Tossicità. L’emozione ha sostituito la ragione

Toxic town.
Tossicità.
Tossicità che castra ogni libera determinazione dei rapporti.
Paroloni? Neanche troppo.
L’epoca dell’infantilismo comincia così, sostituendo la ragione con l’emozione per leggere e gestire i fatti del mondo, in uno stato di agitazione emotiva permanente in cui l’opinione autoritaria soppianta l’idea autorevole. Sembra un’insulsa – e un po’ pretestuosa – cantilena, ma in realtà è la traduzione lirica di gran parte dell’incubo psicologico che anima le nostre vite sociali. Un esempio sta nell’ideologizzazione di ogni cosa esistente, atto primo del peggior politicamente corretto.

Corre alla mente l’indescrivibile malignità con cui fu uccisa la povera Giulia Cecchettin, per il quale pochi giorni fa è stato condannato all’ergastolo Filippo Turetta. Proprio in quell’occasione, in quegli ardenti momenti, tra una miriade di esempi, ci fu il terrore nel leggere alcuni pensieri volanti, che tanto volanti non furono, tra social e chatterbox giornalistiche. Qualcosa di cui spaventarsi, poiché capaci di orientarsi su idee e input secondo cui l’omicida in questione – tralascerò ogni aggettivo per dignità – avrebbe agito semplicemente in quanto maschio, figlio scemo e attivo del patriarcato o che non si trattò di un raptus ma, tra le pieghe della lucida follia, s’insinuò cieca e pericolosa la condizione “genetica” secondo cui essere uomo non significa commettere necessariamente un femminicidio, ma che quasi tutti i portatori di pène possono pensare come un femminicida. Una sorta di possessione che magari nasce per avere credibilità verso gli occhi di altri uomini, gli stessi di cui donne, bambini, animali, Lego e Playmobil, benzinai, gelatai, astronauti, insomma, tutto l’esistente umano, subisce il controllo e la possessione.

Una vittima candida, un anno fa, ma subito lo scatto verso il buio ideologico. Rieducazione, cultura, condanna, patriarcato, maschilismo. Censura, cesura, blocco. Decenti e indecenti. Buoni e cattivi. L’orribile bulimia della polarizzazione emotiva. Lo ricorderete sicuramente: una ragazza appena morta, ma qualcuno, anziché implorare estrema giustizia, che fortunatamente in questi giorni è giunta, pensò subito di moralizzare l’esistente, sputando sentenze su tutta la generazione maschile vivente. Ovviamente bianca, eterosessuale e figlia di una “classica” famiglia italiana, come residuo borghese altamente tossico per la nuova immagine di famiglia degenerata, pardon: senza genere alcuno.

Casus belli, l’ennesimo. Mi tornavano in testa questi pensieri, purtroppo utili a dipanare un altro tipo di riflessione sul nostro tempo.
Signori: che schifo. Perché certa privata ossessione personale, confusa per alto parere culturale, dovrebbe essere legge (morale) di tutti?
Occorre solo far capire che le profondità dell’essere umano, siano esse angeliche o infernali, sono spesso imperscrutabili, per quanto vi siano gli strumenti per riconoscere la follia. Troppo spesso la morte si realizza nell’errore dei vivi. In tutte quelle volte che Giulia si sentiva minacciata dal comportamento del Turetta, così come anche la sorella ha avuto modo di confermare.

La provincializzione dell’esperienza maschile – ovvero la riduzione dell’esistenza maschile a fattaccio figlio della peggiore mentalità della provincia italiana negli anni ‘60 – operata da alcuni deliranti scriventi che, terminata l’onda mediatica con cui maturare visibilità e consenso nel grande regno della pubblica emotività, torneranno a scrivere di giardinaggio, di borse o di vacanze sulla neve, è un concepimento assurdo. L’idea secondo cui un uomo debba crescere necessariamente tosto e robusto – in chiara evocazione agli spettri di un fascismo mascolino mai sopito – pisciando sul territorio per marcarlo, incapace di ascoltare le proprie fragilità, di chiedere aiuto, di manifestarsi inferiore o inadatto rispetto a una determinata situazione, e quindi di proseguire nella personale rigidità che lo porta a involvere e quindi a uccidere, è drammaticamente pericolosa per la maturazione sociale. Chi soffia su questo fuoco ha una visione severamente distorta del reale, o, quantomeno, fusa con la personale isteria o connessa a qualche brutta vicenda trascorsa che ha generato un portentoso disturbo post traumatico da stress.

Il privato inonda il pubblico. Il fatto privato diventa pane per la maggioranza, invertendo il principio che fu di Orwell, che nel frattempo è stata azzerata nel suo ragionare criticamente. La vetrinizzazione spietata in cui ogni dimensione umana finisce nella vetrina pubblica, la life politics, cosiddetta, ovvero la terribile sensazione di osservare tutto secondo un assassinante voyeurismo e su quello fondare la propria opinione. Un nozionismo che incolla pezzi di dichiarazioni dei leader, articoli della stampa, chiacchiere fugaci in amicizia, cuciti in fretta, senza il filtro di un ragionamento sopra le cose, di un approfondimento.

La democrazia liberale è malata, così come ha notato il politologo Luigi Di Gregorio, stimatissimo amico, che su questo tema ha scritto pagine scientificamente memorabili e degne di attenzione trasversale (Demopatìa. Sintomi, diagnosi e terapie del malessere democratico, Rubbettino). È malata poiché viene fagocitata dal dubbio, dalla sua stessa essenza; quel dubbio che nutre la santa libertà, quella libertà individuale alla base dei processi del governo delle nostre società. Il dubbio che una forma di libertà e tolleranza, di giustizia sia effettivamente di alta qualità tale da produrre ulteriore maturazione civile; lo stesso che, però, raggiunta una definizione di concessione individuale e sociale, prosegue nella sua opera, non si arresta, e cresce, cresce fino a ipertrofizzarsi, fino ad annientare ogni lucida razionalità, ogni valore profondo, ogni principio morale legato al Bene, nella direzione, invece, di una moralizzazione del Giusto. La stessa che fornisce, indistintamente, doveri etici e principi prêt-à-porter che possono essere impiegati in ogni parte del mondo, senza differenza, inquadrando un solo tipo di uomo universale.

La stessa moralizzazione del Giusto – quel giusto “ideologico” che non inquadra il concetto di giustizia nel più nobile senso del termine e che non tiene conto di differenze demoetnoantropologiche ma che costituisce un dogma universale – venduta come unico accesso a una degna libertà, civile e matura, realmente emancipante e che prevede che, nella gestione della cultura di massa, che l’uomo sbagli a prescindere, sia pericoloso di nascita, sia un errore di programmazione della postmodernità. Un mostro o presunto tale.

Il Giusto vuole la rieducazione di chiunque nasce con un pisello. Il Bene, che non appartiene a questo presente – se non nella trasmutazione materialistica, che dalla felicità conduce alla gratificazione istantanea, dalla libertà porta alla concessione continua – dei buoni profeti della riprogrammazione coatta, contrariamente, era già il pacchetto con cui formare un individuo degno dell’amore e del rispetto, dell’onore, certamente, senza essere un nazista duro e puro incapace di ascoltare le proprie fragilità.
Ecco la nuova decenza: quella di chi chiede scusa per essere maschio e quella di chi vuole formare, introducendo l’idea della scuola come supplemento all’educazione familiare, se non come sostituzione, che genera una nuova edificante brava persona. Una decenza rassicurante per chi la pratica, che crea riconoscimento tra i buoni, tra le fila della maggioranza, tra quelli che non costituiscono parte dell’emergenza democratica.

Da quando si è deciso di rendere sempre meno virile il maschio che la fragilità ha conquistato tutto, infestando le dimensioni
Mi ribello con tutta la mia forza a questo cesso profondo alla Trainspotting.

Se questa è libertà, se la decenza conduce a un riconoscimento generale tra i buoni, non resta che essere indecenti, quindi liberi. Libertà in che senso? Non è una costante emanazione di concessioni, ma partecipazione a se stessi, al tempo e al reale. Così da realizzare, nell’individualità, un pensiero critico e dare una forma reale all’autodeterminazione.

Essere donne tra gli estremismi femministi di oggi

Solo un pensiero verticale e salato: strappate le donne dalle mani dell’estremismo femminista. Ma anche gli uomini. Poveri maschiacci occidentali di cui è sempre colpa. Per non riuscire a lavorare sotto una valanga di stress, per essere sempre meno padri e amanti focosi, per non riuscire più a stabilire rapporti di virilità – che come abbiamo visto in un recente articolo di questa dinamitarda rubrica, non è una parolaccia – alla base dell’educazione e del rapporto con i propri figli, che generano ritualità necessaria a identificare e fortificare i ruoli, le funzioni, a generare esempio, non a partorire mostri del patriarcato. Sempre colpa loro, o meglio nostra, anche mia, luridi immaturi, infanti della coscienza, violentatori preventivi, indegni di vivere il migliore dei mondi possibili, quello in cui il progresso sociale si fa, troppo spesso, estinguendo tutto ciò che si pone come alternativo all’imposto.

Mentre le donne marciscono nella premura soffocante di un sistema che promette di proteggerle, ma che andrebbero tutelate da chi vuole tutelarle, e si trasformano in marmotte delle Ande in via d’estinzione, l’uomo, vigliacco, viene superato e retrocesso. Sempre più giù, fino a trasformarsi in un innocuo portatore di pene, in ogni senso.

E trema il fondo di ogni tempo, mentre la religione laica dell’avanzare oltre ogni forma di conservazione predica l’uguaglianza, a costo di ingozzarcisi con corpose cucchiaiate infilate in gola.

Dedicando alle donne lo spazio di una riserva in cui possano muoversi apparentemente libere, come galline allevate a terra, non si realizza emancipazione, ma la costante degenerazione del caso umano. Non è premura, è soffocamento, non è maturazione di una condizione, ma polarizzazione, non è inclusione, ma esclusione, non è affronto delle fragilità, ma istituzionalizzazione forzata della diversità, senza lettura, senza tatto, senza piena comprensione dei meccanismi. Condanna: le streghe sono tornate e stavolta ad arrostire ci saranno i coglioni.

L’estremismo femminista porta a odiare le donne, così come il machismo fa con gli uomini, li spinge a una irrimediabile e infantile rigidezza che esaspera la virilità. Il femminismo stordisce la femminilità in un carnevale di aforismi battaglieri, nulla più, e arriva a essere come un amore che diventa rabbia, e poi disprezzo, per tenere incatenato a sé il partner che fu, e che forse, non tornerà mai. Per cambiarlo, per tenerci troppo, per gestirlo, ghermirlo, non lasciarlo espandere, sapendo di sbagliare, col rischio di perderlo nel mare di altre strade quando s’alza il vento forte del distacco.

Le derive del femminismo costituiscono una delle più crude contraddizioni esistenti in termini morali ed etici in questo teatro vuoto che è il nostro presente, dove ogni difetto viene allevato fino a diventare diritto, in cui il capriccio si eleva a istituzione nella generazione di una continua minoranza che nel tempo si pretende diventi maggioranza, nell’attesa di una nuova minoranza, dove ci si sfiora virtualmente sognando la California e magari un reddito di cittadinanza senza aver voglia di fare un cazzo.

Là dove il costrutto ideologico, fuori tempo come le bomboniere nella cristalliera della zia tirchia, parla di emancipazione e realizza il ghetto, poi lo arreda, nel tentativo di distruggerlo nuovamente, infine lo espande, in un loop disastroso. Anacronistica utopia che è alla base dei meccanismi di certo sinistro pensare. Il giro eterno che ha reso inutile la sinistra alla rivoluzione del cittadino, all’influenza e alla tutela delle categorie sociali, e, probabilmente, al governo della cosa pubblica.

Il linguaggio di genere, il femminicidio – guai a chiamarlo semplicemente omicidio, per altro già normalmente punito per legge – la figura femminile slacciata dall’istituzione famigliare, la maternità che fa male, il sesso da fare da sola, la redenzione di Silvia o Daniela o Margherita che appare, come Deus ex machina, nella triste materia dei soldi, come se la dignità, l’integrità e la capacità di un individuo fossero vendute un tanto al chilo, sono la trasformazione di un essere che contiene la vita, la prosegue, la nutre e la protegge, come una Madonna laica che nasce all’alba di un nuovo giorno, una bianca luce, insozzata da pretese ideologiche che trovano una piccola leva alla riflessione – di cui consiglio l’approfondimento – nelle parole di Claire Fox, intellettuale figlia della sinistra radicale e del Partito Comunista rivoluzionario inglese, intervistata, in quell’occasione, da Benedetta Frigerio per il giornale Tempi: «L’altro è sempre un potenziale nemico che lede i miei diritti, come dimostrano i ritornelli del piagnisteo moderno: “Come donne ci sentiamo offese”; “Come musulmani ci sentiamo offesi”; “Come lesbiche ci sentiamo offese”. In nome della difesa dei deboli e del diritto di tutti vige però un sistema tutt’altro che democratico».

Così, la residua forza nella donna, acquisita da conquiste che la propria caparbia natura – potente e gentile come radice di quercia e ramo di acacia – le ha garantito, rischia di svanire nella debolezza di un processo umano che si alimenta di contrapposizione e non di affermazione, malsano meccanismo che annulla ogni autodeterminazione, pessima nemica di chi ci vuole tutti sterilizzati replicanti, senza Dio, né Patria, né confine, né più connessione con le dimensioni di profondità, in nome del progresso. Si spegne come un’anziana nonnina la forza umana e sociale della donna, lentamente, nel costante abbraccio premuroso di quella Big Mother di cui Jean Yves Le Gallou teorizza.

Le Gallou, saggista francese, a partire dall’ispirazione di Jean Raspail, scrittore prolifico e lucidissimo anticipatore, che già nel 1973, nel romanzo “Il campo dei santi”, aveva immaginato l’esodo di milioni di profughi verso l’Europa e la sottomissione delle élites culturali europee. Di cosa parla Le Gallou? Di Big Brother, Big Other e Big Mother, la morsa disumanizzante:

«Big Other. Un’adorazione senza limiti per l’altro, amplificata dall’odio di sé, della propria cultura, della propria civiltà. Un’ideologia unica che ci assoggetta grazie ai metodi del Big Brother: la società di sorveglianza che conosciamo, in cui la polizia del pensiero è onnipresente. Un’ideologia unica che s’impone tanto più facilmente a individui che sono indeboliti dalla tutela di Big Mother: il principio di precauzione applicato dalla culla alla tomba».

Rischia di mutare irrimediabilmente la donna, così come il significato di femminilità, ridotto a costrutto ideologico.
E così la Grande Madre, non più archetipo della generazione, immagine soave, femmina gentile, eletta dea del fuoco della famiglia, materna procreazione e contenitrice di vita, distorce il proprio significato alla luce del presente, divenendo costola deviata e perversa della femminilità. La Big Mother, qualcosa che inietta insicurezza, frena le nostre certezze, le rende antiche e inadeguate, e non solo a livello politico, tenendoci appiccicata a sé. Essa sterilizza ogni umana necessità di esplorazione, di avventura, di far guerra per difendere ciò che è più caro e irrinunciabile, pacifica, azzera la purezza, distoglie dalla voglia di reazione, di curiosità, di scoperta.

Una motrice ben visibile che si esprime in atti politici e istituzionali di chi gestisce il villaggio globale e che si manifesta nella relativizzazione dell’esistente, dal concetto di identità sessuale biologica, alla Fede, dai genitali, fino al rapporto con i figli e con la propria terra, e così via, facendo tremare ogni identità, ogni riferimento visibile nel caos, fin nelle corde più intime, nell’abbraccio soffocante di una narrazione unica possibile se si vuole essere ritenuti degni della Civiltà.

Ed ecco un figlio che non riesce a essere adulto a causa di una pazza madre che scambiò il soffocamento per amore.
Tutto è fragile, come ginocchia piccole e insufficienti, tremolanti; lasciate senza il nutrimento del pensiero critico, della forza di reazione, stanno per cedere e spezzarsi. Così le donne senz’anima, ma con un libretto di istruzioni, sono addomesticate, per paura, per necessità, per inganno, dietro alle parole giuste da usare per loro, alle cose giuste da fare per loro, alle intenzioni giuste da nutrire per loro, così come nei sentimenti, nel sesso, nel rivolgersi semplicemente ad esse.

Siate donne come vi pare, ma siate donne, senza il bisogno di sentirvelo dire da uno scemo qualunque, come me. Che donna sia nella più grande conquista odierna, l’autodeterminazione. Che faccia rima con moralità, con immoralità, con immortalità, ma sia libera dal giogo del femminismo. Semplicemente donna come condizione naturale, di pari spessore a quella maschile, e anzi struttura dell’essere mondo, non parentesi da aprire. E alle follie di certo femminismo non date un cazzo. In tutti i sensi.

‘Lettera al mio giudice’, il femminicidio raccontato da Georges Simenon

Opera del 1947 dalla scrittura sobria, atmosfere parigine come quelle di film quale “Il porto delle nebbie” di Marcel Carné, pellicola del 1938, Lettera al mio giudice di Georges Simenon è un libro dalla narrazione sempre tesa, anche perché, dopo l’introduzione, è il protagonista stesso che racconta via via ciò che vive – azioni, pensieri, sentimenti – un protagonista peraltro singolare nella sua assoluta “normalità” borghese.

Di grandissima attualità, Lettera al mio giudice è uno dei più famosi di Simenon, e racconta quel che oggi è chiamato femminicidio, e un femminicidio messo in atto per una forma malata di amore: da un lato quella dell’uomo che aspira a possedere la totalità della “sua” donna, anima e corpo, passato e presente, fantasie sentimenti pensieri, innanzitutto quelli relativi alla sfera sessuale, a fare di lei un oggetto conforme ai propri desideri, e dall’altro quella della donna che, incapace di difendere la propria integrità psicologica prima ancora che fisica, si sottomette a lui e si sente tanto più amata quanto più la smania di possesso di lui si fa violenta: soffre non sentendomi tutta tutta sua, quindi mi ama davvero. Non casualmente lei è povera, di scarsa cultura e non particolarmente intelligente: inferiore a lui e dunque vulnerabile, insomma.

Quanto a lui, egli ha inconsapevolmente maturato nel tempo un desiderio di rivalsa nei confronti de “la donna”, ossia la madre, alle cui aspettative egli si è adeguato, innanzitutto ascendendo ad un livello culturale e socio-economico superiore a quello delle sue origini, e poi la seconda moglie, Armande, da cui si è sempre sentito diretto tanto da non sentirsi veramente “in famiglia” con lei e le due figlie.

Attraverso le parole di lui seguiamo dunque la progressiva riduzione della libertà di lei e l’estendersi del dominio dell’uomo sulla donna fino all’irrimediabile atto finale. Simenon dà infatti la parola direttamente all’assassino, il dottor Charles Alavoine, notabile in una cittadina di provincia, e ci mostra il percorso tortuoso che la sua mente compie per arrivare ad uccidere la donna amata  – non la moglie poco amata e spesso detestata -,  non per punirla di un qualche tradimento, come per esempio avviene ne “La sonata a Kreutzer” di Tolstoj, ma come gesto estremo d’amore.

Vorrei tanto che un uomo, un uomo solo mi capisse. E desidererei che quell’uomo fosse lei

Qual è l’infingimento, il sofisma, l’alibi cui la sua mente … no, la sua affettività malata ricorre per giustificare la propria furia distruttrice nei confronti della poveretta? “Liberarla” da quelli che chiama i suoi  – suoi di lui –  “fantasmi”, che poi sono la consapevolezza che lei ha già fatto l’amore con altri uomini, uomini raccattati nei bar che ama frequentare (e a proposito di bar, Simenon li ama perdutamente come ama tutti i territori “ai margini” e ha un suo tipico modo di rappresentarli che porta una chiara impronta esistenzialista).

Perché Alavoine scrive una lettera al suo giudice e non per esempio un diario? E perché prima dell’esito del processo? Perché è convinto  – non si sa se a torto o a ragione – , che egli capisca e anzi intuisca le sue ragioni grazie ad una superiore sensibilità rispetto a tutti gli altri, i quali hanno visto nel suo atto l’esito di una gelosia giustificata dai trascorsi della vittima, la quale in passato aveva avuto molteplici relazioni anche prostituendosi, tanto giustificabili  – quella gelosia e perciò l’assassinio –  che la moglie si dichiara persino pronta a riaccogliere il marito se assolto.

Se Alavoine si suicida e  senza nemmeno aspettare il verdetto, che potrebbe anche non essergli sfavorevole, non è solo perché la vita senza Martine non avrebbe senso, non è solo per seguirla nella morte, ma perché la sua eventuale assoluzione o la riduzione della pena, significherebbe avallare l’idea che  ella fosse una donna di poco valore, indegna del suo amore. E questo lui non lo vuole. In un certo senso, è così che l’uomo le dimostra il suo amore.

Non sono pazzo. Sono soltanto un uomo, un uomo come gli altri, ma un uomo che ha amato e sa cos’è l’amore. Vivrò in lei, con lei, per lei, finché mi sarà possibile, e se mi sono imposto questa attesa, se mi sono imposto quella specie di farsa che è stato il processo, è perché lei deve continuare a vivere in un altro, a qualsiasi costo.

 

 

 

“Nomi di donna”, di Gianluca Pirozzi

Nomi di donna (L’Erudita, 2016) è la terza raccolta di racconti di Gianluca Pirozzi (Storie liquide, Nell’altro). I tredici racconti narrano le vicende di tredici donne di estrazione sociale e culturale, etnia e città diverse, e sono accompagnati dai disegni di Clara Garesio, veri elementi artistici che conferiscono al libro una qualità estetica decisamente notevole.

Nomi di donna, di tredici donne

La raccolta è suddivisa in quattro parti: “All’aurora”, “Di giorno”, “Al tramonto”, “Di notte”. Queste quattro parti della giornata vanno a scandire, il tempo di queste donne che lavorano, amano, corrono, odiano, vivono e, a volte, muoiono durante il giorno. Tredici donne normali, dunque, le cui storie rappresentano la quotidianità.

Disegno di Clara Garesio per il racconto “Diana”

Nella raccolta sono presenti racconti ben strutturati e interessanti, come quelli di Monica e Stella, entrambe costrette a fare i conti con se stesse per superare due lutti: del marito Carlo per la prima, del padre per la seconda. C’è anche Agata – e il suo è forse, insieme a quelli di Aristea la prostituta e Bianca, fuggita dall’Africa, uno dei racconti meglio riusciti – che, sposata con Ezio, un perdente incapace di trovare un lavoro in grado di mantenere moglie e figlio, si ritrova a dover fare i conti con l’ira omicida dell’uomo. Altro racconto molto bello è quello di Fabiana che, intrappolata in un corpo di donna (e con un nome di donna), narra il percorso che la porta a diventare Andrea.

La bellezza di questi testi sta nella delicatezza con cui vengono affrontate tematiche di rilievo, quali la violenza domestica, la transessualità, l’immigrazione, la prostituzione. Alle donne protagoniste vengono date voci forti, indipendenti, da protagoniste. I dettagli sono poi ciò che rende questi racconti verosimili: al lettore vengono offerti difetti, dubbi, piccole manie (il voler curiosare di Nadia nei beauty case delle ospiti dell’albergo di lusso per cui lavora; l’ossessione di Clara riguardo il portarsi a letto qualche oggetto che le ricordi la sua vita) e, soprattutto, tanto passato, tanto background. Questi racconti sono piccoli capolavori che da soli valgono la lettura del libro.

Nomi di donna, qualche incrinatura

Ci sono tuttavia anche racconti meno efficaci dal punto di vista stilistico e narrativo. È il caso di quello dedicato a Edda, affascinata dalle lingue al punto di arrivare a lavorare come interprete per l’ONU. Questo racconto ha un prologo (rappresentato dal sogno iniziale) troppo lungo e poco pertinente rispetto alla trama stessa. Altro racconto poco funzionale è quello di Giovanna, l’ultimo, che dovrebbe fungere da chiusura della raccolta. Si tratta di un dialogo fra due anziani fratelli: Giovanna appunto, 75 anni, e Sandro, 79. Il punto nodale di questa storia è la (potenzialmente) interessante digressione sull’importanza dei nomi: «I nomi, Sandro, non sono un dettaglio da poco o una casualità! È vero, non ce li scegliamo, al massimo tentiamo di adattarli storpiandoli con diminutivi o surrogati, ma sta a ciascuno di noi dargli il senso che ogni nome reca in sé e a riempirli dei nostri significati e del nostro modo di essere con la nostra vita».

Tale digressione però non viene sviluppata, anzi, viene troncata dal fratello della donna: «Giovanna, sorella adorata, ci rinuncio a comprendere: a quest’ora sono troppo stanco per starmene qui con te, quando mancano pochi minuti alla mezzanotte, e per continuare ad ascoltare questa dissertazione filosofica e filologica sul nome che portiamo».

Questa citazione porta a galla uno dei punti deboli di questo (e di altri pochi, per fortuna) racconti: l’inverosimiglianza dei dialoghi. Parliamo qui di due fratelli anziani che fanno i conti della propria vita; dovrebbero conoscersi bene e sapere molte cose l’uno sull’altra, eppure il loro modo di parlare risulta a tratti artificioso, non spontaneo:

«Giovanna non ti riconosco, sei sempre stata tu a dire che i nostri genitori sono stati troppo impegnati ad inseguire i propri obiettivi e a difendere i propri interessi: non hanno avuto tempo, né spazio mentale, né forse la capacità per poterci ascoltare e anche di comprendere il nostro malessere, tanto da aver fatto, tu ed io, di questa condizione d’abbandonati psicologicamente – certo non materialmente – il terreno sul quale la nostra relazione di fratello maggiore e sorella minore si è andata sviluppando in ogni istante della nostra vita, ingabbiando il nostro sentimento in una specie d’armatura alla quale nessuno dei due è mai potuto fuggire e nella quale io sono stato sempre quello che proteggo e tu, Giovanna, quella da proteggere!»

Altra nota negativa è la presenza di qualche refuso, di veri e propri errori sintattici (l’uso della virgola fra soggetto e predicato, soprattutto dopo un lungo elenco di soggetti) e l’uso massiccio di d eufoniche che a volte appesantiscono il testo. Ecco un esempio: «Benché provi a prestare attenzione ed abbia all’inizio pensato che possa trattarsi di uno scherzo, le parole pronunciate, ora dalla mamma, ora dalla nonna, appaiono ad Edda come suoni che hanno perso ogni significato».

Si può dire che Nomi di donna sia una raccolta di indubbio interesse, in grado di emozionare in più di un’occasione sia per le parole usate (nonostante una narrazione a tratti troppo elevata per l’occasione e delle frasi a volte troppo complesse e cariche di subordinate) sia per le tematiche affrontate. Qualche punto di debolezza e un editing non proprio eccezionale non hanno però consentito lo sviluppo completo di un testo per altri versi magnifico.

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