L’artista Nicola Samorì, tra Bernanos e Dostoevskij

L’artista ravennate Nicola Samorì teme la morte e il disfacimento dei visi e dei corpi e ce lo dice senza troppi misteri, pur cercando di sondare l’inconoscibile, soprattutto in relazione al sacro. D’altronde se non fosse oscuro non sarebbe nemmeno né sacro, né divino. Samorì propone ai visitatori un monolite nero che costituisce la sua produzione artistica, fatta di concetti e simboli provenienti dall’arte barocca e realista, soprattutto spagnola e olandese, che si tramutano in figure iperrealistiche che fungono da nuovi modelli, perché la malattia, il decadimento, la deformazione sono uno strumento di conoscenza, una pratica mistica, una vanità, cui nessuno sfugge.

Samorì, come le sue creature, a volte si sente confortato nel pensare sé stesso come un uomo involontario, dunque innocente, che dipinge e scolpisce per non dimenticare, perché la morte, come diceva Seneca, minaccia sempre, è un presente che ad ogni attimo conquista una porzione più grande di noi. Samorì, ponendo l’attenzione sul sacro quale concetto ambiguo e sul non rappresentabile, sviluppa la sua arte partendo dalle icone delle storia dell’arte, scandagliandole, “profanandole” ma paradossalmente senza mancare loro di rispetto: è in atto una trasformazione materica che ci svela come il trascendente possa sfuggirci, non avere un volto rassicurante a cui affidarsi, perché spesso noi esseri umani ci lasciamo avvolgere anche volontariamente dalle tenebre, annegando in fondali che speriamo a un tratto possano essere illuminati dalla luce. Saranno immagini di meraviglia che si sottrarranno al nostro occhio, sarà il trionfo del sublime che dialoga con la morte e con il buio cosmico; perché in fondo come diceva Bernanos in Diario di un curato di campagna, “tutto è grazia”, anche quando l’oscurità diviene parola.

Questa oscurità che ritrae Samorì, stretta parente con la morte, è sorgente di memoria, individuale e storica e dimostra come la fede può costare cara e può crescere come diceva Fëdor Dostoevskij anche quando vi albergano conclusioni opposte: le opere di Samorì resistono, amano, implorano, malate, sembrano in attesa di qualcosa o di qualcuno. Viene da chiedersi: anche se la verità fosse al di fuori di Cristo, Samorì starebbe con la verità o, come il grande scrittore russo, con Cristo?

Nicola Samorì è attualmente protagonista a Bologna della mostra Sfregi, sua prima antologica in Italia promossa da Genus Bononiae. Musei nella Città e curata da Alberto Zanchetta e Chiara Stefani che, quando i musei riapriranno al pubblico, sarà visitabile a Palazzo Fava fino al 25 luglio 2021.

 

 

Si dice che lei fustiga le immagini sacre e mitologiche, perché in fondo noi fustighiamo il sacro in questo tempo secolarizzato. In realtà sembra voglia mostrare che l’immagine che abbiamo di qualcuno, qualcosa, possa sfuggirci ed essere altrove, mentre ciò che vediamo è un simulacro?

Io fustigo la pittura per vederla sanguinare, perché la considero alla stregua di un corpo che viene trattato come un organismo ormai anemico, mentre non lo è per nulla. Le immagini e la loro narrazione sono funzionali a questa messa in scena che ha bisogno della metafora della carne per farsi inequivocabile: quando scortico fisicamente la pelle di San Bartolomeo non sto più rappresentando un Santo seviziato da un carnefice, ma presento un corpo fisicamente spellato, un corpo che ho composto con cura e poi indagato col coltello.

Semplicemente si può dire, volendo sintetizzare fino all’osso, che lei vuole mostrare paradossalmente la nostra impossibilità di vedere quello che pensiamo di vedere, soprattutto in riferimento a Cristo, quale immagine, concetto, questione che ci turba e ci sfugge perché altrimenti non sarebbe Dio, ed è sempre stato così?

Mi sono posto la questione del non rappresentabile, del mistero, del miracolo. Poiché non mi ritengo all’altezza di disegnare il prodigio ho scelto di affidarne la formazione al caso: è per questo che qualche volta in corrispondenza del Cristo risorto si apre una cavità naturale della pietra oppure una laguna scavata dallo zolfo sul rame dipinto ad olio. La scrittura delle pietre, così come una reazione chimica, sprigionano una meraviglia della quale non sarei capace. Ma senza una cornice di senso da me tracciata questi accadimenti naturali sarebbero pressoché illeggibili.

Passiamo al versante storico e meno intimistico: se il rapporto tra l’uomo con il trascendente e con il proprio passato è spesso conflittuale, quello con la storia non è da meno, lei dice che la Chiesa ha riempito anche le nostre coscienze non solo di culto ma anche di sangue e violenza. Non le pare una frase retorica, ormai l’hanno imparata tutti. Non è semmai che il cuore dell’uomo è già intriso di violenza e la sua coscienza sarebbe comunque sporca a prescindere dalle azioni commesse dalla Chiesa? Non crede che potrebbe essere un alibi quello delle nefandezze e altri presunte tali, della Chiesa?

Quel che posso avere affermato è che il mio immaginario, così come quello di un italiano e, in generale, di un europeo, è il risultato di una vera e propria carneficina narrata con i mezzi della pittura e della scultura, una celebrazione del corpo sofferente attraverso il calendario dei martiri e la replica infinita della Croce. Non è possibile negarlo e per me non ha neppure un’accezione negativa perché amo la rappresentazione del corpo come contenitore di sangue, desiderio e morte. Senza l’arte che si è sprigionata in Italia soprattutto a partire dalla Controriforma il mio lavoro – e non certo solo il mio – non sarebbe nemmeno pensabile.

La Chiesa è stato il generatore più importante di immagini per secoli: questa la sua colpa, questo il suo merito.

Cosa intende esattamente per Chiesa? Una gerarchia dove tutti la pensano allo stesso modo o una comunità di credenti che spesso ignora i segni dell’arte sacra?

Mai incontrato un essere che la pensasse uguale ad un altro; non mi risulta che la Chiesa disponga di questo potere perverso. I credenti ignorano i segni dell’arte sacra perché sono stati per decenni infestati dal brutto e la Chiesa è diventata il ricettacolo delle espressioni più fiacche che io conosca.

Lei crede di parlare un linguaggio universale, di essere comprensibile al dotto e al non dotto affinché possa elevarsi alla comprensione del divino?

No, non credo di possedere il codice di un linguaggio universale, ma traccio segni che parlano a molti, che possono anche scavalcare la cultura di appartenenza e la fede del singolo.

Il senso del mistero procura più sofferenza o fascinazione?

Io ne sono affascinato. Se non si carica di mistero un’immagine la si condanna ad essere irrilevante e confusa con milioni di altre.

Pensa di fare arte sacra o religiosa? Cos’è per lei il contenuto simbologico che era alla base della cultura cristiana dei primi secoli fino a tutto il Medioevo?

Aspiro a creare immagini in grado di evocare il senso del sacro, qualcosa di arduo da codificare, che rallenta il passo e che può spingere alla contemplazione. Per me scolpire o dipingere è simile a meditare, simile a pregare.

Bisogna apparentemente “dileggiare” i grandi maestri del passato, per comprenderli al meglio, insomma evitare atti di venerazione e paura di essere irriverenti, bensì scavando nel loro “sottosuolo”?

Per me copiare è capire, e sabotare un codice significa metterlo in crisi con l’iniezione del visus della posterità. Cosa sarebbe accaduto se Bronzino avesse visitato una personale di De Kooning?

Magari a pochi interessa, ma lo scontro delle epoche sullo stesso corpo può aprire crepe feconde.

Valle Umana (Malafonte), 2018, affresco, 515x380cm

Il <<Discorso della Montagna>>, tratto dal Vangelo secondo Matteo, è diventato un libro d’artista con le parole commentate dalle sue immagini. Non crede che molte volte le parole bastino a sé stesse, soprattutto quelle del Vangelo? La sacralità della vita non insegue la sacralità della Parola?

Mutuo un felice titolo di Gino de Dominicis: “In principio era l’immagine”. Per me la parola non viene prima dell’immagine e il momento più forte dei Vangeli è una immagine: la Croce. Al tempo del lavoro intorno al Discorso della Montagna non cercai di commentare la parola, ma di seminarla di immagini sgorgate dalla densità del verbo.

Certo che il Sermone basta tranquillamente a sé stesso – e così accade da molti secoli a questa parte, tanto che le rappresentazioni di questo episodio evangelico sono poche – ma è anche vero che le immagini da me realizzate potrebbero serenamente esistere senza la stampella della parola.

In “Corpus Domini” è evidente come lei voglia riempire di lividi la tradizione classica, facendo apparire le figure come dei relitti, soprattutto Maria e San Giuseppe. La caducità artistica è la stella cometa del Novecento dove bisogna in qualche modo sopravvivere ai centri di potere?

La tradizione, come la chiama lei, è una legione di lividi. Basti pensare ai crocifissi gotici, a quelli fiamminghi o alla statuaria barocca spagnola. Holbein passa dal tumefatto all’avorio, Donatello passa dalla perfezione della pelle all’emaciato.

Farei dunque apparire i lividi dove ci sono già.

E poi “Corpus Domini” presenta una iconografia inedita, dove non compare alcun San Giuseppe: Maria ha in grembo il corpo morto del figlio dal cui ventre sgorga un Cristo bambino.

L’arte è come Venezia: non smetterà mai di marcire.

Pentesilea, 2018, olio su ottone, cm 100×100

Non trova che l’arte oggi, a parte qualche caso, emani tepore, mentre una volta bruciava?

No, ci sono stati uomini e donne incandescenti e sempre ce ne saranno. Il resto è la tiepida, necessaria, litania della conservazione.

Che posto hanno o potrebbero avere un giorno il ricordo dell’infanzia, il periodo in cui tutto ci sembra più grande e la Grazia nella sua produzione?

Quel che faccio oggi è il riverbero concreto di fantasie infantili delle quali non ho mai smesso di prendermi cura.

 

Tutto il Novecento ha compiuto crimini a fin di bene, questo secolo, dominato dal Baal della tecnica come diceva Dostoevskij, va attraversato fino al midollo per comprendere anche quanto l’arte sia diventata disperatamente esagerata, mortifera e allo stesso tempo tanatofobica?

L’arte è stata spesso, negli ultimi secoli (anzi, migliaia di anni direi), esagerata, mortifera, tanatofobica.

Una piramide non è esagerata? Un transi non è mortifero?

Il Novecento è solo il secolo più vicino a noi, il secolo nel quale io e lei siamo venuti al mondo, ed è più facile metterlo all’indice.

Si sta preparando per un’importante mostra a Bologna dal titolo eloquente “Sfregi”: cosa si aspetta dagli addetti ai lavori e dai visitatori? Quali sono state le maggiori difficoltà in relazione alle norme restrittive?

Non ho aspettative; immagino che le reazioni saranno in linea con quelle osservate negli ultimi decenni, dal disgusto all’ammirazione, passando per le posture classiche di molti addetti ai lavori che liquidano il mio caso con un “obsoleto”, “accademico”, “manierista”, “necrofilo”.

Per alcuni, me compreso, è un’opportunità per leggere la tenuta del mio percorso nei decenni, retto da un’ossessione per la forma che non ha nulla a che vedere con un’idea di progresso dello stile, bensì con una attenzione all’opera come organismo che non ha bisogno del concetto di serie per trovare valore.

Le maggiori difficoltà nel produrre una mostra in uno spazio fisico ai tempi del morbo sono legate al fatto che si costruisce qualcosa per liberare le opere dalla prigione del virtuale e ci si ritrova ad essere per lungo tempo l’unico corpo vivo a solcare quelle stanze.

 

Fonte Nicola Samorì. Tutto è Grazia – Juliet Art Magazine (juliet-artmagazine.com)

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