terreno nel quale non si era praticamente mai addentrato. L’ultima pellicola del regista è infatti anche la sua consacrazione definitiva, un film attraverso il quale traspare chiaramente non solo tutta la sua voglia di riscatto e il suo amore incondizionato per il cinema, ma anche una consapevolezza nuova, più precisa e sicura nel raccontare le sue storie. C’è da dire dopotutto che, probabilmente, dopo il Leone d’Oro a Venezia, quest’ultimo lavoro sarà un prodotto che riserverà a del Toro grandi soddisfazioni anche durante la cerimonia di premiazione dei prossimi Academy Awards (il film è stato candidato all’Oscar in ben tredici categorie).

La scenografia della Baltimora immaginata dal del Toro funge un po’ da specchio per lo stato d’animo dei personaggi che la abitano: l’oscurità regna sovrana, e il cielo della città sembra presagire una pioggia che prima o poi finirà con il cadere sulla vita di tutti i protagonisti. Alla fine, ognuno di loro cova dentro di sé un intimo dolore, soffrendo per una possibile vita perduta: l’amica Zelda trattiene a stento una grande voglia di riscatto, che ha paura a manifestare apertamente in quanto donna nera in un’epoca in cui queste due categorie avevano difficoltà a trovare uno spazio, Giles accumula nel frigo torte che lo disgustano ma che compra nel locale dove lavora il barista di cui è segretamente innamorato ma a cui non si può dichiarare, lo scienziato interpretato da Michael Stuhlbarg è vittima di un sistema che lo usa e lo sfrutta ma da cui si trova impossibilitato a scappare.
E se la protagonista Elisa è muta, senza un passato ed emarginata da una società che la considera diversa, dopotutto anche lo strano essere, strappato da un fiume in Amazzonia dove veniva considerato un dio per diventare una cavia da laboratorio, non si ritrova anch’esso ad essere impossibilitato a comunicare in un mondo che non lo accetta, esattamente come lei? I protagonisti del film sono proprio loro, quindi: i deboli, i reietti, i diversi, gli esclusi, i mostri. Il forte sottotesto politico presente in La forma dell’acqua riesce ad essere così riuscito, però, proprio perché non cade mai nel banale o nel retorico, nonostante sia chiaro e presente per tutta la durata della pellicola.

Se fantasy creativo estratto da un leitmotiv classico doveva essere, infatti, il regista messicano di horror ricercati trapiantato a Hollywood impartisce una lezione d’alta classe su come alla fine di una tempestosa storia d’amore la Bella possa non avere più bisogno che la Bestia si trasformi in un principe umanamente corretto. Prima identikit di una solitudine al femminile, poi avventura mozzafiato all’ombra della Guerra Fredda, infine grido di libertà in nome dei “diversi” alquanto svincolato, però, come si è accennato dalla consueta retorica buonista: seppure la metafora centrale proponga un vero e proprio manifesto a favore delle minoranze oppresse, La forma dell’acqua riesce a fare di un uomo-branchia, un mostro perseguitato, una creatura anfibia ripugnante il credibile protagonista di un puzzle visionario, una dichiarazione d’amore al cinema di genere, uno show euforizzante librato nei vortici di un musical fiabesco.

Per mitigare il possibile retrogusto melenso il sentimento che a poco a poco avvince la dimessa e muta Elisa (perfetta l’incarnazione della Hawkins) all’essere misterioso, catturato all’inizio dei Sessanta in Amazzonia e tenuto prigioniero dai militari yankee al servizio di un torvo colonnello (l’impressionante Shannon) in un laboratorio segreto dove lei lavora come donna delle pulizie, è via via contrappuntato da sapienti sprazzi, anche abbinati, di humour ed erotismo; mentre il crescendo della suspense non tralascia la cura maniacale dell’ambientazione, la fotografia e le musiche d’epoca, per non parlare della pertinenza delle automobili, i cartelloni pubblicitari in stile Norman Rockwell e la sala Orpheum dislocata sotto l’appartamento della protagonista dove si proiettano a volontà goduriosi peplum e horror. Il taglio registico è talmente diretto e sincero da non fare perdere al film il suo impeto neppure quando ciascuno dei coprotagonisti -la collega nera vessata dal marito, lo scienziato che fa il doppio gioco in nome e per conto dei non meno malvagi sovietici, il giovane gay disegnatore fallito- accentua la propria funzione di puntello drammaturgico in vista dell’accavallarsi di fughe e colpi di scena nel prolungato, convulso, folle finale. Non si sa se sia opportuno o meno accontentarsi dell’epigrafe “I mostri siamo noi, non loro”, perché La forma dell’acqua mette in campo una serie ricchissima d’invenzioni e diramazioni che rischiano di renderla banale o inappagante. Quello che sappiamo bene, però, è che Del Toro sa fare il cinema, eccome se lo sa fare.

La forma dell’acqua è dunque anche una bellissima dichiarazione d’amore di Guillermo del Toro nei confronti della settima arte, quella più romantica, visionaria, sentimentale: in questa pellicola non c’è infatti solo un chiaro rimando all’estetica de Il Mostro della Laguna Nera del 1954 di Jack Arnold ma c’è appunto una storia che ricorda molto il romanticismo de La Bella e la Bestia, ci sono delle musiche che strizzano l’occhio Il Favoloso Mondo di Amélie, c’è un po’ di E.T. e di King Kong. Ad un certo punto del film ci sarà anche un cinema che proietta in sala vecchi film come The Story of Ruth: i rimandi più numerosi sono dedicati infatti soprattutto ai vecchi musical, alle pellicole in bianco e nero che fanno battere i piedi a tempo di musica ad ogni balletto di Shirley Temple. Anche la protagonista del film, Elisa, trova infatti più colori in una pellicola in bianco e nero che nella sua vita vera, paradossalmente molto più grigia di quel mondo di celluloide sul quale tanto fantastica: lei sogna di fuggire dalla realtà di cui è impotente prigioniera piroettando sulle note di You’ll Never Know di Renée Fleming, danzando sulle punte e cantando con una voce cristallina che non potrà avere mai.

In questa pellicola si celebra la vera la settima arte, quella che ti fa sfuggire alle brutture della vita reale per cercare un po’ di magia, per ritrovare se stessi o, forse, per perdersi un po’: dopotutto siamo in quel periodo degli anni ’60 durante il quale il cinema continuava ad esistere come un mezzo di intrattenimento in declino, sopravvivendo nonostante le pressanti minacce di crollo sotto i colpi della televisione, ormai in via di diffusione capillare in tutte le case statunitensi (un po’ come la creatura del film, un tempo venerata e considerata un dio, poi maltrattata e brutalizzata dai suoi miseri oppressori).

La forma dell’acqua ci fa ritrovare quella naturale attrazione e malinconia per le sale buie, vuote e polverose (la protagonista vive in un appartamento ubicato proprio sopra una vecchia ma bellissima sala di proiezione): luoghi dimenticati da molti che tuttavia vengono riscoperti come magnetico rifugio, a volte inaspettato, da chi ne ha davvero bisogno, premiando chi ha tempo di fermarsi a guardare il pulviscolo che si illumina nel fascio di luce del proiettore. E poi, diciamo la verità: Se proprio si deve assistere all’ennesimo pippone sull’amore inclusivo senza falsi moralismi che supera le discriminazioni, i pregiudizi e le diversità, almeno che abbia la pretesa di essere un film di ottima fattura invece che le solite mediocre storielle politicamente corrette.

 

Fonti: L’intellettuale dissidente

La forma dell’acqua – The Shape of Water

Il terrore e l’odio per la vita e per il mondo nelle opere di H. P. Lovecraft, insofferente al modernismo

Reazionario, pessimista, razzista, antimoderno, antidemocratico e anti-yankee. Prima ignorato, poi demonizzato e banalizzato. Misconosciuto per molti , non è uno scrittore per tutti: un uomo “contro il mondo, contro la vita”. Ma nonostante ciò, H. P. Lovecraft è divenuto oggi una figura pop. Riscopriamo un autore che ha odiato così profondamente la vita, tanto da aver fatto del suo disgusto un’opera d’arte. Nella storia dell’umanità sono esistiti autori ignorati o addirittura umiliati quando erano in vita, per poi essere onorati dai posteri, divenendo dei veri e propri classici, colonne portanti di un determinato pensiero. Howard Philips Lovecraft è sicuramente uno di questi. Oggi le sue opere vengono ristampate in massa e i suoi miti sono impressi nell’immaginario collettivo. La conseguenza principale di questo stato di cose è che tutti parlano di Lovecraft, anche se non lo hanno mai letto: la sua figura viene banalizzata, in quanto unicamente ricondotta alle creazioni più famose (da Cthulhu a Nyarlathotep, dal Necronomicon alle Montagne della follia). Ad un livello più profondo, invece, il fascino di questo personaggio deriva proprio dalla sua caratterizzazione. Nell’introduzione alla raccolta di tutti i racconti lovecraftiani, Giuseppe Lippi scrive: «ama il mondo greco-romano, non il presente industrioso; riverisce il Settecento coloniale, non l’indipendentismo di “queste colonie di rivoltosi”; è anglofilo, antiyankee, insofferente al modernismo». È razzista, reazionario e disprezza la società democratica, progressista e consumista. Il suo pessimismo, definibile come “cosmico”, lo porta ad apprezzare i valori puritani: l’importante, nella permanenza in questo mondo orribile, è rimanere puri. Come afferma Michel Houellebecq nel suo saggio H. P. Lovecraft. Contro il mondo, contro la vita: «il personaggio di Lovecraft affascina anche perché il suo sistema di valori è totalmente opposto al nostro».

Howard Phillips nasce a Providence, capitale del Rhode Island (il più piccolo degli stati americani, ma anche l’unico storicamente a maggioranza cattolica), il 20 agosto 1890. Il padre, Winfield, inglesissimo nei modi e per discendenza, muore quando Howard è ancora bambino. Il piccolo Lovecraft si ritrova a vivere con la madre Sarah Susan Phillips (di ceto medio borghese) e poi con le zie materne Lillian e Annie. Fin da piccolo è colpito da costanti esaurimenti nervosi, che lo portano ad abbandonare la scuola pubblica e a proseguire gli studi privatamente. Inizia a scrivere i propri racconti a sette anni, ma, dopo l’ennesimo collasso nervoso, nel 1908, decide di distruggere quasi tutta la sua produzione giovanile. È appena entrato nella maggiore età e ne è disgustato, come confiderà in una lettera del ’20: «poiché la gioia dell’infanzia non si riesce più ad agguantarla. L’età adulta è l’inferno». Dopo questa crisi durata quasi dieci anni, durante i quali scompare, rintanandosi in casa (forse è questo il periodo che gli varrà il soprannome del «solitario di Providence»), si riprende, iniziando a scrivere i suoi racconti maturi. Tuttavia, come rivelerà in una lettera del ’25, la scrittura per lui non ha mai rappresentato una professione, ma «un’arte elegante cui dedicarsi senza regolarità e con discernimento» che si adatta alla vita di un gentiluomo. L’unica cosa che chiede sempre agli editori è di pubblicare le sue opere senza tagli e modifiche o, nel caso contrario, non pubblicarle affatto. Come ammette lui stesso, non ricerca mai una storia da scrivere, ma aspetta che una storia abbia bisogno di essere scritta. È soprattutto questa l’importanza del sogno nell’opera lovecraftiana, seppur distante dal “simbolismo puerile” di Freud. In Oltre il muro del sonno (1919) scrive:

«La mia esperienza non mi consente di dubitare che l’uomo, una volta abbandonata la coscienza terrena, si trasferisca in una dimensione incorporea e profondamente diversa da quella che conosciamo; una dimensione incorporea di cui, una volta svegli, rimangono solo vaghissimi ricordi. […] A volte penso che questa esistenza meno materiale sia quella autentica e che la nostra vana presenza sul globo terracqueo sia di per sé un fenomeno secondario o puramente virtuale».

È per questa sua essenza aristocratica che, nonostante la collaborazione con numerose riviste (la più importante delle quali è Weird Tales), le proprie produzioni non sono la sua principale fonte di reddito. Lovecraft vive con i pochi dollari che guadagna come revisore delle opere altrui, in uno stato di semi-povertà permanente. Nei suoi lavori non parla mai del denaro, perché le preoccupazioni mondane non gli interessano. Allo stesso modo, non fa mai riferimento al sesso. Eppure, l’incontro nel ’22 con una donna, Sonia Haft Greene, rischia di scombussolare veramente la vita del solitario di Providence, riuscendoci effettivamente per un determinato periodo. In questo caso, è giusto parlare di opposti che si attraggono e si amano: la Greene è divorziata ed ebrea, ma ciò non impedisce ad un conservatore-antisemita come Lovecraft di sposarla nel ’24. I due si trasferiscono nella casa di lei a Brooklyn, dove Sonia ha un negozio di modista, mentre Howard passa dalla cittadina a maggioranza bianca, alla metropoli multiculturale. Nonostante questo balzo innaturale per un uomo come lui, tutto sembra procedere per il meglio, tanto che sembra deciso a dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Dopo poco, improvvisamente, la situazione naufraga: Sonia perde il lavoro e, messo nella condizione di dover trovare lui un’occupazione comune, nell’incapacità di farlo, H. P. si arrende. È in questo contesto, di miseria e risentimento, che il suo razzismo, da blando e innato, diventa ossessivo. Scrive Houellebecq: «non si tratta più del razzismo beneducato dei Wasp: è piuttosto l’odio brutale dell’animale preso in trappola, costretto a condividere la gabbia, con animali di una specie diversa e temibili». L’intolleranza di Lovecraft è radicale, perché continuo è il contatto con quelle che lui considera essere specie diverse, delle “razze aliene”, che prima del soggiorno a New York erano solo un’eccezione. È per questo che simpatizza per i progetti del giovane Hitler, prendendone le distanze successivamente, non solo per le conseguenze storiche (che vedrà parzialmente, morendo prima), ma perché dal ’26 torna nella sua Providence, lontano dal marasma e senza Sonia, dalla quale divorzia nel ’29.

L’anno del ritorno a casa coincide anche con la pubblicazione del suo racconto più famoso Il Richiamo di Cthulhu. L’Incipit di questa opera sembra riprendere quello di una sua produzione precedente. La verità sul defunto Arthur Jermyn e la sua famiglia (1920) si apre così:
«La vita è una cosa orribile e dietro le nostre esigue conoscenze si affacciano sinistri barlumi di verità che la rendono ancora più mostruosa. La scienza, già oggi sconvolgente nelle sue terribili rivelazioni, rappresenterà la fine della razza umana […] quando fornirà alla nostra mente la chiave di orrori insopportabili che un giorno dilagheranno nel mondo».

Lovecraft non è una persona religiosa, mentre crede fermamente nella scienza. Tuttavia, questa fede non è positiva: il pensiero scientifico permette la scoperta di nuovi fenomeni, ma questi non sono sempre un bene e, per questo, a volte non andrebbero proprio svelati. La conseguenza di questo pensiero si rintraccia nel finale del romanzo breve Le Montagne della Follia (scritto nel ’31, pubblicato nel ’36):

«È assolutamente necessario, per la pace e la salvezza dell’umanità, che alcuni degli angoli più oscuri e sepolti della terra e delle sue abissali profondità rimangano inviolati; altrimenti orrori che dormono si sveglieranno a nuova vita, e incubi sopravvissuti in modo proibito strisceranno o nuoteranno dai loro neri rifugi per rinnovare e ampliare le loro conquiste».

Nel sostenere la metodologia scientifica, dunque, ne riconosce anche i limiti. Del resto, le sue creazioni mitologiche non possono essere definite scientificamente, perché la loro essenza si pone al di là della conoscenza razionale, pur essendo affrontate in maniera prettamente materialistica. Come sostiene Houellebecq «il terrore di Lovecraft è rigorosamente materiale», perché esso deve essere obiettivo, anche se le tassonomie scientifiche e le descrizioni architettoniche arrivano a produrre delle sensazioni ipnotiche nel lettore, come accade durante lo studio anatomico degli Antichi ne Le Montagne della Follia. Forse, è proprio in questo testo che si percepisce il picco creativo lovecraftiano, tastando l’insignificanza dell’uomo nello spazio e nel tempo, vedendo, anche se per qualche istante e indirettamente, l’infinita varietà della vita, con annessa la sua inquietante bellezza. In questo testo, trapela un’inaspettata empatia per il diverso, che si concretizza nel pensiero dei due ricercatori quando si ritrovano dinnanzi agli Antichi massacrati dagli Shoggoth:

«Finalmente capimmo cos’è il terrore cosmico nelle sue profonde implicazioni. Non era la paura delle quattro creature misteriose che mancavano all’appello, perché sapevamo fin troppo bene che non erano più in grado di nuocerci. Poveri diavoli! Dopotutto, e rapportati ai loro parametri, non erano esseri malvagi: erano gli uomini di un altro tempo e un altro ordine biologico. La natura aveva giocato loro un tiro diabolico, come certo farà con tutti coloro che la follia umana, lo sprezzo del pericolo o la pura e semplice crudeltà spingeranno ad avventurarsi nelle orrende distese polari, morte o addormentate che siano…Sì, questo era il tragico benvenuto che avevano ricevuto nel tentativo di tornare a casa».

Si potrebbe obiettare che nessuno conduce i ricercatori nei meandri delle Montagne della Follia (che poi scopriranno essere altre, ben più alte e irraggiungibili), così come nessuno spinge l’equipaggio norvegese a risvegliare il grande Cthulhu, e nessuno impedisce ai Gardner di trasferirsi dopo che il Colore venuto dallo spazio (1927) inquina la loro proprietà e finisce per divorarli. Nessuno o tutto. Sembra che, infatti, i personaggi lovecraftiani, estremamente piatti per tutto il racconto, non possano sfuggire al dolore: «Aggrediti da percezioni abominevoli, – rimarca Houellebecq – i personaggi di Lovecraft agiscono da osservatori muti, immobili, totalmente impotenti, paralizzati. Vorrebbero scappare, o sprofondare nel torpore di un provvidenziale svenimento. Niente da fare. Rimarranno inchiodati lì dove sono, mentre intorno a loro l’incubo prende forma». Il loro fine non è mai la gloria o la redenzione, e solamente a volte è la conoscenza (seppur mai definitiva e assoluta), mentre spesso sono loro i mezzi affinché un telos superiore si realizzi.

P. L. Lovercraft si spegne per un cancro all’intestino il 15 marzo 1937. «Morto Lovecraft nasce la sua opera», diranno i biografi. Diventerà un “mito fondatore” per decine di autori. August Derleth e Donald Wandrei fonderanno la Arkham House per tramandarne l’opera. Pur essendo disprezzato dalla critica del tempo, sarà osannato dal pubblico, fino a diventare quell’icona pop presentata ad inizio articolo. La verità è che Lovecraft non è un autore per tutti. Jacques Bergier, lo stesso che lo definisce come un “Edgar Allan Poe Cosmico”, sostiene che «forse per apprezzare Lovecraft occorre aver sofferto molto». Qualora non si fosse sofferto abbastanza, bisognerebbe perlomeno avere presente questa massima, evitando di farneticare attorno alle sue creazioni e alle sue idee (anche politiche), tenendo maggiormente conto della sua vicenda. Houellebecq scrive che egli «è riuscito a trasformare il proprio disgusto per la vita in un’ostilità attiva». Lovecraft è, infatti, riuscito a scrivere così bene, perché odiava sì la vita così in fondo, ma amava anche nominare l’innominabile, nella convinzione che questo avrebbe portato al collasso della dannata umanità. Alla fine di tutto, davanti agli orrori di altri tempi e luoghi, la cosa più razionale è impazzire, come fa Zadok Allen, il vecchio pazzo alcolizzato ne La Maschera di Innsmouth (1936):

«Le sarebbe piaciuto essere un ragazzo come me e guardare dal tetto, tutto solo, cose che non erano umane? Eh?…Eh, eh, eh».

 

Fonte: L’intellettuale dissidente

Il Fantasy, tra tutti i mondi possibili, il saggio curato da Silvia Costantino

Nato dalla serie di incontri denominati Il Sublime Simposio del Potere, il saggio Di tutti i mondi possibili, curato da Silvia Costantino, racconta con nove diversi interventi di scrittori e studiosi italiani il mondo del fantasy. Ad affrontare, da angolazioni diverse, temi dedicati a questo “genere” sono, oltre alla curatrice, Edoardo Rialti, Sergio Vivaldi, Francesco D’Isa (autore tra l’altro del romanzo La stanza di Therese edito per Tunué), Vanni Santoni (che con La Stanza Profonda era stato candidato da La Terza al premio Strega), Matteo Strukul (entrato più volte in classica con la trilogia de I Medici e fresco vincitore del Bancarella), Francesca Matteoni, Giovanni De Feo e Vincesco Marasco.

Ogni autore si concentra su un tema diverso, riuscendo però a costruire, letti uno di seguito all’altro, un unico micro (macro?) cosmo, capace di definire, se non tutti gli aspetti del fantasy (impresa che risulterebbe utopica) almeno molti di loro. Tutti i contributi pescano da un substrato comune, in qualche modo condiviso, da una serie di riferimenti in buona parte noti anche ai non assidui del genere, da Il Signore degli Anelli ad Harry Potter, ma anche a Omero, Ariosto e Tasso. Tanto da dare l’idea che la visione complessiva sia conforme, l’universo di cui si parla, per quanto infinito, per quanto pronto ad ospitare nuove lande e contrade, nuovi protagonisti e nemici, nuove avventure e magie, sia un universo davvero unico.

Di tutti i mondi possibili è così un libro per gli amanti del genere, ma anche, forse soprattutto, uno strumento (non lo è forse ogni libro?) utile per insegnare ai lettori una nuova lingua con cui osservare (leggere e rileggere) il mondo fantasy e le dinamiche che lo animano. Una specie di scatola degli attrezzi per montare e rismontare Harry Potter e le saghe di Tolkien, per cogliere il concetto di “barbaro” e il ruolo della “carne da cannone” (che siano semplici guerrieri o orchetti con la vita già spacciata), il punto di vista femminile e i riti di iniziazione presenti in quasi ogni storia di questa tipologia.

Se però la vostra domanda è più generica, se vi volete approcciare a questo saggio domandandovi unicamente cosa sia il fantasy e come mai negli ultimi vent’anni abbia avuto un crescente interesse (e qui si torna per forza a parlare di film e libri come quelli di Tolkien e della Rowling) potrete trovare molte delle vostre risposte nella prefazione di Licia Troisi, che inizia col raccontare come il fantasy sia, in fondo, solo la “quinta sulla quale si svolgono le mie storie” (del resto non è davvero così? Un mondo immaginario dove possono vivere storie di amore e guerra, di amicizia e viaggi, ma anche crisi famigliari, pensieri introspettivi e viaggi non diversi da quelli raccontati in volumi di tutt’altro genere).

Oltre a questo la Troisi, come faranno poi nei loro interventi anche Santoni e altri autori, si concentra sull’intermedialità del genere, capace, come nessun altro (se non, forse, quello dei fumetti Marvel), di spaziare da libri a film, da fumetti a videogiochi, da carachters riprodotti in statuette di resina da tenere a casa a giochi di ruolo. E le accuse che da più parti vengono lanciate come le frecce degli elfi sul genere? Libri da poco conto, puro divertissement senza alcuna profondità, lettura da ombrellone? È sempre la Troisi a spiegare di cosa si tratta. “Al fantasy si è a lungo associata un’accusa di vacuo escapismo: non è così, non sempre almeno. E quando lo è, si tratta dell’evasione del prigioniero e non della fuga del disertore. Il fantasy è un genere maturo, che fa appello alle nostre radici più profonde, alle nostre paure ataviche e ai suoi sogni più nascosti, che ci richiama all’infanzia, ma per parlarci del presente, del mondo che ci circonda, del cammino delle nostre esistenze”

Così, finito di leggere il libro, viene da pensare che di tutti i mondi possibili il fantasy sia di sicuro uno dei più completi. Dove la fantasia non ha limiti, seppure delle regole da seguire (e lo sa bene Vanni Santoni, esperto di giochi di ruolo), un rischio e un’opportunità per ogni scrittore che si vuole cimentare in una battaglia di questo tipo, magari provando ad ambientarci qualche libro scritto inizialmente in un mondo diverso, facendo capire i pregiudizi che ancora cadono sul genere. Un esempio, e una provocazione recente, se Le otto montagne di Cognetti fosse stato ambientato su un monte immaginario e, a parità di storia, avesse avuto come protagonisti invece che due ragazzi reali due hobbit o elfi o chierici, avrebbe vinto lo stesso il premio Strega?

 

Fonte:

http://www.cimabotti.it/varie-e-news/fantasy-tutti-mondi-possibili/

Il ragazzo invisibile 2: “ciack si gira!”

Il ragazzo invisibile, atto secondo: pochi giorni fa, precisamente il 2 agosto, sono cominciate le riprese del secondo capitolo del film Il ragazzo invisibile prodotto dalla straordinaria regia di Gabriele Salvatores che ha scelto di continuare a raccontare l’evoluzione del suo (anti)eroe. Il film uscirà nel 2017 e sarà distribuito da 01 Distribution. Il primo capitolo uscito il 18 dicembre del 2014, ci ha presentato il personaggio di Michele, interpretato da Ludovico Girardello, adolescente problematico usato come bersaglio da una banda di bulli. Un giorno mentre il protagonista si reca a comprare un costume per la festa data dalla nuova compagna di classe Stella (Noa Zatta), di cui è segretamente innamorato,il ragazzo si scontra con un gruppo di compagni che gli rubano i soldi. Dispiaciuto per l’accaduto il nostro protagonista è costretto a racimolare il contenuto del proprio salvadanaio per trovare una soluzione. L’unica alternativa possibile è il bazar cinese dietro l’angolo che per quella somma gli offre un misero costume. Ma è proprio grazie a quel costume che il ragazzo viene a conoscenza dei suoi superpoteri. Si scopre infatti che in realtà Michele è figlio di due superdotati catturati da un’associazione russa, per compiere degli esperimenti. Durante uno di questi esperimenti la madre fugge via, ma viene uccisa. Sorte differente tocca al padre che, riuscito a scappare, affida il bambino ad una donna maresciallo tanto desiderosa di un figlio, interpretata dal nastro d’argento Valeria Golino.

Il ragazzo invisibile 2: il riscatto del fantasy italiano

Il protagonista, ormai conscio delle proprie speciali capacità, le utilizzerà per vendicare i torti subiti e salvare gli altri super dotati come lui tra i quali anche Stella la quale viene rapita dalla stessa associazione sopracitata. Ma grazie all’aiuto di Michele e di altri compagni d’avventura la ragazza si salva, riuscendo a cancellare l’accaduto dalle menti di tutti perché essere diversi in questo mondo è pericoloso. La conclusione del primo film reca due rivelazioni: la sopravvivenza della madre e la scoperta di una sorella gemella Natasha, interpretata da Galatea Bellugi, che per tutto questo è tempo è rimasta nascosta in Marocco. Ed è proprio su queste novità che verterà il secondo capitolo della pellicola, le cui riprese sono locate a Trieste, set conosciuto per il primo, e continueranno per 12 settimane. La storia comincerà con un salto nel tempo: ora Michele ha sedici anni, e sta imparando ad usare i propri poteri nella vita quotidiana da adolescente.

Il temerario regista Gabriele Salvatores ha mostrato di sapersi cimentare alla grande con il fantasy adolescenziale, unendo esigenze commerciali a quelle autoriali, e scegliendo di avvicinarsi al film di genere con grande intelligenza e profondità, e rendendolo competitivo con i blockbusters made in USA. Anche da questo secondo atto ci si aspetta una narrazione fluida che non si risparmia informazioni didascaliche in quanto pellicola rivolta soprattutto ai più giovani, all’interno della quale il regista si pone e ci pone dei quesiti esistenziali relativi alla famiglia, a come possiamo coltivare le nostre doti nascoste e alla difficoltà di essere speciali nella normale vita di tutti i giorni. Si spera di rivedere quei meravigliosi effetti speciali artigianali che hanno contraddistinto il primo film insieme alle citazioni d’autore come Ferro3, Grosso guaio a Chinatown e Lasciami entrare. Le aspettative dunque, in virtù del fortunato esordio, sono molto alte e si spera che non vengano disattese.

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