Addio al grande Zygmunt Bauman, teorico della ‘società liquida’

Una chiave di lettura originale, non banale e certamente discutibile per comprendere il mondo contemporaneo. Con Zygmunt Bauman scompare non solo un grande intellettuale, ma forse il più importante costruttore di lenti che ci hanno permesso di osservare il mondo in modo differente.

La sua ideologia laica è stata costruita sul concetto di liquidità, analizzata come caratteristica fondamentale del postmoderno. Nessuna categoria valida nel passato può essere applicata in un presente che sfugge ad ogni possibile definizione. Tutto è viscido, sfuggente e questa liquidità imperante non può non coinvolgere il tessuto sociale in ogni sua componente. Il soggetto diventa a sua volta liquido ed è incapace di intessere relazioni stabili. Tutto è soggetto al fluire. Idee, progetti, visioni del mondo, politica, persino le relazioni amorose. Il collante che tiene unito tutto è il consumo. La necessità di consumare e la volontà di ottenere il diritto di consumare.

La liquidità allora assume caratteristiche diverse perché “il consumismo non consiste nell’accumulare beni ma nell’usarli e quindi nello smaltirli per fare posto ad altri beni da usare”. Ed è questa la logica che abbraccia tutto e tutti. Comprare, consumare, buttare. Non solo nella realtà, ma anche nella virtualità dove non sono i veri beni ad essere oggetto di consumo, ma anche i semplici like. In più la realtà virtuale ha il merito di “ridurre la pressione che la vicinanza non virtuale ha l’abitudine di esercitare e detta anche il modello per qualunque altra forma di prossimità che è destinata a uniformare i propri pregi e difetti sugli standard virtuali”.

La liquidità, che trova il suo ambiente naturale nell’economia di mercato, genera nuovi nemici e pericolose paure in tutti gli uomini. Così il diverso, lo straniero, diventa bersaglio privilegiato di campagne di odio. Bauman ha scritto moltissimo nell’ultimo periodo al riguardo schierandosi apertamente a favore dell’accoglienza e contro l’Europa dei muri che colpevolizza le vittime.

È difficile comprendere la portata del pensiero di Bauman perché viviamo sommersi nella realtà da lui descritta, ma non si può non apprezzare la grande lucidità ed originalità che tiene insieme i pezzi di un puzzle complicatissimo chiamato postmodernità.

La scomparsa di Bauman ci lascia orfani di un modo di concepire la conoscenza che non appartiene più al nostro secolo.

Jean-Paul Sartre, dieci citazioni per ricordarlo

Molto si è scritto su Jean-Paul Sartre (Parigi, 21 Giugno 1905 – Parigi, 15 Aprile 1980), filosofo controverso, politicamente impegnato, che in tanti hanno cercato di inquadrare e collocare dove più faceva comodo. Ma perché Sartre è stato così importante questo filosofo francese, soprattutto negli anni in cui sono esplose le vere rivoluzioni culturali e sociali? Quali sono state le questioni che ha sollevato? Quale responsabilità collettiva bisognava avere a quei tempi? Che poi sono anche i nostri, quelli di oggi?

Sartre ha posto al centro della sua riflessione l’infelicità e la solitudine dell’uomo, che è profonda e non conosce tregua. Ed è la solitudine dell’uomo che si incontra e scontra con altri soggetti umani, provocando ora amore, ora odio. Una solitudine che poneva e pone delle domande. Parliamo di un uomo che, in una società moderna come quella borghese, che non ha eliminato i contrasti tra le classi, ha appoggiato la classe operaia elevandola a soggetto dell’umanità, difendendone i diritti, gli unici ad essere ritenuti giusti.  Un uomo che ha scelto la letteratura come risposta alla realtà, cercando di fuggire quanto più possibile dall’errore di porre un muro con gli altri. Il mondo sognato dal filosofo era, notoriamente, quello della conversione di ognuno, della ”rivoluzione permanente”, dell’uomo ”da fare”, che getta i fondamenti per una nuova morale da costruire.

Sartre ha inteso come un impegno l’attività di ”esprimere il mondo” perché l’uomo di cultura, il filosofo, deve porsi come funzionario dell’umanità , al servizio di essa , uscendo finalmente dall’isolamento borghese in cui era confinato.

Di seguito, alcune delle sue più famose citazioni che indubbiamente fanno riflettere:

1. Per molto tempo ho preso la penna per una spada.

2. Gli oggetti son cose che non dovrebbero commuovere, poiché non sono vive. Ci se ne serve, li si rimette a posto, si vive in mezzo ad essi: sono utili, niente di più. E a me, mi commuovono, è insopportabile. Ho paura di venire in contatto con essi proprio come se fossero bestie vive.
Ora me ne accorgo, mi ricordo meglio ciò che ho provato l’altro giorno, quando tenevo quel ciottolo. Era una specie di nausea dolciastra. Com’era spiacevole! E proveniva dal ciottolo, ne son sicuro, passava dal ciottolo nelle mie mani. Sì, è così, proprio così, una specie di nausea nelle mie mani.

3. L’insieme storico decide in ogni mutamento dei nostri poteri, prescrive i loro limiti al nostro campo d’azione e al nostro avvenire reale; condiziona il nostro atteggiamento nei confronti del possibile e dell’impossibile, del reale e dell’immaginario, dell’essere e del dover essere, del tempo e dello spazio. E’ a partire da esso  che decidiamo a nostra volta dei nostri rapporti con gli altri, cioè del senso della nostra vita e del valore della nostra morte.

4. È dunque questa, la Nausea: quest’accecante evidenza? Quanto mi ci son lambiccato il cervello! Quanto ne ho scritto! Ed ora lo so: io esisto — il mondo esiste — ed io so che il mondo esiste. Ecco tutto. Ma mi è indifferente. È strano che tutto mi sia ugualmente indifferente: è una cosa che mi spaventa. È cominciato da quel famoso giorno in cui volevo giuocare a far rimbalzare i ciottoli sul mare. Stavo per lanciare quel sassolino, l’ho guardato, ed è allora che è incominciato: ho sentito che esisteva. E dopo, ci sono state altre Nausee; di quando in quando gli oggetti si mettono ad esistervi dentro la mano. C’è stata la Nausea del «Ritrovo dei ferrovieri» e poi un’altra, prima, una notte in cui guardavo dalla finestra, e poi un’altra al giardino pubblico, una domenica, e poi altre. Ma non era mai stata così forte come oggi.

5. Non ci sono bambini”innocenti”.

6. La pace non è né democratica né nazista: è la pace.

7. Mi si dia qualcosa da fare, qualsiasi cosa… È meglio che pensi ad altro, perché in questo momento sto per recitarmi la commedia. So benissimo che non voglio far niente: far qualche cosa è creare dell’esistenza — e di esistenza ce n’è già abbastanza.

8. A Napoli ho scoperto l’immonda parentela tra l’amore e il Cibo. Non è avvenuto all’improvviso, Napoli non si rivela immediatamente: è una città che si vergogna di se stessa; tenta di far credere agli stranieri che è popolata di casinò, ville e palazzi. Sono arrivato via mare, un mattino di settembre, ed essa mi ha accolto da lontano con dei bagliori scialbi; ho passeggiato tutto il giorno lungo le sue strade diritte e larghe, la Via Umberto, la Via Garibaldi e non ho saputo scorgere, dietro i belletti, le piaghe sospette che esse si portano ai fianchi. Verso sera ero capitato alla terrazza del caffè Gambrinus, davanti a una granita che guardavo malinconicamente mentre si scioglieva nella sua coppa di smalto. Ero piuttosto scoraggiato, non avevo afferrato a volo che piccoli fatti multicolori, dei coriandoli. Mi domandavo: «Ma sono a Napoli? Napoli esiste?»

9. A che serve arrotare un coltello tutti i giorni se non lo si usa mai per tagliare?

10. Il lavoro migliore non è quello che ti costerà di più, ma quello che ti riuscirà meglio.

Io, Pee Gee Daniel, osservatore di esseri umani

Salve, mi presento: il mio nome è Pee Gee Daniel. Anche se questo, a ben vedere, già non è vero. Voglio dire: il nome con cui firmo le mie opere, come forse si può intuire, non è registrato in alcun ufficio anagrafe. Si tratta di uno pseudonimo, ovvero di un nome d’arte (o nom de plume, più propriamente). E allora, visto che ci siamo, cominciamo proprio da qui… Come mai uno pseudonimo? Come mai Pee Gee Daniel?

Chi è Pee Gee Daniel

Quella che da sempre mi è apparsa evidente è la discrasia che solitamente intercorre tra persona e artista, tra l’individuo storico-empirico che campa la vita giorno per giorno (“Signor Grigiastro, Qualunque dei Qualunqui” per dirla con Gadda) e la sua trasfigurazione artistica con la quale – chissà perché – non capita quasi mai che collimi. È appunto per ribadire una tale legge che sin da subito scelsi di camuffarmi con un soprannome letterario che rimarcasse definitivamente le differenze ontologiche tra me autore e me povero tapino di tutti i giorni. Perché se l’uomo qualunque vive, gode, soffre, si annoia, si entusiasma, va a fare la spesa, paga luce e gas, prende lo Spritz al bar con gli amici, fa addormentare i figli quand’è ora, è poi il distillato più rarefatto e sottile di tutta questa sua esistenza ordinaria che andrà invece a sostanziare i suoi scritti, rendendolo interprete, a seconda delle volte, più o meno efficace del proprio tempo, nonché delle eterne dinamiche umane.

Io, Pee Gee Daniel, parto da studi filosofici e la mia narrativa altro non è che la prosecuzione pratica di un mio pensamento teorico che da allora si è andato formando. Ammetto che sia più comodo, e anche più gradevole, raccontare una storia con trama, costruire attitudine e psicologia dei personaggi, perdersi in descrizioni e digressioni piuttosto che prestarsi con diligenza alle regole disciplinari della metafisica, ma – fatto salvo tutto questo – quel che ancor più mi premeva era applicare la mia personale visione del mondo in corpore vili, per così dire, passando cioè dai postulati universali alle vicende particolari e feriali in cui essi si riverberano.

Nel corso della storia della letteratura le visioni dell’uomo che si sono via via avvicendate sono state quella animista, quella teistico-morale, quella religiosa, quella umanistica e infine quella antropologica. La mia scrittura tenta il passo ulteriore e definitivo verso un punto di vista prossimo alla zoologia, ovvero puramente etologico.

Questa è un po’ la mia cifra stilistica: osservare gli umani pressapoco come l’entomologo osserva e annota gli schemi comportamentali della comunità di ditteri che tiene sotto esame. Tali osservazioni vengono da me condotte quasi sempre attraverso quella sorta di lente grandangolare che è il grottesco. Amo rintracciare storie e personaggi che qualcuno dei loro aspetti renda in qualche maniera fuori dal comune, sposando una teoria del tutto personale che vuole che proprio attraverso l’eccezione si confermi meglio la regola e che ciò che ci appare insolito, eslege, straordinario serva in realtà a mettere in luce situazioni e momenti anche piuttosto comuni, resi magari più visibili (e risibili) da quell’apparente carattere di eccezionalità.

Non tenendo conto di articoli vari, raccontini, poesie, brevi monologhi disseminati in numerose raccolte e antologie, ho pubblicato sinora una decina di libri. Tutti di narrativa, fuorché un saggio di filosofia che tenta di scoprire i meccanismi e le ragioni della comicità. Visto che, per l’appunto, l’atteggiamento ludico, irriverente, ironico-socratico e ridanciano è uno dei fondamentali di tutta la mia produzione letteraria.

Il mio modello di partenza è il romanzo ottocentesco con il suo inconfondibile stile internazionale e interculturale. Meglio sarebbe parlare però di un’azione programmaticamente parodistica su quello stesso pattern iniziale, che mi dà modo di ricorrere a una forma talora persino ampollosa per trattare (per giustapposizione) contenuti non di rado deteriori e riprovevoli. Oltre a ciò ho scritto il libretto di un musical dal titolo Cogli l’attimo, con le musiche di Fabio Zuffanti e arrangiamenti di Luca Scherani, e curo da qualche anno un corso teatrale all’interno di un carcere alessandrino insieme all’attore Omid Maleknia, grazie al quale abbiamo allestito e portiamo in tournée Spettacolo d’evasione, che vede una mezza dozzina di detenuti parlare del trauma carcerario e dei motivi che li hanno condotti in galera attraverso brillanti pezzi cabarettistici.

Attualmente sono in attesa che la casa editrice Kipple pubblichi il mio nuovo romanzo Freakshow, incentrato sulla storia di un manipolo di fenomeni da baraccone (tanto per restare in tema di eccezionalità), e sto portando a termine un copione teatrale cucito addosso a tre bravissimi giovani attori.

Sandro Bonvissuto: ‘Dentro’

Dentro (Einaudi 2012) è il libro d’esordio di Sandro Bonvissuto, classe 1970, romano laureato in filosofia, scrittore dalla personalità magnetica.

Sandro Bonvissuto: l’esistenza di un singolo uomo

Il testo è suddiviso in tre racconti lunghi accomunati dalla prima persona, il cui scopo è ripercorrere tre tappe fondamentali della vita di un individuo unico e irripetibile pur nella sua quotidiana banalità.

Il primo racconto, il più lungo, più articolato e meglio scritto dei tre, dal titolo Il giardino delle arance amare (ma avrebbe potuto chiamarsi direttamente Dentro, perché questo internamento è il leit motiv del testo) porta il lettore all’interno di un carcere dove il protagonista si trova rinchiuso per un reato che probabilmente non ha commesso e che al lettore non è dato conoscere. Qui seguiamo lo scorrere lentissimo dei giorni dentro una struttura che niente ha di umano e che, decisamente, non è fatta a misura d’uomo. Bonvissuto, più che narrare una storia, racconta frammenti di immagini carcerarie da cui trae spunto, da laureato in filosofia qual è, per parlare dei massimi sistemi. L’elemento fondamentale di questo primo racconto lungo è proprio questa “astrazione coi piedi per terra”, tratto fondamentale della persona e dello scrittore Bonvissuto. Pur rimanendo, sia nell’uso del linguaggio sia nelle tematiche, nel mondo reale fatto di muri, di odori, di pelle e polvere, l’autore trascina il lettore in lunghe e appassionate riflessioni sul tempo, sullo spazio, sulla vita e sulla morte. Riflessioni per nulla banali, e ottimamente contestualizzate nell’elemento “carcere”. Qui, infatti, dentro questo posto, lo spazio e il tempo assumono caratteristiche peculiari. Riguardo il primo elemento, il passo che segue descrive bene in poche righe l’alienazione di un luogo fatto appositamente per escludere, per separare chi sta fuori (i buoni, i cittadini, gli umani) da chi sta dentro (i cattivi, i fuorilegge, i non-completamente-umani): «Alla fine delle scale c’era un’altra porta; la superai ma ero sempre dentro. Ancora controlli. Altra gente. Vidi una porta più piccola che dava su un posto all’aperto. Uscii, però mi ritrovai sempre dentro.»

Il secondo elemento, il tempo, viene trattato ancora più intensamente: viene riportato alla sua forma originaria, strappato allo schematismo tipico di chi vive in società, fatto di secondi, minuti e ore. Il tempo assume per l’essere-umano-dentro la forma originaria dell’alternarsi di giorno e notte:

«Lì dentro contavano solo i giorni. Dovrebbe essere così ovunque, pensai. L’unica misura valida del tempo dovrebbero essere i giorni, appunto. Tutti gli altri parametri dovrebbero essere considerati quello che sono: convenzioni sociali. Invenzioni. Gli esiti deliranti del perenne tentativo dell’uomo di dominare in qualche modo la sua più grande ossessione: il tempo. […] La vita è i giorni; non le ore né gli anni.»

Altre tematiche fondamentali di questo primo racconto riguardano la giustizia, le condizioni dei carcerati, i rapporti umani che si stabiliscono fra individui che, al di fuori di una struttura contenitiva/punitiva come il carcere, mai sarebbero entrati in contatto fra loro. Rancori, odi, affetti, contrasti, tutto in questo luogo al di fuori del mondo e del tempo (eppure al contempo dentro il mondo e il tempo) risulta distorto, contorto, piegato/piagato da un elemento ineluttabile: il fatto che lì dentro bisogna starci per forza, a prescindere dalla propria volontà, dai propri bisogni, dalle proprie impellenze; da ciò che fuori, là dove la vita prosegue ignara di quegli individui, c’è in serbo proprio per quegli individui.

Il secondo racconto si intitola Il mio compagno di banco, e qui l’autore torna indietro nel tempo (anche in termini di linguaggio si passa al passato remoto) affrontando tematiche legate ai ricordi, all’amicizia e, soprattutto, alla formazione dell’identità personale. Il protagonista, alle soglie dell’adolescenza, si ritrova catapultato in una scuola superiore nuova, dove non conosce nessuno. Il caso lo porta al banco insieme a un ragazzo che, da quel singolo e preciso incontro, diventa per tutto l’anno il suo migliore amico. La singolarità individuale si spezza in quel momento, e l’uno si fa due: la dimensione della persona si amplia, si modifica, si tende verso l’esterno a inglobare quell’altra singolarità individuale che è l’altro da sé. I due amici fanno tutto insieme, e arrivano al punto di voler chiedere alla stessa ragazza di stare con entrambi – perché loro sono uno, sono la prima persona, sebbene al plurale: “noi”. La difficoltà di questo periodo storico sta nel rischio di perdersi: «A forza di stare uno vicino all’altro, avevamo smarrito inconsapevolmente e per sempre le nostre rispettive identità a vantaggio di una nuova dimensione collettiva e duplice. Per questo dovevamo muoverci con circospezione, per non allontanarci troppo l’uno dall’altro.»

Una fusione, dunque, quasi in grado di scardinare una delle basi della filosofia occidentale classica: il principio d’identità e non contraddizione. Questa fusione azzardata è proprio tipica, infatti, del periodo adolescenziale, quello in cui, non a caso, si instaurano i rapporti più intensi con altri individui. Rapporti che, inevitabilmente, creano conflitti tramite i quali si dovrebbe arrivare a una forma superiore di consapevolezza di sé.

Il terzo e ultimo racconto, Il giorno in cui mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta, tratta a suo modo sempre il tema dell’identità. Stavolta il protagonista è bambino – ha sei anni circa – e si trova in difficoltà perché i suoi amici sanno andare in bici e lui no. Il bambino si trova davanti al primo “grande” ostacolo della sua vita, ossia l’apprendere qualcosa che non sembra poter venire appreso per semplice osservazione e imitazione. Il dramma della non accettazione e dell’incapacità di fronteggiare da solo questa situazione porta il bambino a chiedere aiuto al genitore, una figura fondamentale in questo periodo ma assolutamente confusa. I “grandi”, infatti, sono ancora una volta l’altro da sé, ciò che ancora non si è, ciò che è perfetto e onnisciente: l’incarnazione più simile a quel vago concetto astratto della divinità. E proprio il padre – quello stesso padre che, freudianamente, qualche anno più tardi diventerà punto di contrasto – arriva in questo momento storico a risolvere il problema nel modo più semplice. Bellissimo e intenso il dialogo fra padre e figlio:

– Dimmi solo che devo fare.
– Non lo so figliolo, nessuno lo sa.
– Pensi che ce la farò?
– Diciamo che è probabile, ma non è sicuro.
– Mi aiuterai?
– Non posso, la solitudine è una condizione indispensabile.
– E che farai?
– Starò qui, e sarò testimone dell’incredibile.

Questi tre racconti che formano il libro Dentro, apparentemente legati solo dalla prima persona narrante, sono invece tasselli fondamentali per conoscere tre momenti diversi e nodali della vita di una persona. Sebbene solo nel primo racconto siamo effettivamente “dentro”, negli altri due assistiamo a ciò che avviene all’interno di un individuo, i cui confini spaziali sono determinati dall’esistenza della pelle (che separa il fuori dal dentro), mentre quelli temporali sono dati dalla memoria, fonte primaria dell’identità personale.

In questo modo, con un linguaggio coerente e lirico, ma mai troppo astratto né patetico, Bonvissuto ci porta dentro il mondo di questo singolo essere umano che noi tutti siamo.

10 frasi per amare Italo Calvino

Italo Calvino è stato un uomo che «con la sua immaginazione ha contribuito all’ autocostruzione continua del cosmo. Uno scrittore innovativo, sperimentale (Le Cosmicomiche, Il castello dei destini incrociati), un autore-chiave, necessario per poter comprendere la letteratura del ventesimo secolo. Italo Calvino è stata una delle voci, o forse sarebbe più corretto dire “penne” al contempo più lucide e disincantate della letteratura italiana contemporanea, tentando di sdrammatizzare con il suo carisma unico anchei più importanti contenuti filosofici. Impostosi nel panorama letterario italiano, come il più originale tra i giovani scrittori, in seguito alla pubblicazione della raccolta dei Racconti (1958), e del volume I nostri antenati (1960), che comprende la trilogia di romanzi fantastici-allegorici sull’uomo contemporaneo: Il visconte dimezzato (1952), Il barone rampante (1957), e Il cavaliere inesistente (1959), nel 1955 approda all’importante Il midollo del leone e traduce Le fiabe Italiane che pubblica nel 1956.

Tra il 1959 e il 1967 dirige, insieme a Vittorini, la rivista culturale letteraria «Il Menabò», in cui pubblica interventi di tipo etico quali Il mare dell’oggettività (1959) e La sfida del labirinto (1962). Nel 1963, anno della Neoavanguardia, pubblica, oltre a Marcovaldo, La giornata di uno scrutatore, con cui si chiude il ciclo apertosi all’incirca un decennio prima.

1.“L’uomo porta dentro di sé le sue paure bambine per tutta la vita. Arrivare ad non avere più paura, questa è la meta ultima dell’uomo.”

2.“Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane.”

3.“L’eros è un programma che si svolge nei grovigli elettronici della mente.”

5 “Io penso che il divertimento sia una cosa seria.”

6 “La fantasia è un posto dove ci piove dentro.”

7 “Tutto è già cominciato prima, la prima riga della prima pagina di ogni racconto si riferisce a qualcosa che è già accaduto fuori dal libro.”

8. “La vita d’una persona consiste in un insieme d’avvenimenti di cui l’ultimo potrebbe anche cambiare il senso di tutto l’insieme.”

9. “La disobbedienza acquista un senso solo quando diventa una disciplina morale più rigorosa e ardua di quella a cui si ribella.”

10 “Le imprese che si basano su di una tenacia interiore devono essere mute e oscure; per poco uno le dichiari o se ne glori, tutto appare fatuo, senza senso o addirittura meschino.”

 

 

 

“Grandi momenti”: Krauspenhaar nichilista

Grandi momenti (Neo edizioni, 2016) è l’ultimo romanzo di Franz Krauspenhaar (Le cose come stanno, Era mio padre, Biscotti selvaggi). Narrato in prima persona e al tempo presente, è categorizzabile come romanzo psicologico.

I grandi momenti “prima” e “dopo”

Il grande spartiacque della vita di Franco Scelsit, classe 1960,e protagonista di Grandi momenti, è l’infarto subito l’anno precedente alla narrazione. Su quella vita trascorsa fra libri autentici ma dalle basse tirature, romanzi best seller ma pubblicati sotto pseudonimo, donne occasionali, bevute con amici e corse in macchine di lusso, Franco si ritrova a riflettere nel periodo attuale, dominato dalla convalescenza da un collasso che gli è quasi costato la vita.

In questo lungo presente, fatto di visite, ginnastica riabilitativa, birra ghiacciata durante le “cardiopizze” (cene insieme agli altri ospiti dell’ospedale, tutti infartuati), le giornate passano così, senza senso, con l’unico vero aggancio alla vita costituito dalle domande che, inevitabilmente, vengono a sorgere dopo un evento del genere.

Ciò che colpisce della narrazione di Grandi momenti è la stranezza di quello che si definisce in gergo come “arco di trasformazione del personaggio”: la prassi prevede che a inizio storia il protagonista abbia un difetto principe che gli impedisce di uscire dallo stallo in cui si trova; solo durante lo svolgimento della trama, poi, riesce a trovare uno sbocco dal suo vicolo cieco e a superare l’asperità che gli si è presentata. Ecco, in Grandi momenti questo arco di trasformazione risulta distorto, quantomeno dimidiato e parziale. Franco Scelsit, uomo palesemente in crisi di mezza età e sull’orlo della depressione più cupa, non sembra essere in grado di uscire dal suo fatal flaw: piuttosto il post infarto lo conduce a riflettere, a portare alla luce questo suo malessere prima indecifrabile; malessere persistente anche nel “prima”, quando l’uomo lo scaricava comprando auto di lusso (una Jaguar tanto agognata e poi distrutta, perché non è con oggetti materiali che si esce dalla depressione) e dissipando soldi.

Fransco Scelsit, l’uomo del Novecento

Il mal di vivere montaliano di Franco Scelsit sembra invincibile, come risulta da diversi tentativi (andati a male) di autoanalisi. Si pensi ai seguenti passi, il primo a inizio romanzo e il secondo verso la fine: «Tutto ciò che tocco è malato, il morbo è la mia cifra, l’alienato è il mio ritratto». «Poche tirate e la sigaretta è finita, come finisce un sogno, un amore, una speranza, come finisce tutto».

Di frasi come queste il romanzo è pieno: sono sentenze fatalmente nichiliste, che non lasciano spazio alcuno a una speranza consolatrice, a un futuro luminoso. E che il futuro non sia luminoso per Franco Scelsit lo conferma il suo ostinato tentativo di annegare nel passato. Dalla scelta delle macchine alla frequentazione di personaggi solo over 50 (solo una certa Mara, 24 anni, sembra affacciarsi nella sua vita, ma lui la ricaccia indietro perché la differenza d’età è troppa), dall’ascolto di musica fondamentalmente vintage al rifiuto totale di usare computer e telefonino (nonostante si parli qui di uno scrittore di professione): tutto è rigorosamente “anni Ottanta”, forse nel tentativo disperato di (ri)vivere una vita e una giovinezza ormai perdute, e un periodo storico ottimista o comunque speranzoso.

Quest’assenza di speranza nel presente e il relativo rifugio in un passato “glorioso” si mischiano, a volte ma non sempre, con qualche sprazzo di ottimismo, cosparso però anch’esso di un senso di tragedia e fatalismo:

«Ma io me ne frego della società, Mario. E della politica. Questa politica è morta, si è suicidata. Io vado avanti sbagliando e riprovandoci e sbagliando ancora, come Beckett. Lo sbaglio è l’unica cosa che non mi tradisce mai. Io ho visto il baratro, ci sono caduto dentro, e sono ancora vivo. Più vivo che mai. E allora si sopravvive. Forse. Anzi, come dice un mio amico “si resiste”. Se sopravvivi al baratro, è come se fossi resuscitato».

C’è un vago richiamo all’abisso nietzscheano qui, e probabilmente non è casuale, visto il senso di nichilismo generale di Grandi momenti. Verso la fine del libro Franco decide quasi di cambiare tutto, a 50 anni suonati, e di partire per l’America. Ma anche l’America, vista trent’anni prima, è un’America diversa: «L’America è passata. È stata ed è passata. E tutto senza di me».

Eppure basterebbe forse poco per cambiare le cose, ma i propositi di costruirsi una famiglia (lui stesso afferma di volere figli, e di poter anche essere un ottimo padre), di rimettersi in gioco, di cambiare aria svaniscono nel nulla, non arrivano mai a compiersi. E resta sospesa così anche una delle frasi più belle dell’intero libro: una frase che sembra la speranza in un nuovo rinascimento, e che però non si avvera: «Si trova sempre qualcuno simile a noi. Basta un sorriso, a volte, e si divide la colpa di essere vivi».

Questo senso di peccato originario che pervade l’intera storia è tutto qui: nella colpa di essere vivi. Colpa inevitabile, e quindi tanto più schiacciante e paralizzante.

Grandi momenti è dunque uno straordinario e, al contempo, paradossale inno alla vita, che conta su una scrittura viscerale, amorale, a tratti rozza e scurrile, sicuramente non adatta a palati fini e che godono nell’aureo distacco dalla realtà. Ma chi, guardandosi intorno, vede ovunque le ombre di una crisi che non è solo economica, bensì esistenziale, non potrà che amare questo piccolo capolavoro.

Cos’è una ragazza: tra identità e memoria

Cos’è una ragazza (Guanda editore, 1997; titolo originale Kiss & Tell) è un romanzo-saggio dello scrittore svizzero Alain de Botton (Come Marcel Proust può cambiarvi la vita, L’arte di viaggiare, Una settimana all’aeroporto, tutti tradotti in Italia da Guanda). Narrato in prima persona, il testo affronta tematiche filosofiche di grande rilievo, come i rapporti fra gli individui e il ruolo della memoria nella creazione dell’identità personale, a partire da fatti, eventi e oggetti quotidiani. Il testo mostra una vasta gamma di citazioni sia dalla filosofia sia dalla letteratura, oltre a una investigazione approfondita del mondo delle biografie professionali.

Cos’è una ragazza? Una ragazza e la sua vita

Accusato dalla sua precedente fidanzata di mancare di empatia per qualsiasi cosa «al di fuori del lobo del suo orecchio», e affascinato dalle biografie dei personaggi illustri, il protagonista (che resta anonimo per tutto il libro) di Cos’è una ragazza decide di scriverne una sulla ragazza di cui è innamorato, la londinese Isabel Rogers, conosciuta in modo del tutto casuale a una festa. Abbandonato quasi subito il tentativo di ricostruire la vita della ragazza in maniera cronologica e definitiva (poiché «abbiamo tante vite quante sono le persone con cui conversiamo» e, soprattutto, poiché vuole evitare di “scomparire dietro a una cronologia impersonale della vita di Isabel”), il narratore tenta successivamente di tratteggiare la vita della sua amata tramite i diversi aspetti della sua personalità, senza però chiuderli in compartimenti stagni, bensì tentando di interconnetterli. Cerca dunque di ricostruire i suoi “alberi genealogici” (cap. III) e la sua “biografia culinaria” (cap. IV); cerca di osservare “il mondo attraverso gli occhi di un altro” (cap. VII; poiché «l’epitome dell’empatia» è proprio «la capacità di guardare il mondo attraverso gli occhi di un altro»), di indagarne la “psicologia” (cap. IX) anche attraverso la comprensione delle differenze fra “uomini e donne” (cap. VIII); arriva addirittura a entrare a fondo nel “privato” (cap. VI), chiedendo informazioni più o meno intime sulle precedenti relazioni amorose, con tanto di date riguardanti le prime esperienze sessuali.

Il narratore, pur premettendo che «un biografo si mette in ombra come un timido conduttore televisivo che sistema gli ospiti e li fa parlare al momento giusto, ma raramente si intromette per dare giudizi», si lascia andare eccome a giudizi e opinioni sulla vita della sua fidanzata. È proprio da qui che si comincia a intuire come questo “rozzo” tentativo di empatizzare con una persona tramite un elenco dei suoi pensieri, delle sue attività, dei suoi ricordi sia necessariamente destinato al fallimento. Mentre il romanzo-saggio vaga alla deriva “in cerca di una fine” (cap. X), alla “conclusione” (cap. XI) si arriva improvvisamente quando «Isabel una mattina si svegliò e si stufò di essere compresa». La fine di questa volontà di comprensione segna, probabilmente, anche la fine della relazione amorosa: «E credo che dovremmo smettere di vederci».

Una vita e il suo mistero

Il motivo del fallimento di questa volontà di comprensione globale della vita di una persona è rintracciabile nello sfogo finale di Isabel, vessata da domande troppo personali e volte a stabilire, nunc et semper, chi e cosa in definitiva lei sia:

«C’è molto di me che non capisco e, molto francamente, non voglio capire. Non vedo perché tutto dovrebbe essere così chiaro per te, come se le vite della gente potessero essere riassunte come in quelle stupide biografie. Sono piena di stranezze che non hanno senso per me, né dovrebbero averne per te. […] Voglio essere compassionevole, ma non mi piacciono abbastanza le persone. Voglio essere felice, ma so che la felicità rende stupidi. Voglio usare i trasporti pubblici, ma la macchina è più conveniente».

Cos’è una ragazza si conclude, dopo questo sfogo, con una semplice ma terrificante constatazione del narratore: «Umiliato, tacqui».

Ed è proprio con questo silenzio, questo non poter dire altro, non poter rispondere che il protagonista arriva all’illuminazione: ossia che non è possibile racchiudere le in(de)finite sfaccettature di un’intera vita, di un’intera personalità all’interno di fogli scritti. Dalla nascita alla morte (per non parlare delle considerazioni postume che si possono fare), una persona è destinata a non essere compresa appieno: proprio come accade dell’arte, il mistero di una vita resta qualcosa sempre da svelare, qualcosa che va al di là del mero dato.

E questo silenzio finale, questo tacere del narratore di fronte all’incommensurabilità della vita ricorda una delle sentenze più pregnanti, fondamentali e discusse della filosofia occidentale del Novecento: «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere», del filosofo della logica e della filosofia del linguaggio Ludwig Wittgenstein.

‘Le lacrime di Nietzsche’, di Irvin Yalom

Le lacrime di Nietzsche (Neri Pozza, 1992), dello psichiatra e scrittore statunitense Irvin D. Yalom (Sul lettino di Freud, La cura Shopenhauer, Il problema Spinoza), è un romanzo storico molto accurato sulla vita e le opere (fino al 1882) del filosofo tedesco e sulla sua misteriosa malattia. Questo libro presenta una grande collezione di aforismi e citazioni dalle opere di Nietzsche, soprattutto da Umano, troppo umano La gaia scienza, e già da questo si può capire l’enorme lavoro “chirurgico” affrontato dall’autore per la sua scrittura.

Le lacrime di Nietzsche: l’incontro tra il filosofo tedesco e lo psichiatra austriaco Josef Breuer

 

L’incontro tra Breuer e Nietzsche si apre subito come una partita a scacchi, in cui entrambi cercano di far uscire l’altro allo scoperto: Breuer deve convincere il filosofo a farsi curare, senza però rivelare che dietro tutto c’è l’amata (e odiata) Lou; Nietzsche vuole smascherare l’ipocrisia del medico, e convincerlo che questa cura sarà inutile, anzi dannosa. I due uomini sono uno l’opposto dell’altro: Nietzsche è amante della solitudine, risoluto, fiero delle proprie scelte, sprezzante verso il sesso e le donne; Breuer è incastrato in una vita non soddisfacente, titubante riguardo le proprie decisioni e, soprattutto, amante delle donne. Il primo predilige le vette alte della filosofia (di quella filosofia così potente e incalzante, che tanti animi ha richiamato a sé nel secondo Novecento, dopo la “riabilitazione” dalle insidie del nazismo), il secondo ama i metodi pragmatici, le scelte calcolate. Lou Salomé incontra il dottor Josef Breuer per convincerlo ad aiutare un suo amico, Friedrich Nietzsche, a guarire dalla depressione acuta in cui è caduto: ne va, afferma la giovane ragazza, del “futuro della filosofia tedesca”. Come il suo corrispettivo storico, la giovane Lou è audace, magnetica, irriverente, e convince il medico a portare avanti la cura.

Gli incontri si susseguono con ritmi incalzanti, fra speculazioni filosofiche, sperimentazioni psicoanalitiche e drammi personali. Col tempo i due, chiusi inizialmente nei propri mondi isolati, diventano sempre più affiatati finché, alla fine, arrivano a chiamarsi “amici”.

Un Nietzsche umano

Ne Le lacrime di Nietzsche, la trama è assolutamente secondaria rispetto alle speculazioni filosofiche, agli interessi medici e all’ambientazione storica. La storia procede in modo lento, come moltissime ripetizioni e momenti di stasi: tutti questi elementi sono di poco rilievo per chi si avvicina al testo con l’intento di leggere un romanzo su Nietzsche, ma ovviamente possono risultare fastidiosi agli occhi di un lettore meno interessato. La bellezza di questo testo sta nel fatto che tratta di un Nietzsche umano, non solo filosofo. L’unico altro testo che tratta del “Nietzsche uomo” è del 1894: Friedrich Nietzsche in seinen Werken di Lou Salomé (tradotto in italiano come Nietzsche. Una biografia intellettuale, Savelli 1979). Il romanzo di Yalom si sofferma molto sulle esperienze quotidiane, sullo stile di vita, sulle debolezze del filosofo ma, al contempo, è infarcito della sua filosofia, di citazioni dai suoi libri (tutti precedenti alla pubblicazione di Così parlò Zarathustra). Queste citazioni sono magistralmente mimetizzate all’interno di discorsi più o meno rilevanti. Il risultato è che non si hanno delle frasi a effetto, i cui ingranaggi e meccanismi spuntino fuori come per un copione mal scritto, ma piuttosto un testo scorrevole, con momenti alti e momenti bassi, soprattutto durante i dialoghi:

E ancora una volta Nietzsche sfogliò i propri appunti, leggendo: «Per dare vita a una stella danzante, occorre avere dentro di sé caos e confusione frenetica».

Ciò che non si può non apprezzare de Le lacrime di Nietzsche è la certosina opera di ricerca che l’autore ha compiuto per essere quanto più preciso possibile: a partire dalle date, passando per le descrizioni della Vienna e della Venezia del 1882, per le pratiche mediche dell’epoca (con tutti i pro e i contro), e terminando con le citazioni di testi editi (e di appunti dai frammenti postumi) e con le abitudini quotidiane di Nietzsche.

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