Simone Cristicchi tra intolleranza progressista e arte

In questi giorni sanremesi sta tenendo banco tra le polemicucce, quella sulla canzone del cantautore Simone Cristicchi, “Quando sarai piccola”, tacciata di paraculismo.

Al netto degli interventi di chi critica Cristicchi perché vicino agli ambienti di Pro Vita e non di sinistra, sorprende che un artista non possa parlare di temi non mortiferi, con romanticismo, senza che venga accusato di voler vincere facile. Cristicchi non apologizza l’eutanasia, non esalta i diritti civili, non spinge i diktat del progressismo più estremo. Cristicchi, che da sempre tratta temi delicati e drammatici, canta la propria esperienza, in cui molte persone si sono riconosciute.

Lasciando il patetismo a chi quest’anno a Sanremo fa la parte della vittima, riuscendo ad abbindolare anche la sala stampa, e a chi si è dato una ripulita nel look, sarebbe opportuno far conoscere a chi accusa Cristicchi di patetismo, che ad esempio un certo Eric Clapton ha scritto un capolavoro per suo figlio che è morto in tenera età; un autore, un artista prova a condividere un sentimento, un’emozione, scegliendo il modo di comunicarlo che più gli si addice.

Nelle parole di Cristicchi traspare la sofferenza e la fatica di chi si prende cura di una persona affetta da Alzheimer, sottolineando la dolcezza e la pazienza che si dovrebbe avere nell’accompagnare i propri genitori in questo drammatico cammino, e che alcune persone, purtroppo per molti, hanno.

La domanda semmai da porsi è: è una bella canzone quella di Cristicchi? Merita la vittoria? Se l’arte rientra nella capacità di trasmettere un tema, la forma è l’arte stessa, e in Cristicchi la forma c’è, e ha portato il pubblico alla commozione. Se con quella forma si riesce a toccare il cuore delle persone, l’obiettivo è centrato. L’esempio è nel festival stesso: Fedez tratta un tema importante come la depressione, eppure non ha avuto lo stesso impatto di Cristicchi.

Non è indispensabile avere un’estensione vocale pazzesca, gorgheggiare, vocalizzare, urlare, per toccare le corde più profonde dell’anima. La tecnica è fondamentale nel canto, ma non basta per poter parlare di arte o di poesia. A tal proposito, “Quando sarai piccola” non è poesia, né una messa cantata come alcuni detrattore considerano; è una bel testo, cantato con trasporto e commozione che però non ha melodia. Nonostante questo è “arrivata” al pubblico, come arrivò seconda a suo tempo “Signor tenente” di Faletti, canzone che non ha melodia, non orecchiabile, apprezzata da pubblico e critica, considerata una poesia.

Per affrontare la questione canzone/poesia, è necessario sgomberare il campo dai tanti luoghi comuni, dalle affermazioni sciatte che da decenni proliferano intorno a questo tema. Non basta liquidare la questione dicendo che i trovatori sono stati i primi cantautori della storia, che molte canzoni si ispirano alla letteratura (e qui si può stilare un elenco che va da Non al denaro non all’amore né al cielo di De Andrè a La divina commedia di Tedua), o che non è un caso che molti tra cantautori e cantautrici, parallelamente alla produzione musicale, abbiano sempre coltivato interessi puramente letterari, scrivendo romanzi (come quelli di Leonard Cohen, di Ivano Fossati), pubblicando poesie (come hanno fatto Jim Morrison, Patti Smith o Claudio Lolli).

La canzone è poesia? No. È letteratura? Certo.

Ammettendo poi che un testo letto e lo stesso testo cantato non sono la stessa cosa e, in particolare, che un testo scritto per essere letto e uno scritto per essere cantato sottintendono grammatiche differenti, si può anche arrivare a dire che una canzone che in tutto e per tutto assomiglia a una poesia in realtà non è una buona canzone. Eppure quante volte, proprio ascoltando un pezzo di musica leggera, ci capita di affermare come per Faletti o adesso per Cristicchi: questa è poesia? In quei casi è come se elevassimo la forma canzone a uno status superiore, esponendola a situazioni comunicative che trascendono ed eccedono quelle riconducibili a un brano musicale e che normalmente pertengono alle forme espressive ritenute più nobili, prima fra tutte la poesia.

Perché una canzone non può essere valida di per sé, in quanto canzone, ma deve per forza rimandare a qualcos’altro, prendere un po’ di qua e un po’ di là, simulare i modi della cosiddetta letteratura colta?

Va notato come l’influenza non sia soltanto unidirezionale: non è soltanto la poesia a ispirare le canzoni, in cui si riscontra chiaramente come talune proprietà del brano musicale abbiano esercitato un’influenza diretta sull’ideazione e sulla costruzione di testi propriamente letterari, o tranquillamente accolti come tali.

Alcune canzoni di Bob Dylan, di Fossati, di Guccini, di De André, di Battisti, ecc, sono palesemente letteratura, e come tale presuppone una consapevolezza linguistica che è propria del genere e che è giunto il momento di provare a inquadrare: di che specificità si tratta? Cos’è che in modo inconfondibile contrassegna la natura di certi testi musicali?

A questo punto bisogna accennare al fatto che la parola cantata demandi inevitabilmente parte del suo significato complessivo alla componente musicale, il che, a detta dei detrattori più tenaci, comporterebbe una insanabile ‘provvisorietà’ a livello strettamente letterario, una mancanza di esattezza che invece non si ritrova nella letteratura ‘pura’.

Semplicemente non si può valutare una canzone facendo capo ai soli strumenti della poesia. Ci si può limitare a notare come, in alcuni casi di cantautorato, una sorta di sistematica ‘disarticolazione’ della lingua cantata avvicini le parole delle canzoni a quelle del discorso poetico.

Detto ciò, Cristicchi meriterebbe la vittoria solo per il fatto di essere inviso ai progressisti, ma la sua canzone, abbastanza debole sul piano sintattico-ritmico-melodico, non fa di lui un poeta, e nemmeno un paraculo. Una cosa è certa: una canzone per essere bella e meritare la vittoria non deve essere per forza orecchiabile, vedesi la vittoria a Sanremo 2000 di Sentimento della Piccola Orchestra Avion Travel.

 

 

Lo Zan, Fedez e il tiro all’opinione

Tra Fedez e Pillon, tutti a grugnire intorno alla proposta di legge del deputato PD. In democrazia, più si rispetta la diversità, meglio è. Nella finta democrazia liberale, invece, funziona come nella Fattoria degli animali di Orwell: c’è sempre qualcuno che vuol essere più uguale degli altri.

Il diritto liberale funziona così: ogni minoranza deve poter chiedere e, prontamente, da parte della maggioranza esserle dato. Norme, soldi (4 milioni di euro per centri di assistenza a vittime delle violenze di genere), visibilità, riconoscimento sociale. Si sviluppa ad abundantiam, per proliferazione.

Non è una critica, è una constatazione. Tutto quel saltare di nervi, poi, per gli incontri nelle scuole abbinate a una futura Giornata nazionale contro le varie fobie, pare, suvvia, un tantinello sfasato: con tutta l’orgia di materiali di varia natura di cui un ragazzino può ingozzarsi quando gli pare e piace, guardando una qualunque serie su Netflix, o navigando solitario in cameretta sul telefonino (che certi disastrati genitori gli danno in mano quando ancora non sa la differenza fra il coso e la cosina), il terrore che imparino dalla maestra la legittima esistenza degli omosessuali o dei trans suona, diciamo, leggerissimamente fuori dal mondo.

Secondo i seguaci di Fedez, la proposta (già passata alla Camera, bloccata in commissione al Senato dalla Lega) non mette affatto a rischio la libertà di manifestare un’opinione diversa o critica su matrimonio gay o utero in affitto, anche perché è stata munita di un’aggiunta, la cosiddetta “clausola salva-idee”, che salvaguarda la libera espressione di punti di vista purché non vengano “a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”.

L’ambiguità, in effetti, c’è. Ma come in tutte le pandette, del resto, specie in Italia. Sarà ulteriore lavoro per i giudici nonché per i giornalisti, ghiotti di casi dell’offeso di turno che schizza in tribunale non appena sente un prurito alla propria personale fobia.

Ora, posto che non è in discussione punire chi discrimina un qualsivoglia cittadino a prescindere dalla categoria o dall’appartenenza (se dimostro, per esempio, che pur avendo i titoli mi scarti al lavoro perché non gradisci con chi mi accompagno, vai sanzionato per violazione della basilare uguaglianza, non per altro), specificare, settorializzare, parcellizzare reati di comportamento che dovrebbero valere per tutti è una battaglia che non dovrebbe sfiorare nemmeno un’aula di giustizia, perché è culturale e politica.

Tramite il Dl Zan i promotori intendono far avanzare la loro linea, e ci sta. Ma qua il problema non è il singolo comma del dettato legislativo, è che non dovrebbero proprio esistere i reati di opinione. Chiunque dovrebbe poter sostenere la propria, fosse anche la più indecente, a patto che non agisca per imporla a nessuno.

Si poteva benissimo pensare a giornate celebrative o centri anti-violenza o a inasprire le aggravanti, senza alimentare la dinamica opinionicida dell’iper-regolamentazione fobica.

La legge Zan non proteggerà nessuno, con buona pace di Fedez che non sa nemmeno di cosa parla. Al meglio, non cambierà niente; al peggio, rafforzerà le parti politiche che li discriminano. La legge introduce aggravanti, cioè pene appesantite per reati che già esistono. L’idea che inasprire le pene faccia diminuire il crimine è una delle numerose credenze intuitive ma false, ormai ampiamente smentite dagli studi. Per amor di brevità, citiamo solo la posizione del National Institute of Justice, l’agenzia di ricerca del Dipartimento di Giustizia americano:

“Le leggi pensate per ridurre il crimine concentrandosi principalmente sull’inasprimento della pena sono inefficaci, in parte perché i criminali non conoscono le sanzioni specifiche per i crimini. Pene più severe non correggono i condannati, e il carcere può aumentare la recidiva”.

Inoltre, tralasciando l’ipocrisia e la pochezza intellettuale di alcuni politici che dicono di “stare” con il rapper (fatto che ci dice che la politica ormai è quasi deceduta), il paladino dei trans e dei lavoratori Fedez, “dimentica” quelli di Amazon, multinazionale di cui è sponsor, come dimentica quella canzone in cui ironizzava sull’outing di Tiziano Ferro (uno che sa cantare), o le sue bordate sui carabinieri. L’impressione è che al cantante munito di autotune non interessino davvero i diritti civili, ma consolidare la sua immagine pubblica di influencer, magari sollecitato dalla moglie che ha brandizzato la propria famiglia, facendosi ulteriore pubblicità e “dimostrando” di non essere solo un artista (?) ma un artista impegnato, come si conviene oggi.

 

Fonte  Alessio Mannino

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