Nato dalla serie di incontri denominati Il Sublime Simposio del Potere, il saggio Di tutti i mondi possibili, curato da Silvia Costantino, racconta con nove diversi interventi di scrittori e studiosi italiani il mondo del fantasy. Ad affrontare, da angolazioni diverse, temi dedicati a questo “genere” sono, oltre alla curatrice, Edoardo Rialti, Sergio Vivaldi, Francesco D’Isa (autore tra l’altro del romanzo La stanza di Therese edito per Tunué), Vanni Santoni (che con La Stanza Profonda era stato candidato da La Terza al premio Strega), Matteo Strukul (entrato più volte in classica con la trilogia de I Medici e fresco vincitore del Bancarella), Francesca Matteoni, Giovanni De Feo e Vincesco Marasco.
Ogni autore si concentra su un tema diverso, riuscendo però a costruire, letti uno di seguito all’altro, un unico micro (macro?) cosmo, capace di definire, se non tutti gli aspetti del fantasy (impresa che risulterebbe utopica) almeno molti di loro. Tutti i contributi pescano da un substrato comune, in qualche modo condiviso, da una serie di riferimenti in buona parte noti anche ai non assidui del genere, da Il Signore degli Anelli ad Harry Potter, ma anche a Omero, Ariosto e Tasso. Tanto da dare l’idea che la visione complessiva sia conforme, l’universo di cui si parla, per quanto infinito, per quanto pronto ad ospitare nuove lande e contrade, nuovi protagonisti e nemici, nuove avventure e magie, sia un universo davvero unico.
Di tutti i mondi possibili è così un libro per gli amanti del genere, ma anche, forse soprattutto, uno strumento (non lo è forse ogni libro?) utile per insegnare ai lettori una nuova lingua con cui osservare (leggere e rileggere) il mondo fantasy e le dinamiche che lo animano. Una specie di scatola degli attrezzi per montare e rismontare Harry Potter e le saghe di Tolkien, per cogliere il concetto di “barbaro” e il ruolo della “carne da cannone” (che siano semplici guerrieri o orchetti con la vita già spacciata), il punto di vista femminile e i riti di iniziazione presenti in quasi ogni storia di questa tipologia.
Se però la vostra domanda è più generica, se vi volete approcciare a questo saggio domandandovi unicamente cosa sia il fantasy e come mai negli ultimi vent’anni abbia avuto un crescente interesse (e qui si torna per forza a parlare di film e libri come quelli di Tolkien e della Rowling) potrete trovare molte delle vostre risposte nella prefazione di Licia Troisi, che inizia col raccontare come il fantasy sia, in fondo, solo la “quinta sulla quale si svolgono le mie storie” (del resto non è davvero così? Un mondo immaginario dove possono vivere storie di amore e guerra, di amicizia e viaggi, ma anche crisi famigliari, pensieri introspettivi e viaggi non diversi da quelli raccontati in volumi di tutt’altro genere).
Oltre a questo la Troisi, come faranno poi nei loro interventi anche Santoni e altri autori, si concentra sull’intermedialità del genere, capace, come nessun altro (se non, forse, quello dei fumetti Marvel), di spaziare da libri a film, da fumetti a videogiochi, da carachters riprodotti in statuette di resina da tenere a casa a giochi di ruolo. E le accuse che da più parti vengono lanciate come le frecce degli elfi sul genere? Libri da poco conto, puro divertissement senza alcuna profondità, lettura da ombrellone? È sempre la Troisi a spiegare di cosa si tratta. “Al fantasy si è a lungo associata un’accusa di vacuo escapismo: non è così, non sempre almeno. E quando lo è, si tratta dell’evasione del prigioniero e non della fuga del disertore. Il fantasy è un genere maturo, che fa appello alle nostre radici più profonde, alle nostre paure ataviche e ai suoi sogni più nascosti, che ci richiama all’infanzia, ma per parlarci del presente, del mondo che ci circonda, del cammino delle nostre esistenze”
Così, finito di leggere il libro, viene da pensare che di tutti i mondi possibili il fantasy sia di sicuro uno dei più completi. Dove la fantasia non ha limiti, seppure delle regole da seguire (e lo sa bene Vanni Santoni, esperto di giochi di ruolo), un rischio e un’opportunità per ogni scrittore che si vuole cimentare in una battaglia di questo tipo, magari provando ad ambientarci qualche libro scritto inizialmente in un mondo diverso, facendo capire i pregiudizi che ancora cadono sul genere. Un esempio, e una provocazione recente, se Le otto montagne di Cognetti fosse stato ambientato su un monte immaginario e, a parità di storia, avesse avuto come protagonisti invece che due ragazzi reali due hobbit o elfi o chierici, avrebbe vinto lo stesso il premio Strega?
Il ragazzo invisibile, atto secondo: pochi giorni fa, precisamente il 2 agosto, sono cominciate le riprese del secondo capitolo del film Il ragazzo invisibile prodotto dalla straordinaria regia di Gabriele Salvatores che ha scelto di continuare a raccontare l’evoluzione del suo (anti)eroe. Il film uscirà nel 2017 e sarà distribuito da 01 Distribution. Il primo capitolo uscito il 18 dicembre del 2014, ci ha presentato il personaggio di Michele, interpretato da Ludovico Girardello, adolescente problematico usato come bersaglio da una banda di bulli. Un giorno mentre il protagonista si reca a comprare un costume per la festa data dalla nuova compagna di classe Stella (Noa Zatta), di cui è segretamente innamorato,il ragazzo si scontra con un gruppo di compagni che gli rubano i soldi. Dispiaciuto per l’accaduto il nostro protagonista è costretto a racimolare il contenuto del proprio salvadanaio per trovare una soluzione. L’unica alternativa possibile è il bazar cinese dietro l’angolo che per quella somma gli offre un misero costume. Ma è proprio grazie a quel costume che il ragazzo viene a conoscenza dei suoi superpoteri. Si scopre infatti che in realtà Michele è figlio di due superdotati catturati da un’associazione russa, per compiere degli esperimenti. Durante uno di questi esperimenti la madre fugge via, ma viene uccisa. Sorte differente tocca al padre che, riuscito a scappare, affida il bambino ad una donna maresciallo tanto desiderosa di un figlio, interpretata dal nastro d’argento Valeria Golino.
Il ragazzo invisibile 2: il riscatto del fantasy italiano
Il protagonista, ormai conscio delle proprie speciali capacità, le utilizzerà per vendicare i torti subiti e salvare gli altri super dotati come lui tra i quali anche Stella la quale viene rapita dalla stessa associazione sopracitata. Ma grazie all’aiuto di Michele e di altri compagni d’avventura la ragazza si salva, riuscendo a cancellare l’accaduto dalle menti di tutti perché essere diversi in questo mondo è pericoloso. La conclusione del primo film reca due rivelazioni: la sopravvivenza della madre e la scoperta di una sorella gemella Natasha, interpretata da Galatea Bellugi, che per tutto questo è tempo è rimasta nascosta in Marocco. Ed è proprio su queste novità che verterà il secondo capitolo della pellicola, le cui riprese sono locate a Trieste, set conosciuto per il primo, e continueranno per 12 settimane. La storia comincerà con un salto nel tempo: ora Michele ha sedici anni, e sta imparando ad usare i propri poteri nella vita quotidiana da adolescente.
Il temerario regista Gabriele Salvatores ha mostrato di sapersi cimentare alla grande con il fantasy adolescenziale, unendo esigenze commerciali a quelle autoriali, e scegliendo di avvicinarsi al film di genere con grande intelligenza e profondità, e rendendolo competitivo con i blockbusters made in USA. Anche da questo secondo atto ci si aspetta una narrazione fluida che non si risparmia informazioni didascaliche in quanto pellicola rivolta soprattutto ai più giovani, all’interno della quale il regista si pone e ci pone dei quesiti esistenziali relativi alla famiglia, a come possiamo coltivare le nostre doti nascoste e alla difficoltà di essere speciali nella normale vita di tutti i giorni. Si spera di rivedere quei meravigliosi effetti speciali artigianali che hanno contraddistinto il primo film insieme alle citazioni d’autore come Ferro3, Grosso guaio a Chinatown e Lasciami entrare. Le aspettative dunque, in virtù del fortunato esordio, sono molto alte e si spera che non vengano disattese.
John J. Greenflowers è l’autore del romanzo fantasy-rivelazione Badroots-Cattive radici, (anche se lui lo considera un romanzo di Oltrescienza), edito nel 2013 da Tommaso Scutari, e che lascia presagire ad un sequel, che vogliamo riproporre ai nostri lettori, attraverso un’intervista all’autore stesso che riflette sul genere del fantasy, su tematiche ambientali e sull’amore. Come spiega lo stesso John J. Greenflowers, Badroots è un romanzo dinamico per tutti coloro che hanno cura della propria casa, e sono invece pronti a difenderla dai fanatismi delle lobbies commerciali e industriali che mettono a repentaglio la vita sul pianeta. Interessante la sua teoria della tecnologia delle piante, costituita da un insieme di processi biologici e metodologici che da sempre hanno consentito agli tutti gli esseri viventi di sopravvivere ed evolversi. John J. Greenflowers è laureato in biologia marina e vive negli Stati Uniti d’America e ammira pensatori come Platone, Aristole, Cicerone, Pasolini. Badroots non segue le consuete logiche commerciali o di marketing, perché è un romanzo scritto per i lettori, non per gli editori, come tiene a sottolineare Greenflowers stesso, mostrando nel romanzo le sue profonde conoscenze biologiche unite ad una storia avvincente, che erudisce il lettore senza annoiarlo.
1. Perché ha deciso di scrivere un fantasy? Cosa lo attira maggiormente di questo genere letterario?
Più che un fantasy, considero Badroots un romanzo di Oltrescienza, o B-sci (Beyond science), cioè il racconto di una “prospettiva possibile”, di uno “scenario non impossibile, o non del tutto improbabile”. Ho sempre pensato che una palla azzurra al centro dell’universo sia già qualcosa di estremamente “fantasy” (se non addirittura fantascientifico), anche se ciò che è sotto il cielo lo chiamiamo “realtà” per comodità, per pigrizia, per timore dell’ignoto: eppure l’ignoto è reale, anzi, in proporzione, la realtà nota è un granello di sabbia nella spiaggia dell’ignoto. Inoltre ho sempre pensato che lo scrittore non abbia grandi margini di scelta: quando afferra con decisione una penna, o digita sulla tastiera, per lo scrittore è già troppo tardi per fermarsi. Mi spiego. Esistono pensieri e idee che vagano nel cosmo come naufraghi, attraversando dimensioni temporali e spaziali, in attesa di individuare il trasmettitore giusto: le chiamano “ispirazioni”, ed entrano nel cuore e nella mente dello scrittore, tormentandolo giorno dopo giorno, fino a quando non asseconda il loro desiderio di “esistere” nella realtà degli esseri umani. In altri termini sono convinto che non sia lo scrittore a decidere cosa scrivere, ma siano i pensieri e le idee a scegliere lo scrittore cui affidarsi per essere tradotti in parole da armonizzare in un libro. Come il compositore di musica classica interpreta i suoni della natura in un pentagramma di note ad uso degli strumenti musicali, allo stesso modo quando i pensieri e le idee libere incontrano lo scrittore adatto a loro come gabbiani che si posano sulla nave dopo un lungo viaggio nell’oceano, ecco che accade qualcosa di meraviglioso: lo scrittore diventa una ricetrasmittente in grado di captare e decifrare pensieri e idee, trasformandole in parole, e rendendole commestibili ad una pluralità di soggetti che vivono nel c.d. mondo reale. Credo che “Badroots” abbia scelto JJG, perché ha scelto di andare Oltre, verso l’Impossibile, alla ricerca di esperienze di cui l’uomo non immagina neppure l’esistenza. La Fantascienza e il Fantasy, ricomprese nel concetto più ampio di Oltrescienza, sono dunque generi letterari di fondamentale importanza che meriterebbero un corso scolastico ad hoc, perché hanno la capacità di attivare nel lettore quelle particolari esperienze psichiche e sensoriali che nel corso della esistenza lo renderanno progressivamente consapevole delle infinite potenzialità e capacità che si celano in ogni essere vivente. Il fantasy e la fantascienza sono per loro natura orientati all’Oltre, e l’Oltre è ciò che mi attira più di ogni altra cosa reale. Si, JJG scrive per andare Oltre.
Jhon J. Greenflowers è l’autore del fantasy Badroots
2. Come spiegare a chi pensa che il contenuto del suo romanzo sia solo fanatismo e propaganda ecologista frutto della retorica dell’uomo cattivo al quale madre natura si ribella?
Nessuna propaganda. Badroots è un libro per tutti coloro che hanno cura della propria casa, e sono invece pronti a difenderla dai fanatismi delle lobbies commerciali e industriali che mettono a repentaglio la vita sul pianeta: è un romanzo dinamico, avventuroso, divertente, riflessivo e finanche profetico, affatto propagandistico, anzi teso a sensibilizzare l’uomo sulla necessità di considerare il pianeta Terra come l’unica casa allo stato abitabile nell’universo, cioè a portata di Uomo. La Terra è un’astronave perfetta, e come le macchine create dalla mediocre tecnologia imitativa degli uomini, ogni suo componente ha una precisa funzione: rispetto alla tecnologia degli Uomini, la tecnologia di Madre Terra si differenzia per i sistemi di autocontrollo e di rigenerazione dei suoi componenti che sono ineguagliabili sotto il profilo biologico e tecnologico. Nell’astronave Terra ogni membro dell’equipaggio ha un ruolo importante, mentre l’Uomo è innegabilmente un passeggero scomodo, irrequieto, superfluo per l’economia del pianeta. Madre Natura, in altri termini, è il vero pilota del pianeta, il custode del pannello di controllo della cabina di pilotaggio, e può fare a meno dell’uomo: ma non è vero il contrario.
3. Cos’è davvero la tecnologia delle piante?
La tecnologia delle piante è costituita da un insieme di processi biologici e metodologici che dalla notte dei tempi hanno consentito a tutti gli esseri viventi di sopravvivere ed evolversi: una tecnologia tesa a razionalizzare i bisogni della propria specie, semplificando i processi di soddisfacimento, attenta alla conservazione e alla rigenerazione delle risorse disponibili, finalizzata a massimizzare i risultati dei processi biologici attivati. La tecnologia delle piante serve davvero al benessere e alle necessità di ogni essere vivente, essendo fruibile da tutti indistintamente. Le piante, infatti, forniscono cibo e ossigeno, sintetizzano i minerali per sfamarsi, e producono frutti per riprodursi in quantità sufficiente per nutrire altre specie viventi: sono insomma esseri altruisti. Allo stesso tempo soddisfano i propri bisogni e quelli di altri abitanti del pianeta, a differenza dell’uomo e di altri esseri viventi della specie animale che non producono alcunché di utile né per se stessi né per altre specie come le piante, ma sfruttano le risorse disponibili come predatori suicida perché consapevoli che prima o poi la credenza si svuoterà. Strani esseri, gli umani: consumano le risorse, senza nulla concedere in cambio al pianeta: anziché ossigeno come fanno le piante, potrebbero almeno donare Amore e solidarietà, ma pare che gli uomini siano più propensi a distribuire odio, invidia, rancore.
4.In che senso l’Amore si configura come la perfezione tecnologica all’ultimo stadio?
Amore è innanzitutto armonia: quando c’è Amore, chi davvero Ama ha già teso la mano verso la bocca di chi ha fame. La tecnologia dell’Amore, dunque, è orientata al bene: anche al bene di un solo individuo in difficoltà. Amore è spontaneità, come spontaneo è il sole che scalda, spontanee le foglie che ossigenano senza nulla chiedere: la tecnologia dell’Amore è un metodo che consente di comprendere i bisogni prima che questi siano espressi. Un pianeta come la Terra ricco di beni disponibili gratuitamente ai suoi abitanti, ben può essere definito un pianeta con “Tecnologia dell’Amore”, perché continuamente al servizio di tutti, indistintamente. L’Uomo invece pretende di sostituirsi alla Madre Terra, prima accentrando e poi distribuendo a proprio piacimento le risorse, imponendo la tecnologia dell’Egoismo in antitesi a quella dell’Amore: ma quella dell’Uomo, per fortuna, è una tecnologia destinata a estinguersi.
5.Nel suo romanzo, lei affronta anche questioni politiche e sociali, secondo lei come è possibile liberarci del pensiero unico e dominante?
Nella misura in cui gli uomini accetteranno la possibilità di essere discriminati in ragione dei propri pensieri diversi da quelli condivisi dalla generalità dei consociati e dalle lobbies di potere, sarà possibile assistere a cambiamenti epocali che consentiranno all’Uomo di progredire. Il progresso, infatti, non è per tutti, ma è per chi è ancora capace proporre e difendere le proprie idee.
6.Come si colloca il suo romanzo in una logica puramente commerciale e di marketing?
Badroots non segue le consuete logiche commerciali o di marketing, perché è un romanzo scritto per i lettori, non per gli editori: certamente è scritto per le generazioni future. Del resto i libri non si scrivono per essere venduti, ma per essere letti: lo scrittore non è un commerciante, ma un servo della parola che nutre. Centinaia se non migliaia di autori classici del passato, tradotti in tutto il pianeta, hanno lasciato il loro profumo pur essendo estranei a logiche commerciali o di marketing, segnando così la storia dell’umanità.
7. Perché molte persone sono attratte da storie banali, politicamente corrette ma che inevitabilmente hanno molto successo?
Perché riempiono la pancia: insomma, vale il principio del “fast food”: è certamente più redditizio impegnare la mandibola dei consumatori e far cassa con piatti veloci, dando ai lettori la sensazione di sazietà con cibi dal gusto omologato, cioè con storie che tutti “devono vivere”, e in cui tutti possono facilmente “immedesimarsi”, piuttosto che offrire storie originali e saporite da cui i lettori possano trarre spunti per costruire la “propria unica e irripetibile storia di vita”: certa editoria, insomma, promuove storie banali, dal gusto omologato, che offrono una sensazione di sazietà mentale, cioè fast book banali come altrettanto ripetitivi e banali sono gli ingredienti di un hamburger con patatine fritte in salsa cocktail. Un fast book dopo l’altro, e per il lettore la “trombosi mentale è servita”. Il cinema attuale (e certa letteratura) è un esempio emblematico dello stato di pigrizia di chi anziché investire sul nuovo, punta a promuovere un consumo veloce e all’ingrasso imponendo nella distribuzione i vari “remake”, “prequel”, “sequel”, e…”requiem” dei soliti noti. Un buon libro, invece, è rivoluzionario, unico e irrepetibile, dal sapore forte e penetrante, diretto a provocare il senso critico del lettore, a saziarne la mente e attivarne ogni sensibilità: basterebbe leggere due libri rivoluzionari all’anno per riappropriarsi della propria indipendenza logica e del proprio senso critico, liberandosi da catene affatto occulte. Lo scrittore, il vero scrittore, è un umile servitore dei suoi pensieri, e di essi soltanto.
8.Quali autori stima e apprezza maggiormente?
L’elenco è lungo, ma in sintesi: Platone, Aristotele, Marco Tullio Cicerone, Isaac Asimov, Jules Verne, Emilio Salgari, Charles Dickens, Primo Levi, Italo Calvino, Franz Kafka, Egdar Allan Poe, Pier Paolo Pasolini, e tanti altri servitori dei loro pensieri.
9. Nonostante lei faccia divulgazione,affrontando argomenti scientifici, religiosi e tecnologici, ha adottato uno stile cinematografico, abbastanza scorrevole, comprensibile e di una certa compatezza. Tale scelta è dettata dal desiderio di essere trasversale presso i lettori, comprensibile a tutti, anche a chi non mastica biologia e filosofia?
Un tempo, quando il popolo non leggeva perché la scuola era per pochi eletti, la Chiesa incaricava celebri artisti per erigere luoghi sacri e per diffondere la religione attraverso i dipinti, mentre i Re erigevano templi e statue giunti sino a noi che avevano lo scopo di comunicare ed esaltare il potere e il coraggio dei guerrieri, mentre gli Imperatori si circondavano di musicisti in grado di esaltare le qualità di un regime con le loro composizioni melodiche. Per secoli, insomma, quando i libri erano oggetti ad uso di monaci e di pochi privilegiati, la comunicazione è stata “passiva”, un modo certamente efficace per controllare ed educare le masse. Dal rinascimento al dopoguerra il libro ha però avuto i suoi tempi di gloria, ed è in quel tempo che l’Umanità è cresciuta sotto il profilo critico: poi, con l’avvento dei media e dell’educazione passiva, il processo si è nuovamente invertito, e ancora oggi la popolazione sta subendo un progressivo ed evidente regresso, una violenza visiva, acustica e sensoriale senza precedenti che riporta l’umanità indietro di secoli e millenni, e che raramente stimola il senso critico e di formazione della “logica personale”. La scelta dello stile cinematografico nella stesura di un libro, quindi, risponde al desiderio di armonizzare contenuti letterari di ritenuto spessore morale, scientifico e filosofico in modo tale da essere comunicati anche cinematograficamente a chi, più o meno indotto da logiche commerciali, considera il libro un oggetto privo di vita. Tutti devono andare Oltre, anche chi non può o non vuole leggere, ma può apprendere da un buon film: la parola, tradotta in immagine o suono, è un cibo che tutti devono poter assimilare, ed è la vera macchina del tempo che accompagna l’intera esistenza dell’Uomo.
10.Cosa pensa delle manifestazioni “pro Terra”, mirate a lanciare il rispetto per l’ambiente organizzate anche dalla politica? Non le trova ipocrite, a vantaggio di sponsor?
La Terra non ha bisogno di manifestazioni in sua difesa, benché meno finanziate dalla politica e sponsorizzate da chi sfrutta le risorse del pianeta: sono gli esseri umani che hanno bisogno di manifestazioni “anti estinzione”. Non a caso sono state intensificate le missioni esplorative nello spazio alla ricerca di nuove opportunità e modalità di sopravvivenza. Se davvero si vuole salvaguardare la casa degli Uomini, la politica deve seriamente promuovere la costituzione di un “Gran Consiglio delle Risorse Naturali”, le cui regole per la salvaguardia dei pianeti abitabili debbano prevalere su tutte le altre.
11.Quale messaggio lei spera che venga recepito dai lettori di “Badroots”?
Come le piante donano se stesse, offrendo i loro frutti e finanche se stesse come cibo, producendo gratuitamente ossigeno e garantendo riparo a specie differenti senza nulla chiedere in cambio, spero che i lettori di Badroots sappiano almeno tendere la mano ai propri simili in difficoltà, offrendo loro la possibilità di rialzarsi.
Lo chiamavano Jeeg Robot dell’esordiente Gabriele Mainetti, uscito il mese scorso nelle sale cinematografiche italiane, è destinato a entrare nella storia del cinema italiano se non internazionale. Il film rivelazione di quest’anno con Claudio Santamaria, Luca Marinelli, Salvio Esposito, Maurizio Tesei, Ilaria Pastorelli, Antonia Truppo e Stefano Ambrogi rappresenta il primo vero superhero movie made in Italy unendo intelligentemente intrattenimento, divertimento, romanticismo, epicità grottesca e asprezza realistica.
Lo chiamavano Jeeg Robot: trama
Protagonista della pellicola è il delinquente e solitario borgataro Enzo Ceccotti che vive a Tor Bella Monaca e sbarca il lunario con piccoli furti confidando nella buona sorte per non essere preso. Un giorno, mentre viene inseguito dalla polizia, per sfuggirle si tuffa nel Tevere e cade accidentalmente in un barile di materiale radioattivo, da cui il ragazzo emerge completamente ricoperto di sostanze indefinite, senza reggersi in piedi. Ma il giorno seguente Ceccotti si risveglia dotato di poteri sovrumani. Mentre il ragazzo cerca di scoprire cosa gli sta capitando e di usare i poteri per fare soldi, a Roma è in atto una lotta per accaparrarsi il potere e il comando, tra alcuni clan provenienti “barbari” che tengono in scacco la città, terrorizzandola con attentati bombaroli e uno psicopatico che minaccia la vicina di casa di Enzo, una ragazza un po’ picchiatella con la fissa del cartoon giapponese Jeeg Robot, la quale si aggrappa a Ceccotti credendolo davvero il supereroe Jeeg Robot. La situazione sta per precipitare e tutti hanno bisogno di un eroe.
Gabriele Mainetti ha saputo mettere in piedi un vero e proprio superhero movie, sull’esempio delle fortunate pellicole americane, per struttura, impianto e finalità: una storia da fumetto americano degli anni ’60, girato come un parodistico film d’azione, consegnato all’altare dell’intrattenimento, aspetto quest’ultimo che costituisce il vero punto di forza del film, nonostante gli effetti speciali siano stati realizzati con un budget low cost. Lo chiamavano Jeeg Robot si ispira ai manga giapponesi degli anni Settanta e Ottanta, a Goldrake e Mazinga e al filone cyberpunk nipponico di Tsukamoto, in particolare a Tetsuo: the iron man del 1989 che ci mostra come l’essere umano è davvero un fragile contenitore perturbato da improvvise e violente trasformazioni psico-fisiche.
Il film di Mainetti è un trionfo di visioni ironiche e divertenti, contando su un cast perfettamente amalgamato, che contribuisce all’andare oltre la separazione tra cinema vero, credibile, verosimile, realistico e cinema falso, artefatto, tenendosi in bilico tra una certa asprezza realistica e autoparodia dell’eroe sulle cui spalle grava il peso di una missione morale. Un plauso al coraggio del regista romano classe 1976, che con gusto per il grottesco, deliberata ricerca di situazioni e scene “ridicole”, e fantasia fanciullesca, ha saputo scavalcare la barriera della verosimiglianza, tanto cara ai dibattiti pseudo-intellettuali, conferendo al film ritmo e grande emotività che non può non coinvolgere lo spettatore.
Nella regione del Delos con capitale Voros, in uno spazio temporale che è quello del Medioevo, si muove quella che potremmo chiamare ”l’eroina” Farwel, protagonista del romanzo fantasy I Due Regni-La città intera (primo volume della saga), opera della giovane scrittrice Alessia Palumbo, classe 1994.
Studentessa al terzo anno di Lettere Moderne, esordisce con questo primo romanzo con la casa editrice Ekt-Edi-Kit.
I Due Regni è ambientato nella Città Intera, regno popolato da personaggi magici ma umani e teatro di costanti conflitti. Da una parte ci sono i buoni, dall’altra i cattivi ma spesso i ruoli sembrano rovesciarsi e stupirci in un romanzo che nulla ha a che vedere con la ”canonica tradizione’, come la stessa scrittrice tiene a precisare nella sua introduzione.
I maghi descritti sono, in realtà, persone emarginate che non somigliano per niente agli elfi o ai mostri a cui ci ha abituati il genere fantasy; persone che faticano a scrollarsi di dosso anni ed anni di pregiudizi.
In un gioco di richiami e corrispondenze, da sola contro un mondo sempre più ostile, Farwel , che non sempre riesce a dare risposte alle sue domande, tenterà in tutti i modi di distruggere questa città che ha come unico scopo la distruzione dei maghi, quasi sempre considerati inferiori e non paragonabili ai veri guerrieri, e di chiunque abbia sangue magico:
“In un regno devastato dai conflitti fra maghi e guerrieri, la Città Intera è sorta, baluardo nella lotta contro chiunque possieda sangue magico.
In questo scenario si muove Farwel, decisa a riportare pace ed equilibro in un luogo dove imperversa solo timore e morte. In un fantasy certamente non canonico, si muove la sfera umana dell’interiorità e di ogni sua sfumatura, non trovando il malvagio o il corrotto in un mostro da debellare o in una antica maledizione che pende sul capo indistinto della razza umana, ma dentro quegli stessi personaggi che creano e distruggono. Parallelamente alla vicenda, altri filoni narrativi si intrecciano, mostrando eventi del passato privi del dolore della Città Intera, ma carichi già di un nefasto presagio”.
Le voci narranti sono quattro e parlano tutte in prima persona, anche questo ci aiuta ad addentrarci con più entusiasmo nei due regni. Con il suo stile semplice e scorrevole, Alessia Palumbo, è come se ci aprisse la porta di quel mondo così accuratamente raccontato, quel mondo nato, come sostiene, da un sogno ispiratore fatto nel Marzo 2011, mondo senza ombra di dubbio affascinante e stimolante per una lettura niente affatto noiosa, sebbene il genere sia molto battuto.
Se la letteratura Fantasy è debitrice nei confronti di Lord Dunsany per la riscoperta della mitologia alla base di un universo fantastico e degli esseri che lo popolano, la consacrazione di suddette creature è opera del celeberrimo scrittore de Il Signore degli Anelli.
Tolkien, infatti, pone al centro della sua epica gli elfi, e ne affronta la genesi amalgamando alla perfezione due facciate della stessa medaglia: le tenebre e la luce. Se da un lato ne delinea la dimensione nobile, riprendendone il concetto di regno magico e adiacente, dall’altro riesce a evidenziarne una natura oscura e completamente distante dall’uomo.
Probabilmente per l’autore sono proprio gli elfi i testimoni dell’origine del creato. Sono loro i protagonisti indiscussi dell’età dell’oro, della prima parte della storia del mondo, che terminerà con l’avvento dell’uomo, padrone del futuro e del libero arbitrio.
Il popolo elfico rappresenta il logos che da il nome alle cose e che conosce i misteri della creazione, possiede un legame profondo con la natura che lo circonda, gli uomini, invece, sono depositari del segreto della mortalità e unici destinatari, nella Terra di Mezzo, di un aldilà sconosciuto.
D’altronde lo stesso Tolkien ha più volte chiarito che elfi e uomini sono due aspetti diversi della razza umana. Se i due popoli sono costituiti del medesimo amalgama, ciascuno si differenzia per i suoi punti forti e le proprie debolezze. È ovvio che per Tolkien gli elfi raffigurino l’amore per l’arte, per tutto ciò che è bello esteticamente, e grazie a queste creature che la natura umana si eleva. Sono profondi osservatori del mondo fisico, tentano di osservarlo e di comprenderlo al fine di preservare non solo la propria incolumità, ma anche quella degli altri esseri con cui convivono pacificamente. In tal senso si distanziano dagli uomini o almeno da una parte di essi, gretti, meschini , fallaci, che si avvicinano al mondo solo per acquisire potere da esso e usarlo malvagiamente.
Gli elfi sono immortali, non in eterno, ma all’interno del loro regno finché dura, se uccisi nella loro forma incarnata, continuano a vivere disincarnati, oppure rinascono. Tale immortalità finisce con il diventare un peso, mano a mano che le epoche si avvicendano, il cambiamento viene recepito da essi in modo traumatico, il popolo elfico vuole vivere in un universo cristallizzato, dove a congelarsi non è solo l’aspetto fisico ma anche le emozioni. Da qui il ritratto nella letteratura Fantasy di esseri algidi e imperturbabili.
“Per questo caddero in parte preda degli inganni di Sauron: desideravano il potere sulle cose come stavano, perché il loro desiderio di conservare diventasse realtà: per fermare il cambiamento e mantenere tutte le cose fresche e belle”. (J.R.R. Tolkien,La realtà in trasparenza, lettere 1914-1973. Rusconi 1990.
Gli elfi continuano ad avere un immenso potere evocativo, rimandano alla letteratura cortese e al contempo agli eroi omerici, sono stati gli spettatori dell’alba dei tempi, delle gesta gloriose dei prodi, della nascita dell’uomo, quello stesso uomo che lentamente si è affermato come successore e sovrano del mondo moderno, quello stesso uomo che ha deciso di relegare in un angolo recondito il potere del sogno, quello stesso uomo, ultimo testimone del tramonto del meraviglioso.
Vivono all’interno di un mondo incantato, scandito dalle ore perenni di un tempo immobile, algide e imperturbabili, le creature del popolo dei Túatha Dé Danann, presente nella tradizione celtica, rappresentano il prototipo di elfo seguito prima da Lord Dunsany e in seguito dallo stesso Tolkien.
Come in ogni tradizione mitologica che si rispetti, i Danann, che raffigurano il principio positivo dell’origine della vita, possiedono la loro nemesi: i Firbolg e i Fomori, razze ottuse e dai valori morali decadenti e oscuri.
Leggenda e storia seguono confini sottili e si amalgamano nel racconto dell’arrivo di questo popolo, esperto in arti druidiche, presso i territori irlandesi. I Danann discendono dai Figli di Nemed, antichi invasori dell’Irlanda, costretti ad abbandonare l’isola dopo essere stati decimati dai Fomori.
In seguito alla sconfitta si rifugiano in Scandinavia, per poi riuscire a fare ritorno sul suolo irlandese e a imporre il proprio dominio per molti secoli.
Dal punto di vista del mythos, l’elfo, appartenente alla tradizione scandinava, è una figura ctonia, sotterranea, crepuscolare che spesso si relaziona nei confronti dell’uomo come un’ombra, una presenza inquietante. Vi sono infatti, molte fiabe scandinave che testimoniano come agli elfi piaccia scambiare i bambini umani con i propri, o altre ancora che narrano di tremende maledizioni o impareggiabili doni.
E’ innegabile che la letteratura sia sempre stata affascinata da questo universo fatato, si pensi a Sogno di una Notte di Mezza Estate di W. Shakespeare, nitida dimostrazione del legame indissolubile tra l’umano e il divino. Tuttavia all’inizio del ventesimo secolo comincia una lenta e inesorabile separazione tra il mondo terreno e quello dei Faerie. Quest’ultimo comincia a essere considerato dalla produzione letteraria come un regno “altro”, avulso da una dimensione iper – incantata e iper – distante. Le ragioni di tale allontanamento sono chiare: il reame fatato si configura come un rifugio per l’uomo moderno dalla caotica e stridente era industriale. Gli elfi vivono in armonia con la natura, a dispetto dell’essere umano che, a causa della tecnologia, si è alienato da essa. Questo modo di intendere tali spazi alla stregua di realtà allegoriche in cui trovare riparo da un sistema sociale squallido e annichilente, costituirà un principio fondante, seguito da diversi autori fantasy contemporanei, come ad esempio Ursula K. Le Guinn, che con il romanzo La Soglia (1980), rievoca e celebra la riscoperta da parte dell’uomo di tali luoghi incontaminati.
Dunsany, quindi, recupera il mito dei Danann celtici, e attraverso di esso Tolkien plasmerà quella creatura immobile e cristallizzata tanto nota nel fantasy moderno: l’elfo.
Da Lord Dunsany in poi la terra degli elfi rappresenterà non solo la bellezza assoluta, ma anche la debole capacità degli esseri umani nel percepirla, quell’attimo talmente perfetto ma fugace che alla fine si finisce con il dubitare di esso e della sua stessa esistenza.
L’elfland possiede un tempo immobile, raffigura il perenne passaggio tra la notte e il giorno, ed è lì che si cristallizza, si trasforma in un momento inesauribile. Questa dimensione del tempo deriva dalle tradizioni del nord Europa, nelle quali una notte nel mondo dei Faerie equivale a cent’anni del tempo mortale.
Da Dunsany in poi, tale considerazione declinerà in una doppia osservazione da parte della letteratura nell’affrontare questo universo: se da un lato la terra degli elfi è un mundus immoto in cui il bello è eterno e la natura incontaminata, dall’altro la stessa natura guarda con superiorità e distacco le vicende e le tribolazioni degli uomini; le emozioni delle creature che popolano tale regno non evolvono e il libero arbitrio si congela.
Il tempo degli elfi è il tempo degli alberi e della roccia, che osserva con pacato distacco l’illusoria arroganza della razza umana, che pensa di essere sovrana vanesia e immortale di un mondo caduco ed effimero.
L’impegno della produzione letteraria fantasy di cogliere e illustrare un magico luogo dove l’indefinito è perenne, ha generato la figura dell’elfo come la conosciamo oggi, e cioè quella creatura a ridosso dell’umana esperienza, che vive in un gelo emotivo in cui le passioni non fluiscono, ma rimangono immobili.
Edward John Moreton Drax Plunkett, XVIII barone Dunsany (Dublino 1878 – 1957) è stato uno scrittore e drammaturgo, famoso per le sue opere fantastiche e dell’orrore pubblicate col nome di Lord Dunsany. Dunsany è considerato, dopo William Morris, il primo autore all’inizio del novecento, ad aver ripreso e perpetuato la tradizione dell’ avventura fantastica racchiusa un mondo immaginario. Sembra sia stato ispirato, per la creazione delle sue opere, dalla commedia da lui vista nel 1903 The Darling of the Gods di David Belasco e John l’Long, ambientata ai confini di un Giappone surreale.
Diversamente da Tolkien, Dunsany considera l’esperienza di scrittore fantasy e la redazione dei suoi scritti, non come delle invenzioni generate dal proprio intelletto, bensì ritiene che il suo lavoro sia una semplice riscoperta di eventi sognati e ormai lontani e dimenticati. “Non scrivo mai di cose che ho visto ma solo di cose che ho sognato”, idea che probabilmente trovava le sue radici e s’inseriva nel filone letterario romantico dell’ottocento.
La maggior parte dei suoi romanzi, almeno fino agli anni ‘20, è pervasa dal sogno. Oniriche sono le ambientazioni, surreali i personaggi, a volte il racconto è basato sugli eventi rimandati dall’inconscio degli stessi protagonisti.
Sostanzialmente l’intento di Dunsany è quello di meravigliare il lettore, attraverso le descrizioni aliene e senza tempo di paesaggi mitici, un pantheon immaginario di dei ed eroi, un catalogo di animali fantastici, tutti elementi che a oggi sono considerati necessari ai fini delle sub-creazione nel fantasy moderno.
Se è vero che il fantasy contemporaneo è debitore nei confronti di questo autore irlandese, sussiste all’interno delle sua produzione letteraria una caratteristica che la contraddistingue, e cioè un rassegnato distacco. Dunsany mira a stupire il lettore, ma non impone allo stesso delle scelte difficili. Complice una poco marcata introspezione dei personaggi, l’autore non è capace di suscitare nei confronti delle sue creature dei sentimenti forti, quali l’odio, l’amore o la paura. Le gesta e gli eventi narrati sono incastonati in una cornice meravigliosa, ma nulla di più. Lungo tale cornice il lettore viene condotto attraverso l’esposizione di situazioni affascinanti e suggestive, oppure terribili, ma raramente corre il rischio di trovarsi coinvolto.
Bisogna sottolineare cheDunsany ha lasciato una straordinaria galleria di re e principesse, guerrieri e demoni, contenuta in più di 150 racconti : The Gods of Pegãna (1905), La spada di Welleran (1908), A Dreamer’s Tale (1910) Il libro delle meraviglie (1912) e tanti altri.
A tale cosmogonia minuziosa e particolareggiata, si sarebbe ispirato, qualche decennio dopo, H.P. Lovercraft.
Dunsany ha amalgamato la tradizione folklorica e la letteratura classica, ed è grazie alla realizzazione di un universo fantastico, generato da tale fusione, che è stata riportata in auge una delle figure più emblematiche e fondamentali della categoria: l’elfo.