“Richard Jewell”, il nuovo granitico film di Clint Eastwood basato su una storia vera

A ottantanove anni e il quarantaduesimo film da regista Clint Eastwood assomiglia ormai a una delle sculture dei volti dei presidenti Usa scolpite nella roccia del Monte Rushmore in Dakota.

Non solo e non tanto nei lineamenti istoriati di rughe eppure dotati di un’espressione fiera e uno sguardo vivido, però, quanto nello stile delle sue messinscene che sono diventate sempre più essenziali, sobrie, inscalfibili, appunto granitiche. Repubblicano ostile ai liberal ma implacabile nel denunciare malefatte, zone d’ombra e ingiustizie tollerate dal fronte conservatore, l’autore di capolavori come “Un mondo perfetto”, “Gli spietati”, “Gran Torino”, “Mystic River”, “Million Dollar Baby” e tanti altri conferma, in effetti, anche nel nuovo “Richard Jewell” di volere e potere restare soprattutto “fedele a se stesso” come recita il titolo del bellissimo libro di interviste curato da Robert E. Kapsis e Kathie Coblentz recentemente pubblicato da Minimum fax.

Basterebbe del resto ritagliare una frase del dialogo pronunciata dall’avvocato difensore del malcapitato cittadino a cui il film è dedicato per capire di che pasta è fatto l’ex pistolero senza nome dei western di Leone: “Quelli non sono il governo americano. Sono tre coglioni che lavorano per il governo americano”.

Sulla falsariga della sceneggiatura di Bill Ray ispirata da un’esplosiva inchiesta di “Vanity Fair” lo storyteller Eastwood, il narratore di storie vissute da persone normali trascinate dal caso, la malizia o l’intrigo nel vortice della distruzione personale e sociale si dedica stavolta a un personaggio sgradevole, interpretato perfettamente da P. W. Hauser, il complessato trentatreenne soprannominato dai compagni di scuola Omino Michelin: illibato, solitario, collezionista di armi, poliziotto fallito, ancora domiciliato presso la madre (la strepitosa, come sempre, Kathy Bates), untuoso e volentieri schernito dalla gente, aveva trovato un posto tra le guardie giurate adibite alla sorveglianza del Centennial Park nel corso delle Olimpiadi di Atlanta del ’96.

Fortunatamente/sfortunatamente e proprio a causa della sua zelante pignoleria uno dei più goffi e inadeguati personaggi della galleria d’antieroi americani si troverà, nella realtà e nella finzione, catapultato nel giro di poche ore dal ruolo di osannato scopritore in extremis di un attentato bombarolo a sospettato numero uno dello stesso attentato.

Certamente il filone hollywoodiano dedicato ai guasti del circo mediatico, reso spesso folle e disumano dalla superficialità, il cinismo, l’ottusità del giornalismo scandalistico, i capetti incarogniti e le istituzioni (Fbi in primis), conta su una fitta serie di precedenti, a cominciare dal cult movie “L’asso nella manica” di Billy Wilder con Kirk Douglas: quello che distingue Eastwood è, peraltro, la diffidenza innata nei confronti di qualsiasi entità statalista e la fedeltà allo spirito “libertarian”, alimentato dalla filosofia politica anarco-individualista che non ha corrispettivi negli schieramenti europei tradizionali e quindi tutt’altro che familiare al pubblico nostrano.

L’altra faccia dell’epopea si materializza, così, nel calvario del vigilante, il classico uomo qualunque che continua a credere nonostante tutto nei principi costituzionali e non si capacita di come possa essere diventato il classico capro espiatorio.

Tutto fatti, nessun virtuosismo “artistico”, ritmo incalzante ma non survoltato alla maniera degli action di moda, centotrenta minuti di proiezione che scorrono via quasi senza il doping della musica: Jewell ampiamente scagionato è scomparso prematuramente nel 2007, ma per fortuna il vecchio Clint non lo ha dimenticato e non vuole soprattutto che lo dimentichino i connazionali di un grande paese che ama così tanto da poterlo quando serve criticare aspramente.

 

Richard Jewell

‘Tolo Tolo’, il nuovo film di Checco Zalone, tra convivialità e notazioni scorrette ed opposte

Resteranno delusi coloro che si sono accapigliati ancora prima dell’uscita dell’atteso film di Checco Zalone, Tolo Tolo, prodotto dalla Taodue di Pietro Valsecchi, che si dividono in quelli pronti a condannare il presunto spirito razzista, salviniano, anti-migranti, e quelli adusi a difendere la sua comicità politicamente scorretta.

Tolo Tolo: tra citazionismo e mescolamento di notazioni “scorrette”

Ma Luca Medici, alias Checco Zalone, non ha fatto una scelta di campo e in Tolo Tolo (Solo, solo) non manifesta alcuna fobia o insofferenza per i neri, gli sbarchi e i migranti né strizza l’occhio a Salvini. Anzi. Piuttosto mescola notazioni “scorrette” ad altre di segno opposto, è la sua miscela vincente e se vogliamo furba, anche se stavolta il risultato è meno riuscito rispetto ai suoi precedenti film; Tolo Tolo infatti si rivela un film leggero, godibile ma fa ridere meno del solito.

Zalone diverte a dispetto delle critiche stantie e noiose di alcuni critici abituati ad essere estasiati dal tetro e pesante bastian contrario di Nanni Moretti o al fazioso trasformismo Maurizio Crozza. Zalone invece sparisce per molto tempo, non cura i social, non compare in TV per poi sbucare all’improvviso con un nuovo film che riempie tutte le sale cinematografiche d’Italia battendo il suo stesso record di Quo Vado, dove Zalone compiva un’esperienza nella civilissima e progressista Norvegia.

Dal punto di vista formale Tolo Tolo risulta essere un film più elaborato dei precedenti, ma non altrettanto per quanto riguarda il soggetto e la sceneggiatura (scritta con Paolo Virzì); tuttavia la forza della pellicola risiede nell’abilità del regista di far credere che ad essere preso di mira è sempre qualcuno altro, non lo spettatore che lo guarda, e per questo che Zalone frega e scontenta tutti.

Tolo Tolo, come molti si aspettavano non parla di immigrazione e integrazione, bensì di emigrazione e convivialità, concetti pressocché sconosciuti ad intellettuali ed artisti nostrani. Facendo la spola a velocità massima tra opposto estremismi e centrismi, Zalone prende di petto argomenti attuali e spinosi ricorrendo anche al citazionismo e a riferimenti della storia del cinema non comprensibili o conosciuti da tutti: si va da Esther Williams a Pasolini, da Bertolucci a Spielberg, passando per Mary Poppins.

Trama del film di Zalone

La storia è quella di un imprenditore delle Murge che scappa in Kenya per sfuggire ai tormenti procuratigli dalla ex moglie, Equitalia e creditori vari, dove si improvvisa cameriere in un resort esclusivo, perché secondo lui, che ha rifiutato il reddito di cittadinanza per aprire un sushi restaurant, in Africa “è possibile continuare a sognare”. Lì incontra Oumar, cameriere con il sogno di diventare regista e la passione per quell’Italia conosciuta attraverso il cinema di Pasolini.

All’improvviso in Africa scoppia la guerra e i due sono costretti a emigrare, anche se Checco non punta all’Italia ma ad uno di quei Paesi europei che sono paradisi fiscali. A loro si uniranno la bella Idjaba e il piccolo Doudou (“come il cane di Berlusconi”)

Tolo Tolo è un road movie alla rovescia dove il burattinaio Zalone ne ha per tutti ma non parteggia per nessuno, e dove i politicamente corretti godono a vedere messi alla berlina i pregiudizi d’una volta; e i politicamente scorretti godono a vedere essere presi in giro i nuovi tabù intoccabili in un linguaggio senza veli. Così ognuno ride alle spalle dell’altro.

La sua satira dei pregiudizi degli italiani regge su una semplice ma efficace trovata: fa parlare un ragazzo d’oggi con le parole ingenue di pochi decenni fa, quando quei modi di dire e di pensare erano senso comune e lessico quotidiano, non solo al Sud. Sulla stessa lunghezza d’onda è la sua comicità fondata sui doppi sensi, come si usava nelle comitive di una volta e che oggi appare irriverente. Zalone è un finto ingenuo e triviale che non vuol convincere né fustigare nessuno, né propinare ideologie “corrette”, solo seminare qualche dubbio e strappare risate.

Non a caso in Tolo Tolo gli sfruttati neri sono perseguitati, ma non di rado si trasformano in sfruttatori; i politici italiani sono macchiette viventi, ma i poliziotti locali prendono mazzette più degli evasori nostrani; il Mussolini che è rimasto nelle nostre vene  è grottesco, ma purtroppo è vero anche che i trafficanti estorcono 3000 dollari a testa ad adulti e bambini per la pericolosa traversata; sul molo dove attraccano i barconi si fronteggiano a pari merito di sgradevolezza i tifosi del “cacciateli via” e quelli del “restiamo umani”.

Si può vivere insieme per fronteggiare problemi comuni (guerra, tasse, terrorismo, ex mariti o ex mogli) e abitudini universalmente riconosciute (come la “gnocca”) e non perché qualcuno ci viene a dire che bisogna stare tutti nella stessa casa, per costrizione oppure per contaminazione, ricordando sempre che molto spesso la realtà è una fake news.

 

‘I fratelli Sisters’: il western schizofrenico dal respiro antico di Audiard

Il nero che occupa l’intera superficie dello schermo è squarciato da uno sparo, poi due, poi tre; risuonano poco distanti due voci secche e concitate… ed ecco che dal buio della notte emergono le sagome spettrali dei fratelli bounty killers. Un memorabile prologo in medias res che apre il sipario su “I fratelli Sisters”, western di respiro antico intriso di schizofrenia moderna con cui il regista e sceneggiatore francese Audiard (“Sulle mie labbra”, “Il profeta”, “Un sapore di ruggine e ossa”) scava alle radici della mitografia americana per eccellenza.

Estranea sia alle repliche di maniera, sia alle revisioni snobistiche, la trasposizione sullo schermo di un romanzo del canadese Patrick deWitt (Arrivano i Sister, ediz. italiana Neri Pozza, 2012) costituisce l’aggiornata versione di un archetipo narratologico, il racconto del viaggio iniziatico dell’eroe -in questo caso una coppia di antieroi freudianamente traumatizzati dalla malefica figura paterna- alla ricerca d’identità e consapevolezza. Preceduti da una reputazione sinistra, il maggiore Eli (Reilly) più riflessivo e dubbioso e il minore Charlie (Phoenix) folle e scervellato braccano, torturano e trucidano dall’Oregon alla California le vittime designate dal misterioso boss soprannominato Commodoro fino al momento in cui decidono di risparmiare l’esaltato chimico Warm (Ahmed) convinto d’essere in possesso della formula infallibile per dragare l’oro dai corsi d’acqua e di pedinarlo nelle esplorazioni intraprese assieme al detective Morris (Gyllenhaal) che ha convertito alle utopie libertarie del proto-socialismo fourierista.

Nel climax di cavalcate e sparatorie, ma anche di situazioni estrose o insolite per un western affiora una forma di humour macabro, disseminato nel corso dell’azione o durante le pause dei bivacchi nonché abilmente incrementato quando dall’edenica ariosità dei grandi spazi (ricostruiti in Spagna e Romania) si arriva al frastornante caos della San Francisco ottocentesca gremita dalle torme di avventurieri richiamati dal miraggio della corsa all’oro.

In assenza di pedissequi ricalchi cinefili –Audiard ha un suo stile inconfondibile, basta notare per esempio il recupero vintage delle dissolvenze a iris- non si può in ogni caso disconoscere l’impronta cinica e disillusa dei Peckinpah, Penn, Altman e Cimino, capiscuola del Nuovo cinema americano tra la fine degli anni 60 e la metà degli 80: il cast a cinque stelle riesce infatti a rendere credibile e godibile, proprio come in quell’epoca rinnovatrice, lo scarto continuo tra la fantasia del racconto e il realismo degli sfondi, i barlumi di un’idea comunitaria e la spietatezza della caccia all’uomo. I fratelli che si chiamano “Sorelle”, in effetti, si battono ancora per le cattive cause in un paese allo stato selvaggio che nondimeno si sta trasformando lentamente, prefigurando mete d’ordine e democrazia e tentando di arginare la propria genetica violenza avvezza­ a distruggere tutto a cominciare dalle illusioni e la speranza.

 

Fonte:

I fratelli Sisters

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