Addio a Francesco Rosi, regista di denuncia sociale

Si è spento ieri a Roma, all’età di 92 anni Francesco Rosi, tra i più grandi autori cinematografici che l’Italia ha avuto l’onore di avere. Ha raccontato il malaffare e  il potere italiano. Napoletano di nascita, Rosi era vedovo di Giancarla Mandelli, sorella della stilista Krizia; lascia una figlia, l’attrice Carolina Rosi. Memorabili i film Le mani sulla città, Il caso Mattei e Cristo si è fermato a Eboli.

Dopo Pino Daniele, Napoli piange un altro suo figlio illustre, il regista Francesco Rosi, scomparso ieri, 10 gennaio durante il sonno, in una recente intervista dichiarava di voler morire mentre non se ne accorgeva; è stato esaudito. Regista impegnato, regista di denuncia, regista di inchiesta, regista di critica sociale e politica. Definizioni queste, che purtroppo oggi non trovano i loro giusti interpreti nel panorama cinematografico italiano.

Basta guardare il capolavoro sulla speculazione edilizia a Napoli negli anni del boom economico, Le mani sulla città datato 1963 per comprendere la grandezza e l’attualità di Francesco Rosi: Eduardo Nottola, impresario edile, vuole presentarsi alle elezioni nelle liste della destra e avvalersi dei suoi appoggi politici per i suoi progetti di speculazione selvaggia nelle aree edificabili. Ma un vecchio stabile crolla causando morti e feriti. Il consiglio comunale chiede la creazione di una commissione di inchiesta e gli amici di Nottola non possono impedire lo scandalo. Ne vengono fuori vigliaccherie, corruzione, omertà, malcostume amministrativo. Il film  risente del periodo in cui si preparava la politica di centrosinistra e tuttavia non esclude un recupero del protagonista, che rappresenta una nuova classe borghese meridionale attiva.

Nato a Napoli il 15 novembre 1922, Rosi è figlio del direttore di un’agenzia marittima appassionato di cinema. A tre anni, il bambino vince un concorso fotografico indetto da una casa di produzione americana che cercava bambini somiglianti a Jackie Coogan (il bambino  protagonista del film di Chaplin, Il monello). Per la premiazione, padre e figlio sarebbero dovuti andare a Hollywood, ma la madre di Rosi si oppone al viaggio in America e sia il piccolo che il padre restano a Napoli. Rosi cresce e studia giurisprudenza, anche se  intraprende una carriera come illustratore di libri per bambini e inizia a lavorare per Radio Napoli, qui fa amicizia con Aldo Giuffré, Raffaele La Capria e Giuseppe Patroni Griffi, con i quali lavorerà molto spesso in ambito teatrale.

Grazie al teatro e alla sua tessera del partito comunista, Rosi entra in contatto con personalità come l’attuale presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Pian piano si avvicina al mondo del cinema: nel 1948 infatti Luchino Visconti lo assume come assistente per La terra trema. Il grande regista milanese capisce subito che il ragazzo ha talento e che è portato anche per la scrittura cinematografica e così lo coinvolge nella scrittura di film come Bellissima (1951) con Anna Magnani e Senso (1954), con Alida Valli. Rosi è aiuto regista anche in melodrammi come Tormento (1950) con Amedeo Nazzari, in film d’autore come I vinti (1953) di Michelangelo Antonioni, Proibito (1954) di Mario Monicelli, Domenica d’agosto, Parigi è sempre Parigi e Il bigamo di Luciano Emmer , con Marcello Mastroianni.

Francesco Rosi fa molta gavetta e finalmente nel 1958 è unico regista sul set del film La sfida con Rosanna Schiaffino e Angela Luce, ottenendo consenso di pubblico e di critica; nel 1959, dirige Alberto Sordi nel tragicomico I magliari, film grottesco  che termina la fase di formazione del regista partenopeo, con un Sordi sopra le righe. Il momento di mettere a punto uno standard stilistico-tematico destinato a durare negli anni è giunto: Rosi infatti parte dalla cronaca per  accogliere nuove ipotesi interpretative, come dimostrano i film Salvatore Giuliano (1962, Orso d’oro a Berlino e Nastro d’Argento in Italia), Il caso Mattei che si avvale di un linguaggio antitradizionale e originalissimo per raccontare un personaggio fondamentale della nostra storia, avente come protagonista il grande attore-feticcio Gian Maria Volonté, (1971, Palma d’oro a Cannes ex aequo con La classe operaia va in Paradiso, di Petri) e Lucky Luciano (1973).

Meno convincente è la pellicola Il momento della verità (1965), sorprendente e atipico il favolistico C’era una volta (1967) che, dato il percorso impegnato del regista, è passato immeritatamente in sordina; il fazioso antimilitarista, lontano dallo spirito del libro da cui è stato tratto, Un anno sull’altipiano di Lussu, Uomini contro (1970). Rosi si misura ancora con la letteratura con i film Cadaveri eccellenti (1976) tratto da Il contesto di Sciascia, Cristo si è fermato a Eboli (1979) dal romanzo di Carlo Levi, Tre fratelli (1981), che fanno pensare a I fratelli Karamazov, e Cronaca di una morte annunciata (1987) dal romanzo di Garcia Marquèz.

Il regista ritorna al filone inchiesta nel 1990, con Dimenticare Palermo nel 1990, viene coinvolto nel progetto  dal titolo 12 autori per 12 città, in cui racconta con un cortometraggio la sua Napoli. Il 1997, porta sul grande schermo La tregua che gli fa conquistare il suo ultimo David di Donatello come miglior regista e una candidatura per la sceneggiatura scritta con Sandro Petraglia e Stefano Rulli. Nel 2000 torna alla regia teatrale, e in particolare quelle di opere del repertorio di Eduardo De Filippo. Nel 2008, ottiene l’Orso d’Oro alla carriera al Festival di Berlino e  la Legion d’Onore. Il 12 maggio 2012, la Biennale di Venezia lo celebre con il Leone d’Oro alla carriera.

Indipendente e disinibito, irruente e vigoroso, lirico e razionale, l’inconsapevole fenomenologo Francesco Rosi ci ha regalato film di elegante fattura, pur essendo popolari nel contenuto, ha raccontato il malaffare italiano, facendone una questione morale e politica (perché fare cinema all’epoca di Rosi voleva dire fare politica), raramente scandendo nella demagogia, senza rinunciare alle emozione e al recupero della sfera privata (come dimostra il film Tre fratelli), alla voce della natura (Cristo si è fermato a Eboli), al gusto per il divertimento (C’era una volta), non lasciandosi tentare da esperienze sperimentali e d’avanguardia. Nel suo scavare a fondo per scoprire le radici del male, Francesco Rosi s’è dovuto arrendere all’ambiguità, non sempre rivelandoci la sostanza (In Salvatore Giuliano, ad esempio, siamo e non siamo a conoscenza della verità), distinguendosi dai neorealisti per il suo essere così accanito da perdere spesso di vista l’oggetto della sua indagine.

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