‘Di un’ingannevole bellezza. Le ‘cose’ dell’arte’, l’aporeticità dell’arte secondo il filosofo teoretico Massimo Donà

Per troppo tempo la filosofia italiana, ancora nella seconda metà del secolo XX, ha patito giudizi ingenerosi indotti dalla vulgata diffusa dalla cultura neo-azionista, stando alla quale, a causa dell’egemonia neo-idealista nella prima metà del secolo ‘breve’, il sapere teoretico del nostro paese sarebbe stato connotato da un tratto provinciale e da marginalità speculativa. In seguito, data la marcia trionfale dell’analitica anglosassone, la speculazione italiana, nonostante qualche nome di prestigio, non sarebbe stata più in grado di colmare il gap d’origine. Non si tratta qui di voler proclamare primati, ma ci pare indubitabile, alla luce del dibattito in corso in tema, che lo schema storiografico esposto, sia infondato e fuorviante. Attorno ai grandi nomi del pensiero italiano del secondo Novecento si sono formate vere e proprie scuole che, sia pur il più delle volte controcorrente rispetto all’indirizzo generale del pensiero europeo, hanno dato ottima prova di sé. Basti qui fare, tra gli altri, i soli nomi di Luigi Pareyson, Emanuele Severino e Massimo Cacciari. Tra i filosofi italiani contemporanei Massimo Donà occupa un posto di rilievo. Egli si è formato dapprima con Severino e, successivamente, con Cacciari, Vitiello e Sini. Sta perseguendo, con coerenza, un percorso teoretico originale e fuori dal coro. Nella sua ultima pubblicazione, Di un’ingannevole bellezza. Le ‘cose’ dell’arte, edita da Bompiani, riapre la discussione sul tema che ha presentato in Teomorfica. Sistema di estetica, uscito nel 2015 per i tipi dello stesso editore milanese.

Donà, lo ha ricordato Mario Perniola nel suo recentissimo, Estetica italiana contemporanea, ha sviluppato una concezione aporetica dell’arte: essa è il luogo dell’enigma e, per questo, può indicare all’uomo contemporaneo un modo di vivere l’aporia che non induce allo scoramento nichilista ma, al contrario, rende capaci di euforia, di ben sopportare la vita. Dei tre topoi estetici attraversati in Teomorfica, solo uno pare essere in grado di garantire, a dire del filosofo, il futuro all’arte e alla bellezza: il topos tomista, i cui esiti novecenteschi sono leggibili, tra gli altri, nelle opere di Marcel Duchamp, René Magritte e Man Ray. Pertanto, i saggi che compongono il libro, proseguono il discorso, già intrapreso, su tale via a partire dal rinvenimento del mistero costituito dalla bellezza.

La bellezza ci pone di fronte alla sacralità delle cose, al loro non essere riducibili alla dimensione di mezzi-per, legati a significati e finalità date. Ogni oggetto bello è, innanzitutto, semplicemente colto nella sua dimensione di esistente, di presenza. In ogni espressione della bellezza si palesa quella struttura che Tommaso riteneva esser propria di Dio. Ciò vuol dire che ogni cosa, se dotata di bellezza, sarà cosa e insieme Dio, particolare e universale, essere e nulla. La bellezza si configura per Donà essenzialmente come inganno: essa è sempre doppia e ambigua. Il pensatore veneziano rileva come nell’arte i distinti riescano ad esibire il loro non essere affatto distinti. Ne ebbero contezza Novalis e Breton: entrambi consapevoli che il furore ermetico-alchemico aveva permesso

di sciogliere le morte contrapposizioni, di sciogliere, cioè, il metallo vile […] e farlo diventare per una vera e propria alchimia del verbo […] oro puro.

Il furor divampa anche nella creazione artistica. Arte come magia finalizzata a smuovere il noto, il de-finito, figlio del dominio del logos, al fine di alludere allo sfondo magico-poetico del mondo. Per Novalis l’uomo è in rapporto con le parti costitutive dell’universo: sta alla nostra attenzione indirizzarci verso l’una o l’altra, far prevalere un rapporto dato. Eros è fuoco che alimenta le azioni magiche, pertanto l’arte era, in illo tempore, espressione chiarissima del fare magico. La ratio calcolante ci impedisce di averne piena coscienza. L’immaginazione non è, come Kant avrebbe voluto, semplice facoltà, ma forza incondizionata che ci congiunge simpateticamente al tutto.

Lo comprese nella sua disputa animico-tellurica contro lo spirito logocentrico, il cosmico monacense Ludwig Klages:

Il fondamento […] può rivelarsi solo là dove la coltre categoriale familiare all’intelletto sappia accoglierlo dismettendo l’habitus che, solo, sembra in grado di garantire risultati solidi e ben fondati.

L’arte autentica, come la magia, ci dice di un’opposizione assoluta vivente in ogni cosa, ci dice di un’ impossibile che, facendo, genera un limitato quale presenza dell’illimitato. Nel Seicento, in pieno Barocco, ne ebbe sentore Giambattista Basile con il suo Lo cunto de li cunti. Nei suoi quarantanove racconti si susseguono alterazioni della catena causale, che rendono possibile l’esplicarsi del mondo alla rovescia. Esso ha i tratti di uno specchio deformante che, in realtà, è profonda descrittiva della vita, del suo mistero, molto più di quanto lo sia qualsiasi resoconto di fatti reali. La fiaba ed il racconto fantastico risultano massimamente ‘veri’ in misura inversamente proporzionale alla loro plausibilità.

Il fantastico delucida la flebile distanza che distingue l’esperienza dalla fantasia, dicendo come il noto contenga sempre l’ignoto. Il Barocco e il fiabesco, per Donà, invitano a rovesciare il quadro sistematico approntato da Platone e da buona parte della filosofia classica. Nel Seicento, nella letteratura del secolo d’oro, nel Don Chisciotte torna a darsi ciò che Bruno già sapeva: è la natura ‘individuale’ a mostrare il sigillo divino. Il cavaliere dalla trista figura, emblema per antonomasia del sapere altro, non poteva che essere ‘malinconico’ (nel senso attribuito alla malinconia da Dürer). Egli era incapace di accettare le inderogabili ed apodittiche leggi che dominano la vita. Nato nell’età del ferro, il suo agire tendeva a ripristinare l’età dell’oro. In considerazione di ciò l’importante è che la spirale dell’azione non trovi mai ‘un fine’, e neppure una fine.

Tale visione è presente nel teatro di Shakespeare, nel Sogno d’una notte di mezza estate e nella Tempesta. Il bosco diviene l’ambientazione prediletta di azioni insensate, folli, non-logiche o, comunque, attestanti un’altra logica. Del resto, nei racconti mitici di tutti i popoli, il bosco dà ricovero alle passioni amorose e alla cerca del Sé. Non è casuale che tale paesaggio d’anima abbia attratto il trascendentalista Emerson e il suo discepolo Thoreau, che nelle foreste nord-americane visse al fine di dimostrare che ognuno può farsi protagonista di un’esperienza realmente unica e irripetibile e che non vi sono modelli. Il bosco è al centro della narrativa di Buzzati, tanto nel Segreto di bosco vecchio quanto in Barnabo delle montagne. Nello scrittore bellunese, l’ambiente boschivo e montano diviene luogo di possibili iniziazioni, oltre il dominio della coerenza e del progresso, fondati entrambi sull’ideale dell’efficacia. Per Buzzati il mistero è sempre davanti ai nostri occhi. Così, la goccia d’acqua, protagonista di un suo bellissimo racconto, sale i gradini di una scala, testimoniando l’esistenza di fatti naturali che non si comportano in quanto tali. La goccia dice l’irruzione di una dimensione ignota nel mondo regolare dei fenomeni fisici. Lo scrittore porta alla luce, come in ogni arte autentica, il tratto inconcettualizzabile del reale, già annunciato nella Tempesta di Shakespeare. In essa nulla, a cominciare dalla tempesta iniziale, è ciò che sembra essere, domina l’incantesimo e la metamorfosi di ogni cosa mostra che ogni ente è manifestazione del ni-ente.

La custodia del nulla di ente, del ni-ente, dell’origine, è affidata alla bellezza, questa la sua meraviglia, come rammentano le mirabolanti avventure di Alice pensate da Carroll e discusse magistralmente da Donà. La bellezza è libertà e, proprio in funzione di ciò, richiede il coraggio dell’azzardo, dell’euforia e della serena sopportazione. L’esperienza estetica ri-propone, per queste ragioni, nella contemporaneità, la medesima interrogazione originaria della filosofia, in quanto determinantisi come modi dell’unico possibile inizio di ogni discorso che, in quanto veritativo, sarà destinato ad un’infinita erranza.

In tale modalità, l’arte potrà tornare a mostrare l’eccedenza del reale, e sarà allora davvero, per usare le parole di Gianni Carchia, altro grande teoreta italiano di cui poco si discute, ‘arte della filosofia’. Il danzatore è figura paradigmatica dell’arte della filosofia. Questi è simile a Talete, protofilosofo che, per guardar le stelle, cadde in un pozzo, irriso da una servetta tracia. Il milesio, mirando all’alto, nel precipitare rimase senza respiro e, per un attimo, senza pensiero, pervaso, come ha rilevato di recente Romano Gasparotti, da un sentimento, a partire dal quale il pensiero può rinascere e rigenerarsi.

 

Giovanni Sessa-L’intellettuale dissidente

Antonio Gramsci, pensatore “popolare” e nemico dell’ortodossia comunista

La genialità e l’attualità dell’intellettuale, del pensatore “popolare” Antonio Gramsci (Ales, 22 gennaio 1891 – Roma, 27 aprile 1937; popolare poiché riteneva che l’intellettuale faccia parte di una casta e dè troppo lontano dal popolo, e “non si può separare l’homo sapiens dall’homo faber”, e in questo senso, Il partito comunista, per lui, è intellettuale collettivo), sta nell’aver corretto con la sua filosofia della prassi le interpretazioni positivistiche e deterministiche di Marx, fondendo volontarismo e dialettica storica, ponendosi in tal senso sulla stessa lunghezza d’onda di Giovanni Gentile.

Conosciamo davvero la vicenda politica di Gramsci, fondatore del Partito Comunista Italiano, e perché oggi dovremmo rileggere questo poliedrico pensatore, in particolare l’Ordine Nuovo e i Quaderni, quest’ultimi interessanti anche sul piano linguistico? Nel discorso che va componendosi attraverso queste opere, è possibile ravvisare una potente alternativa al Pensiero Unico, alla nostra società paludata incapace di dare prospettive sul futuro, che il filosofo torinese ha più volte presentato come l’ideologia del capitalismo avanzato. Sin dal celebre editoriale della rivista La città futura, del 1917, intitolato Odio gli indifferenti, Gramsci si schiera contro chi si lascia andare al fatalismo, alla rassegnazione e al cinismo di fronte a una realtà percepita come ingiusta:

<<Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. È la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica>>.

Parole più che mai piene di significato in questa epoca anestetizzata e individualista, manipolata dai mass media e soprattutto, cosa ancora più sconcertante, senza valide alternative. Ci interessa fortemente l’Antonio Gramsci intellettuale-letterato-filosofo, e i suoi giudizi sulla letteratura italiana (nonché sul teatro di Luigi Pirandello):

«Ogni popolo ha la sua letteratura, ma essa può venirgli da un altro popolo […] può essere subordinato all’egemonia intellettuale e morale di altri popoli. È questo spesso il paradosso più stridente per molte tendenze monopolistiche di carattere nazionalistico e repressivo: che mentre si costruiscono piani grandiosi di egemonia, non ci si accorge di essere oggetto di egemonie straniere; così come, mentre si fanno piani imperialistici, in realtà si è oggetto di altri imperialismi. Hanno fallito nel compito di elaborare la coscienza morale del popolo, non diffondendo in esso un moderno umanesimo, tanto gli intellettuali laici quanto i cattolici: la loro insufficienza è uno degli indizi più espressivi dell’intima rottura che esiste tra la religione e il popolo: questo si trova in uno stato miserrimo di indifferentismo e di assenza di una vivace vita spirituale; la religione è rimasta allo stato di superstizione […]. l’Italia popolare è ancora nelle condizioni create immediatamente dalla Controriforma: la religione, tutt’al più, si è combinata col folclore pagano ed è rimasta in questo stadio».

Sono rimaste famose le parole di Gramsci critico letterario su Alessandro Manzoni, lo scrittore più studiato nelle scuole e probabilmente il più popolare, che però secondo Gramsci è una dimostrazione del carattere non nazionale-popolare della letteratura italiana:

«Il carattere aristocratico del cattolicismo manzoniano appare dal compatimento scherzoso verso le figure di uomini del popolo (ciò che non appare in Tolstoj), come fra Galdino (in confronto di frate Cristoforo), il sarto, Renzo, Agnese, Perpetua, la stessa Lucia […] i popolani, per il Manzoni, non hanno vita interiore, non hanno personalità morale profonda; essi sono animali e il Manzoni è benevolo verso di loro proprio della benevolenza di una cattolica società di protezione di animali […] niente dello spirito popolare di Tolstoi, cioè dello spirito evangelico del cristianesimo primitivo. L’atteggiamento del Manzoni verso i suoi popolani è l’atteggiamento della Chiesa Cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di immediatezza umana […] vede con occhio severo tutto il popolo, mentre vede con occhio severo i più di coloro che non sono popolo; egli trova magnanimità, alti pensieri, grandi sentimenti, solo in alcuni della classe alta, in nessuno del popolo […] non c’è popolano che non venga preso in giro e canzonato […] Vita interiore hanno solo i signori: fra Cristoforo, il Borromeo, l’Innominato, lo stesso don Rodrigo […] il suo atteggiamento verso il popolo non è popolare-nazionale ma aristocratico».

In effetti l’atteggiamento di Manzoni verso i suoi personaggi è di tipo paternalistico e classista, intriso di un cristianesimo superficiale, ma a proposito di religione, questa per Gramsci costituisce un bisogno metafisico per gli uomini, ma i socialisti devono sostituire la religione con la filosofia come bisogno primordiale ed istintivo. Tornando alla questione politica, Gramsci aveva diversi nemici nel PCI e ha trovato la morte da uomo libero, non in un penitenziaro come molti ancora spacciano per la verità. Il 27 aprile 1937 erano addirittura scaduti da qualche giorno i termini della libertà condizionale imposta all’ex deputato dopo la sua scarcerazione; Togliatti scriveva che i Quaderni sarebbero stati trafugati dalla cella la sera stessa della morte di Gramsci. Il PCI dunque aveva quindi bisogno di un martire da utilizzare nel dibattito politico successivo al termine della seconda guerra mondiale e l’autorevole figura di Gramsci-vittima era perfetta per questo fine. A tal proposito le lettere che Gramsci inviò alla moglie Giulia contengono una serie di riflessioni di fondamentale importanza per l’esegesi di un certo approccio al comunismo.

Di estremo interesse e di grande attualità sono le considerazioni che Gramsci fa a proposito della questione meridionale, analizzando il periodo dello sviluppo politico italiano dal 1894, anno dei moti dei contadini siciliani, seguito nel 1898 dall’insurrezione di Milano, poi repressa a colpi di cannone dal governo Di Rudinì. Secondo Gramsci, la borghesia italiana, cui fa capo Giovanni Giolitti, di fronte all’insofferenza delle classi dei contadini meridionali e degli operai del Nord, piuttosto che allearsi con le forze agrarie, scelse di favorire il blocco industriale-operaio, con la conseguente scelta del protezionismo doganale. La società meridionale, inoltre è costituita da tre classi fondamentali: braccianti e contadini poveri, politicamente inconsapevoli; piccoli e medi contadini, che non lavorano la terra ma dalla quale ricavano un reddito che gli consente di vivere in città. Per poter spezzare questo blocco è necessaria la formazione di un ceto di intellettuali medi che interrompa il flusso del consenso fra le due classi estreme, favorendo in questo modo, secondo Gramsci, l’alleanza dei contadini poveri con il proletariato urbano.

In disaccordo con “il reazionario” (dal punto di vista di Gramsci), Benedetto Croce, il fondatore del PCI,  ritiene che il critico abruzzese abbia fornito alla borghesia italiana gli strumenti culturali più raffinati per delimitare i confini fra gli intellettuali e la cultura italiana, da una parte, e il movimento operaio e socialista dall’altra. Opponendosi anche alla concezione fatalistica e positivistica del marxismo, presente nel vecchio partito socialista, secondo la quale il capitalismo necessariamente era destinato a crollare da solo, Gramsci ritiene che tale concenzione mascherasse l’impotenza politica del partito della classe operaia, incapace di prendere l’iniziativa per la conquista dell’egemonia. Togliere il potere ad una classe per consegnarlo ad un’altra.

Tra le maggiori opere dell’intellettuale sardo ricordiamo: Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Il Risorgimento, Note sul Machiavelli sulla politica e sullo stato moderno, Socialismo e fascismo. L’Ordine Nuovo 1921-1922, La costruzione del Partito comunista. 1923-1926, Americanismo e fordismo, Il Vaticano e l’Italia, Il Vaticano e L’Italia, Critica letteraria e linguistica, Disgregazione sociale e rivoluzione. Scritti sul Mezzogiorno, Piove, governo ladro.

Giovanni Gentile, filosofo della prassi e intellettuale scomodo

Il nostro tempo mette a tacere diversi autori scomodi, considerandoli inattuali, verso i quali nutriamo dei pregiudizi ideologici, ma il cui pensiero stimola il nostro intelletto e si rivela fonte di spunti interessanti. Perché non si studia o si studia poco e male uno dei più grandi intellettuali del Novecento, quale è stato Giovanni Gentile (Castelvetrano, 29 maggio 1875 – Firenze, 15 aprile 1944)? Perché il filosofo grazie al quale si spiega tutta la filosofia italiana del secolo scorso, a partire da Antonio Gramsci è stato condannato all’oblio? Uno dei motivi di questa damnatio memoriae è da ricondurre alla costituizione di mode anche in filosofia (gli autori che vanno di moda sono quelli che giustificano sempre il tempo in cui viviamo, con i loro misfatti ed iniquità), oltre che, ovviamente, all’appartenenza di Gentile al regime fascista.

Perché Giovanni Gentile è stato un pensatore importante? Prima di tutto a lui si deve la revisione del pensiero marxista (come già è avvenuto in Francia grazie a Sorel), criticandone il materialismo storico e dialettico, e fornendoci una lettura in chiave idealistica, mostrandoci un Marx non stereotipato, più vicino alle filosofie di Hegel piuttosto che a quelle del positivismo di Comte. L’opera di Gentile su Marx, La filosofia della prassi (1899) è il più grande testo su Marx mai apparso in Italia e segna un grande dibattito: se in Italia, per tutta la prima metà del Novecento, Marx viene letto come filosofo della prassi, lo si deve alla geniale interpretazione di Gentile. Lo stesso Marx di Gramsci è un “Marx attualista”, gentiliano. La revisione di Gentile inoltre, identifica in Marx un “idealista metafisico”.

Gentile identifica nel concetto di prassi il segreto metafisico di Marx, ovvero l’assunto per cui la realtà è sempre risultato storico di un fare: è Gegenstand e non Objekt, come recita la prima delle tesi su Feuerbach (tradotte da Gentile per la prima volta in italiano). La realtà quindi non è materia data a prescindere dal soggetto, ma esito di un porre, produzione, esito pratico dell’agire sociale: si ha il soggetto se si guarda all’azione nel suo sviluppo, e si ha l’oggetto se si guarda l’azione nel suo risultato. L’oggetto è il soggetto stesso che si è oggettivato. Marx chiama la propria filosofia della praxis “materialismo” perché la materia è la metafora che significa azione rivoluzionaria. Confrontandosi con il prassismo di Marx, Gentile ha dunque posto le basi per il codice attualistico e per la riforma della dialettica hegeliana.

Nato a Castelvetrano (Trapani) nel 1875, Giovanni Gentile si è formato presso l’università di Pisa, ha rivolto la sua attenzione soprattutto verso Kant, Rosmini, Gioberti, Hegel. Negli ultimi anni del secolo Gentile approfondisce, da un lato, Spaventa e, dall’altro, Marx, che esamina nel testo La filosofia di Marx (1899). Attraverso la nozione marxiana di prassi liberamente rivisitata e mediante la lettura di Vico e degli idealisti tedeschi, Gentile delinea la sua concezione della soggettività trascendentale intesa come “attività creatrice” che collega soggetto e oggetto in un fare che si manifesta nella storia. In questi anni Gentile stringe una forte amicizia con Benedetto Croce che durerà fino a quando la differenza tra lo storicismo crociano e l’attualismo gentiliano si farà troppo marcata. Nel 1903 Gentile delinea la propria posizione filosofica che prende il nome di attualismo e ch’egli svilupperà in una serie di saggi teorici fino al 1922; nel frattempo si dedica anche alla ricerca storico-filosofica con gli studi: Le origini della filosofia contemporanea in Italia (1903-1914), Dal Genovesi al Galluppi (1903), Il pensiero italiano del Rinascimento (1920), Studi vichiani (1915), Gino Capponi e la cultura italiana del secolo decimonono (1922). Nello stesso periodo il filosofo affronta anche le questioni della pedagogia: Sommario di pedagogia come scienza filosofica, La riforma dell’educazione; Educazione e scuola laica; Preliminari allo studio del fanciullo; e successivamente quelli estetici in Filosofia dell’arte.

Nel 1911 esce L’atto del pensare come atto puro, nel 1913 La riforma della dialettica hegeliana, nel 1916 Teoria generale dello Spirito come atto puro e dal ’17 al ’22, il Sommario di logica come teoria del conoscere. Nel dopoguerra Gentile tratta i problemi politici in Guerra e fede (1919) e diviene uno dei principali esponenti in campo intellettuale; viene infatti nominato ministro della Pubblica Istruzione ed elabora, nel 1923, un’importante e discussa riforma della scuola. Negli anni successivi si occupa quasi esclusivamente di organizzazione della cultura, è direttore dell’Enciclopedia Italiana e presidente della Accademia d’Italia. Dopo la crisi del 25 luglio 1943 si apre ad un ripensamento dal punto di vista sociale della sua filosofia che prende forma nell’opera Genesi e struttura della società (1946). Muore a Firenze nel 1944, barbaramente ucciso dai partigiani antifascisti.

Gentile ha appreso da Marx il considerare l’uomo come faber fortunae suae ed è proprio ne La filosofia di Marx che, discutendo il pensiero marxiano, Gentile sostiene che la storia è l’esito mai definitivo del fare umano.

La pedagogia per Giovanni Gentile si identifica con la filosofia. Di particolare importanza e attualità sono le tesi sul rapporto tra maestro e scolaro, caratterizzato da un dualismo che deve risolversi in unità attraverso la comune partecipazione alla vita dello spirito che, attraverso la cultura, va dall’educatore verso l’educando e lo riassorbe nell’universalità dell’atto spirituale. Nella vita della scuola il maestro occupa il posto centrale e in lui si esprime il modello formativo spirituale e culturale che deve essere d’esempio all’alunno.
La scuola (costosa, ma probabilmente tra le migliori che l’Italia abbia mai avuto) che emerge dalla dottrina pedagogica gentiliana è molto legata alla tradizione umanistico- letteraria ed è caratterizzata da un ordinamento gerarchico e centralistico. Una scuola aristocratica dunque, pensata per i migliori, e rigidamente suddivisa a livello secondario in un ramo classico-umanistico per le classi dirigenti e in uno professionale per il popolo ed introducendo l’insegnamento religioso a livello primario. Bisogna sottolineare che Giovanni Gentile non giunse nella scuola italiana come riformatore al Ministero per meriti fascisti: quando Mussolini ottenne l’incarico di governo dal re volle subito dimostrare che il fascismo era disponibile ad accettare la collaborazione di tutti gli uomini di valore. Di Gentile, Mussolini non sapeva neppure il nome. Glielo propose per la pubblica istruzione il sindacalista Lanzillo, e il futuro dittatore si trovò davanti un Gentile intransigente che pose due condizioni al fine di accettare la proposta: che fossero ristabilite le pubbliche libertà e introdotto l’esame di Stato nelle scuole secondarie. Mussolini ovviamente promise.

Nonostante l’oblio a cui è stato sottoposto soprattutto dall’establishment culturale politicizzato italiano (soprattutto nelle scuole e nelle università), la caratura culturale, morale e civile di Giovanni Gentile rimane inalterata e viva (come dimostrano i numerosi studi a lui dedicati come quelli di Sasso, Romano, Mecacci e tanti altri), anzi cresce col passare degli anni ed anche tanti dei suoi critici di ieri e cominciano finalmente a rivedere le loro posizioni e a riconoscere il valore di un grandee dignitoso pensatore che non è mai andato come tanti altri, alla ricerca di alibi per evitare le conseguenze della propria scelta politica quando la situazione si faceva pericolosa, uno scomodo intellettuale che ha saputo riformare Hegel attraverso l’illuminante rilettura di Fichte tramite Marx: in questo modo l’identità hegeliana di pensiero ed essere diventa identità garantita dall’atto in atto del pensiero pensante. Come ha affermato Masullo, Gentile si confronta con tutti ma non fa mai i conti con Fichte: perché, in fondo, era per molti versi il suo alter ego, ossia l’autore che più gli assomigliava.

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