Enzo Biagi intervista Fantozzi, che ormai lo ha raggiunto, sul libro ‘Avanti’ di Renzi

Titolo della puntata di Biagi: Scrivere un libro fa di Renzi uno scrittore? Ospite il ragionier Ugo Fantozzi

Biagi: Fantozzi si segghi la prego.
Fantozzi: Chi? Ioooo?
Biagi: Sì lei Fantocci, venghi, non temi nulla, avanti.
Fantozzi: Allora mi sedio, segghio, siedo.
Biagi: Bene, allora, io sono Enzo Biagi.
Fantozzi: Megacapo direttore di qualcosa?
Biagi: Di nulla, volevo commentare con lei questo nuovo scrittore, Renzi, pubblicherà Avanti.
Fantozzi si alza.
Biagi: Ma che fa, Fantocci? Si segghi, la prego.
Fantozzi: No, vado avanti mi ha detto, no, mi sedio di nuovo allora.
Biagi: Lei lo conosce l’autore?
Fantozzi: Chi?
Biagi: Renzi.

Fantozzi: Pina aiutami ti prego.
Filini interviene: Ma certo che lo conosce, glielo dica ragioniere.
Fantozzi: Ma Ingegner Filini non mi metti in mezzo, la prego.
Filini: Ma su, avanti, glielo dichi, certo che lo conosce, e l’ha sempre votato.
Biagi fa una faccia…
Fantozzi: Votato? No no.
Biagi continua a fare una faccia…
Fantozzi: Allora sì… – poi si arrende – non mi guardi così, la prego.
Biagi: Su Fantocci, mi dica cosa pensa di Renzi. Lei è stato scrittore, Fantocci è un personaggio letterario prima che televisivo, Fantocci nasce di carta, Fantozzi è il romanzo che ha mostrato noi italiani per quello che siamo.
Fantozzi: Ridicoli?
Biagi: Tipo l’autore di Avanti. Su, Renzi è uno scrittore?
Fantozzi: Renzi è uno scrittore e lo sa perché? Perché chi scrive dice cose vere, anche se forse mai accadute, Renzi fa uguale. Racconta, dice cose giuste, poi non le fa, o le fa diverse, o male, o anche le fa come aveva detto, questo è il punto che lo rende simile a me: dice, ma che poi faccia dopo o abbia fatto prima, non conta più.
Biagi: Quindi sarebbe simile a Fantocci?

Fantozzi: Esatto, all’italiano Fantozzi. Fantozzi vorrebbe essere più di quel che è, sia umanamente che lavorativamente, ma è egli stesso causa di ciò che è, ha sposato Pina, ma chi lo obbligava? Si lamenta del posto di lavoro ma perché non lo cambia? L’italiano non cambia anche quando può, finora almeno è andata così. Per questo siamo un popolo che merita e vuole uno scrittore al potere.
Biagi: Ma non capisco, quindi lo stima o no come scrittore?
Fantozzi: Ho detto che è uno scrittore che è italiano come me e gli altri e che gli italiani ne ridono per condivisione, non per estraneità. Renzi e Fantozzi sono la stesa cosa.
Biagi: Quindi cosa direbbe oggi Fantozzi a Renzi?
Fantozzi: Gli direi che alcune proposte del suo passato governo erano… delle cagate pazzesche!

92 minuti di applausi da parte di Biagi.

Addio a Paolo Villaggio, cronista implacabile delle nostre disillusioni

E’ morto un rivoluzionario, non è morto un attore. La prova regina è quella che nell’ora dell’addio vede prolificarsi le controfigure del professor Guidobaldo Maria Riccardelli, avide di accaparrarsi le spoglie del più coriaceo alfiere del politicamente scorretto, il cittadino Paolo Villaggio mai omologato nonostante il colossale successo e antidoto permanente alla deriva del Belpaese nel socialismo reale dello spettacolo. Dunque bando ai piagnistei e alle lugubri cerimonie a cura del CRAI (Comitato rivalutazioni approvate dagli intellettuali) perché se n’è andato un uomo buono, ma resta per sempre il cronista implacabile di ciò che di più disilluso e rabbioso alligna dentro di noi.

Naturalmente il genovese classe 1932 Villaggio non è stato solo la quintessenza della nullità sociale incarnata nelle maschere di Fantozzi o Fracchia, bensì un professionista curioso e versatile, cresciuto nel sodalizio con Fabrizio De André, maturato come Enzo Tortora e Carmelo Bene nel laboratorio della compagnia teatrale Baistrocchi e lanciato come cabarettista dal mitico Derby Club di Milano. Apparso sul grande schermo alla fine degli anni Sessanta, sabota da subito il ruolo da caratterista ritagliandosi nella magmatica evoluzione della commedia all’italiana uno spazio tutto suo, quello, appunto, di un Franti della comicità, un kamikaze del sarcasmo, un paradosso animato non a caso consono alle scariche di cinismo care a registi-contro come Monicelli, Salce, Ferreri. Una delle cantonate che adesso viaggiano (propalate purtroppo anche dall’ambito familiare) sull’onda delle commemorazioni è quella di una carriera che sarebbe stata sperperata nella routine commerciale e riscattata solo dall’intervento in extremis dei Fellini (“La voce della Luna”) e degli Olmi (“Il segreto del bosco vecchio”): a questo proposito quanto ci piacerebbe avere registrato qualcuna delle esilaranti dissacrazioni del culto cieco e acritico concesso ai film “autoriali” che abbiamo ascoltato dalla sua viva voce nel corso di una premiazione o di un festival…

L’esordio cinematografico del ragioniere prototipo dei tapini risale alla Pasqua del ’75 anche se il personaggio era nato sino dal Sessantotto quasi come una nemesi del contenutismo fanatico eretto a misura di qualsiasi attività umana e quindi anche di quella catartica della rappresentazione. L’aggettivo “fantozziano”, già entrato nel vocabolario italiano grazie alla raccolta di monologhi edita da Rizzoli, si materializza tuttavia sullo schermo in una sorta di teogonia grottesca alla Gogol, un incubo più realistico del reale, una galleria di mostri che fa impallidire quella dei Gassman, Sordi e Tognazzi: Filini, la signorina Silvani, Calboni, il Megadirettore galattico e il focolare domestico delle Pina e Mariangela icone da horror tramandano per le generazioni a venire una sorta di represso, sguaiato, tragico urlo di ribellione contro i miraggi di felicità che il darwinismo sociale concretizza sempre e solo per i più astuti e i più brutali.

Perseguitato, torturato, deformato, persino geneticamente modificato eppure indistruttibile come un cartoon, Fantozzi-Villaggio, erede dei sublimi perdenti come Chaplin e Totò, è il capro espiatorio per eccellenza dell’eterno divario tra oppressi e oppressori perpetuatosi nella babele in tutti i sensi sgrammaticata di fine Novecento. I David, i Nastri, i Pardi e persino il Leone d’oro non l’hanno addomesticato né piegato alla dittatura del salvazionismo buonista e, a dirla tutta, non convince neppure la teoria dell’abbandono finale da parte della cupola di Cinecittà.

Come si può pensare, infatti, a una sorta di mutua professionale dovuta a un anarchico inveterato, un incazzato permanente, a colui che alla maniera di Bukowski o Philip Dick ha avuto il fegato di pubblicare libri intitolati “ Vita, morte e miracoli di un pezzo di merda” oppure “Pillole di saggezza di una vecchia carogna”? Se lo abbiamo amato davvero e continueremo ad amarlo basta immaginarlo in quel Paradiso che sullo schermo ha già frequentato finalmente libero di sfuggire al capestro delle gite aziendali, di vedersi la partita in tv a rutto libero, d’ingozzarsi quattro chili di cozze crude o di gustarsi in santa pace “Le casalingue” (rassicurando la Pina come un dotto cinefilo che così si fa nei film impegnati).

 

Fonte:

Il Villaggio che non piace ai Guidobaldo Maria Riccardelli

 

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