‘Per le vie del Paradiso’, l’esordio cinematografico di Giuseppe Gimmi. Una dichiarazione d’amore al cinema di Fellini e Sorrentino

Giuseppe Gimmi ha 24 anni ed è di Fasano. L’anno scorso ha frequentato un corso di sceneggiatura presso lo “Spazio tempo” di Bari. La trama del film è la seguente.

Per le vie del Paradiso è la storia di un ragazzo pugliese nelle campagne degli anni settanta. Il ventenne Tonino Bianco è un contadino alle prese con il duro mestiere della terra. Una mattina Tonino si reca in una chiesa del territorio e mentre a passo lento si avvicina verso una tela, viene catapultato in una realtà diversa, simile al mondo dei sogni, dove immagina, di abbracciare attraverso un ricordo suo padre Tommaso, scomparso per una grave malattia.

Il chiacchiericcio sovrastante del popolo però si rivela come punto cardine nella vita di Tonino disorientando i suoi pensieri. Non si tratta di una mise en abyme, ma di una vera apertura al sogno che ricorda Ermanno Olmi (si pensi soprattutto a “Il segreto del bosco vecchio) e Fellini (si pensi a La voce della luna”).

La sorpresa positiva è che la sceneggiatura del film è di Gimmi. Non c’è nessuna trasposizione. Non ci sono alle spalle il romanzo di Buzzati, né il poema di Cavazzoni. È cinema di alta qualità. Da un lato abbiamo la capacità di sognare del protagonista e dall’altro invece la chiacchera impersonale heideggeriana  della gente.

Heidegger in “Essere e tempo” scriveva che l’inautenticità della vita contemporanea è data dalla chiacchiera impersonale, dalla curiosità, dall’equivoco. Nel film il sogno si staglia sull’inautenticità. La via maestra è segnata. È soltanto riappropriandosi dei sogni che si può vivere veramente, soltanto sapendo mischiare realtà e finzione, quotidianità e sogno a costo anche di non saper più distinguere il reale dal sogno.

Bisogna saper tenere i piedi per terra, saper rimanere ancorati per buona parte del tempo, ma talvolta bisogna anche saperli staccare, sapersi innalzare verso il cielo come nei racconti di fantasia di Gogol. Ci sono due modi opposti  di essere provinciali: 1) quello di approfondire le cose e di riuscire a guardarle in modo completamente nuovo. Ogni Recanati ha il suo piccolo Leopardi. Il provinciale in questione è un isolato che ha sete di conoscenza. Questo è un modo difficile e costruttivo di essere provinciale. 2) non discostarsi assolutamente dal conformismo e dalla mentalità comune del paese.

Questi sono i due poli opposti e Per le vie del Paradiso si gioca anche su questo discrimine. Da un lato avremo il chiacchiericcio che sfocia nel pettegolezzo maligno e dall’altro l’oggetto della calunnia.

La provincia mostra il suo lato terrificante quando l’ignoranza ha la meglio e rivela la sua vera essenza quando la solitudine sfocia nel talento, come in questo caso. Sullo sfondo una Puglia bellissima. Il film è ambientato negli anni settanta forse per prendere maggiormente le distanze, forse perché la vita è come una immagine che si può mettere a fuoco solo quando si è distanti.

Ciò che più colpisce è la visionarietà. Ma la cosa più importante è l’inafferrabilità del sogno. Qui il sogno è un mondo altro in cui può avvenire la comunione dei vivi e dei morti ma solo per poco. Non è facile lavorare con la materia onirica perché bisogna sapere far tesoro dei sogni o saperli creare dei sogni, saperli plasmare, saperli interpretare, saperli ricordare.

Ma Gimmi non si rifà a Freud, non lo cita  a sproposito. Ha la lungimiranza di guardare oltre. Uno dei suoi maestri è Sorrentino ed è sulla sua buona strada, ma il suo incedere è autonomo. Dimostra già una sua personalità, una sua maturità ed una sua originalità. Il film è qualcosa di unico nel suo genere. Tutto ciò è encomiabile.

L’Italia ha bisogno di creatività giovanile. Ha bisogno anche di giovani che sappiano rimanere a raccontare le bellezze e i paradossi della penisola, pur convivendo tra mille difficoltà. La visionarietà è un modo per gettare il cuore oltre l’ostacolo, per superare le contraddizioni insanabili del paese. Gimmi si dimostra un nuovo cavaliere del secchio del cinema, tra le difficoltà riesce a volare come il protagonista del racconto di Kafka.

(20) Per le vie del paradiso – Trailer – YouTube

 

Davide Morelli

‘Pinocchio’ di Matteo Garrone: tra realismo popolare e gotico

Un Pinocchio che lotta contro la propria riconoscibilità universale, che vuole smarcarsi dal peso di un archivio monumentale. Un film di grandioso impatto figurativo e visionario che rischia per questo di mitigare la capacità di emozionare.

Il film di un maestro, tuttavia, perché pochi registi come Garrone saprebbero sorreggere l’equilibrio tra una prima parte di tono realistico popolare e la seconda improntata al gusto esoterico-mostruoso del romanzo gotico e nessuno di riuscire a presentare un Benigni contenutissimo, ligio al ruolo di Geppetto e con la debordante vena istrionica sostituita da un’umanissima e scompigliata naiveté da poverocristo finto padre.

Rimarchevole è, in questo senso, la differenza di stile tra il lungo prologo dai cui primi piani e dettagli sembrano propagarsi in sala le luci, gli odori, i suoni di un’età e una società arcaiche, rozze, sporche e tribolate e la corsa verso sottofinali e finale caratterizzata, invece, da campi lunghi o volute labirintiche. Un’altra scelta sacrilega, ma –fatti salvi i gusti individuali degli spettatori- sostanzialmente riuscita è quella di avere abbandonato l’iconografia classica del presepe collodiano dei prati e vigneti, pievi e borghi dell’entroterra toscano in favore di scenari pugliesi tutti ulivi, masserie e castelli semidiroccati stagliati su marine evocanti rotte orientaleggianti.

A una prima visione, il film sembra un po’ carente di una qualità di non poco conto e cioè della capacità di commuovere, turbare, appassionare. Non di stupire o di scioccare, sia chiaro, perché la resa spettacolare garantita dalla fotografia, il montaggio, le scenografie, i costumi, i designer e gli effetti visivi resta costante; senza dimenticare che accanto a Benigni e all’inquietante faccia di legno del Pinocchio nient’affatto accattivante del piccolo Ielapi molti degli attori –in primis il Gatto e la Volpe Papaleo e Ceccherini, la Timo governante lumaca, il Corvo e la Civetta dei fratelli Gallo, il perfetto grillo parlante dell’ex “Ciribiribi Kodak” Marotta, il giudice-scimmia Celio- si dimostrano all’altezza delle strepitose maschere che ne esasperano le indoli e deformano i connotati.

Lo slancio trasgressivo del Garrone lo si può trovare, in ogni caso, in passaggi e soluzioni di primaria importanza: l’attacco, più aggiornato rispetto a quello delle infinite versioni precedenti del romanzo, alla pedagogia scolastica ultra-permissiva (montessoriana?) e alla magistratura per nulla all’altezza della sua conclamata missione d’imparzialità; l’accentuazione in senso horror degli episodi degli assassini e l’impiccagione di Pinocchio o la spaventosa mutazione degli scapestrati monelli in asini; la normalizzazione operata dalla fatina sull’istinto ribelle del burattino che diventerà giudizioso forse in senso conformista e piccoloborghese.

E’ come se il regista romano avesse conservato per se stesso, per il proprio ruolo nascosto tra le quinte teatrali dell’allestimento quello che, per esempio, ha tolto stranamente al personaggio più eversivo della compagnia, il Lucignolo che non ha particolare rilievo nell’economia drammaturgica del film.

Il romanzo di formazione deve recuperare, così, quasi nel sottotesto del percorso puramente estetico il suo portato di “conoscenza amara, crudele e senza luce della realtà” a suo tempo segnalato da una celebre lettura di Pietro Citati.

Laico e profano in superficie, il film riserva la sua ultima sorpresa nella conclusione che rispetta il climax diventato ormai archetipico della fiaba, ma fa trapelare alquanto coraggiosamente la metafora cristiana della meccanicità della persona illuminata dall’aspirazione a dotarsi di un’anima. La fatina come operatrice del Mistero Mariano, insomma, che presiede alla ri-nascita del bambino sacro in simbiosi con un padre (Geppetto-Giuseppe) vecchio e infecondo col quale, ovviamente, non si è mai unita.

 

Fonte:

Pinocchio

Dal romanzo al film: L’innocente, l’ultimo sguardo critico di Luchino Visconti

L’ultima opera del maestro Luchino Visconti prima di andarsene, e dopo essersi dedicato ad un primo montaggio. L’innocente (1976) non venne ritoccato né dai collaboratori di Visconti né dagli sceneggiatori Cecchi D’Amico e Medioli.

I titoli di testa del film riportano l’ultimo messaggio, l’ultimo saluto del regista più lirico che ha avuto il cinema italiano: le sue mani che sfogliano una vecchia edizione del romanzo L’innocente di Gabriele d’Annunzio. Cosa avrà spinto l’aristocratico regista a trasferire su pellicola il più tradizionale dei romanzi del poeta-vate? Forse i giudizi lusinghieri sul romanzo espressi, tra gli altri, da Marcel Proust, scrittore molto amato da Visconti e di cui avrebbe voluto realizzare La ricerca del tempo perduto? In effetti, a differenza de Il piacere, primo romanzo decadente e post-naturalista della nostra letteratura, L’innocente si muove tra naturalismo e decadentismo, (guardando ai grandi romanzi russi), e proprio questo discrimine tra le due categorie storico-critiche (specialmente l’ultima) probabilmente ha attratto Visconti insieme all’atmosfera crepuscolare e dimessa rispetto alle precedenti opere.

Tale supposizione trova riscontro nel secondo periodo della produzione del regista, caratterizzato da un certo gusto per il decadentismo.Tuttavia sono il disagio interiore e la gelosia del protagonista, Tullio Hermil, ricco ed aristocratico uomo che tradisce la propria moglie, che proiettano il romanzo nel Novecento, anticipando la figura dell’inetto sveviano e ad attrarre Luchino Visconti.

Vi sono profonde differenze sostanziali e narrative tra il libro e il film:nel romanzo Tullio è sposato con Giuliana e hanno due figlie, nel film l’infelice coppia non ne ha, la figura quasi invisibile di Teresa Raffo, amante di Tullio e proposta nel film come presenza indipendente e addirittura giudicante del comportamento e del gesto di Tullio che uccide il figlio di Giuliana concepito con lo scrittore Filippo D’Arborio, dopo averlo esposto al gelo durante la notte di Natale. Ma soprattutto, mentre D’Annunzio lascia sopravvivere Tullio al suo crimine, Visconti lo rende suicida, in quanto secondo il regista l’aristocratico conservatore è incapace di scendere a compromessi con la modernità, con l’emancipazione femminile, soprattutto dopo il rifiuto di Teresa Raffo che lo indica come “mostro” escludendo qualsiasi possibilità di amarlo ancora. Certamente Tullio non si toglie la vita per rimorso ma perché, da perfetto superuomo, il quale si considera al di sopra della legge, e convinto esponente di un mondo che vuole plasmare il ‘resto’ del mondo, non può accettare la propria fine e quindi preferisce disporre lui della sua vita, di fronte al fallimento e alla decadenza.

Se L’innocente dannunziano è un romanzo-confessione/giustificazione che mira a raccontare un male inesorabile, un odio invincibile, sia mentale che morale che attanaglia l’ateo e dongiovanni Tullio tra ritorni ad un’equivoca bontà di matrice tolstoiana e continui tradimenti, L’innocente viscontiano è un sottile ritratto della Roma umbertina e del suo clima culturale,da questo punto di vista Visconti non si allontana dal suo leitmotiv: il crollo di un mondo, di una società filmati attraverso la sconfitta e l’agonia esistenziale di uno o più individui che ne rappresentano la classe vigente. Pur curando l’aspetto strettamente umano, le dinamiche relazionali,la condizione femminile (l’aborto in particolar modo), Visconti pone la sua raffinata lente d’ingrandimento sul male di Tullio e sul suo non far nulla per tenerlo a bada, per eseguire il requiem di un’epoca.

Non c’è spazio per approfondimenti di tipo psicologico ne L’innocente, Visconti piuttosto privilegia gli arredamenti principeschi, gli abiti d’alta sartoria, accessori preziosi, quasi a voler evidenziare ancora di più l’atmosfera di morte che pervade il film (allontanandosi anche per quanto riguarda questo aspetto dal romanzo).
Le nette differenze tra romanzo e film hanno suscitato non poche perplessità tra la critica, in realtà la rilettura che propone Visconti mostra coerentemente continuità con molte delle sue opere precedenti ( si potrebbe fare un parallelo tra Tullio e Ludwing, entrambi personaggi tragici, votati ai miti di grandezza) proprio il romanzo di D’Annunzio, usandolo come pretesto per raccontare, attraverso un linguaggio bellissimo, anche altro. Questa è la vera tragedia e Luchino Visconti ne è il maestro.

 

L’innocente-scheda film
Anno: 1976
Durata: 135′
Genere: Drammatico
Regia: Luchino Visconti
Fotografia: Pasqualino De Santis
Musica: Franco Mannino
Temi musicali tratti da: Sinfonia Concertante di W. Amadeus Mozart
Sceneggiatura: Suso Cecchi D’Amico, Enrico Medioli, Luchino Visconti
Cast: Laura Antonelli (Giuliana), Giancarlo Giannini (Tullio Hermil), Jennifer O’neil (Teresa Raffo), Marc Porel (Filippo D’Arborio), Massimo Girotti (conte Stefano Egano), Rina Morelli (madre di Tullio).
Costumi: Piero Tosi
Scenografia: Mario Garbuglia
Produzione: Rizzoli Film

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