‘Oppenheimer’ di Nolan. La necessità di uno sguardo complesso sul mondo e sulla Storia

Tre piani narrativi che si incastrano per formare un rompicapo concettuale, morale e storico; al centro lo sguardo ambizioso e ambiguo del fisico Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica. Questo è Oppenheimer, l’ultimo film del regista visionario Christopher Nolan, amante della quiete apparente, dell’azione, dell’indagine, cultore del tempo, che sia fasullo, relativo o sospeso. E di personalità controverse, come quella di Oppenheimer, non esattamente l’inventore della penicillina. Sfida ardua che il botteghino sta premiando; fatto non consueto per un biopic.

Girato con telecamere Imax 65mm e suddiviso in tre periodi lungo circa tre decenni, “Oppenheimer” è un complesso, originalissimo ipertrofico esemplare di blockbuster al contempo storico, biografico e processuale, uno psicodramma d’autore pieno di strappi e ricuciture che affascinano lo spettatore, e lo sfidano a vivere un’esperienza visiva e intellettiva non di poco conto.

Oppenheimer, Prometeo moderno

Oppenheimer non è un film per tutti, non è un thriller, non è un film d’azione che fa divertire, ma soprattutto non è il classico biopic. Nolan, basandosi sulla dettagliatissima biografia di Kai Bird e Martin J. Sherwin, American Prometheus, (Premio Pulitzer nel 2006), ha applicato le proprie regole concettuali anche al biopic ed è riuscito a vincere in gran parte la scommessa. I personaggi infatti più che esseri umani in carne ed ossa, sembrano dei veri e proprio concetti viventi tramite i quali Nolan parla allo spettatore della formazione accademica del grande fisico tedesco, del potere della scienza, di ambiguità morale, di necessità storica, di ambizione che anima l’uomo come un flusso di atomi.

Oppenheimer è un Prometeo moderno, punito per aver osato offrire il fuoco nucleare all’umanità? Si chiede questo Nolan che struttura le tre ore di durata come una sorta di oratorio laico incentrato sui punti cruciali della biografia del direttore del progetto top secret Manhattan che stroncò con le fatali distruzioni di Hiroshima e Nagasaki, il Giappone filo hitleriano alla fine della guerra mondiale, ma poi finì imputato all’acme della nevrosi patriottica fomentata dal maccartismo.

Una narrazione scomposta

Difatti nei successivi anni 50, in piena Guerra fredda, Oppenheimer venne ingiustamente accusato di contiguità col nemico perché in passato era stato un simpatizzante comunista e si ritrovò alle prese con le udienze dell’inchiesta che doveva decidere se potesse o meno continuare a lavorare nella nella Commissione per l’energia atomica.

Il film di Nolan sembra ribadire, sottolineando l’inevitabilità dello sgancio della bomba, la celebre frase di E. L. Doctorow, “La bomba è stata la nostra arma, poi la nostra diplomazia e adesso è la nostra economia“. La bomba infatti non è una nuova arma, ma un nuovo mondo fissato prima ancora della sua comparsa nella Storia, nello sguardo di ghiaccio di Oppy, magistralmente interpretato da Cillian Murphy.

La strada scelta da Nolan è forse tortuosa, ma congeniale alla sua idea di narrazione: scomporre la linearità degli eventi, dei fatti, un topos del suo cinema, in sequenze che si giustappongono, invitando così lo spettatore a confrontarsi con il loro significato, più che con il loro effettivo sviluppo.

Il punto di vista da cui guardare, per la parte del film coincidente con le sequenze a colori, è quella del fisico stesso, il suo sguardo enigmatico, agitato dalla materia stessa e dal mondo quantico che sanno di profezia, o meglio di futuro.

L’ambiguità morale

La parata di star hollywoodiane è stata relegata in alcuni casi a poco più di camei, come quelli Casey Affeck, Rami Malek, Matthew Modine e Gary Oldman, accanto al protagonista Cillian Murphy attore-feticcio del regista, al pari di Christian Bale e Michael Caine, si trovano l’ottimo Robert Downey Jr., quasi al livello del protagonista principale, il generale Leslie Grovese (Matt Damon) le due donne di Oppy, la moglie Kitty interpretata da Emily Blunt e l’amante Gina (Florence Pugh).

Nolan mostra la personalità complessa del moderno Prometeo, già da studente, la sua nostalgia di casa e la scarsa attitudine per gli esperimenti in laboratorio che mutano in depressione e attacchi di insonnia, sfociati nell’episodio, che pare accertato, in cui attenta alla vita di un docente servendosi di una mela, che simboleggia la dannazione biblica, dopo che i fisici hanno conosciuto il peccato.

Una volta raggiunto il suo obiettivo, Oppenheimer sembra esserne sopraffatto ed inizia a nutrire dei dubbi: può un’intera comunità scientifica mettersi al servizio dei militari e assicurare loro un’arma che è strumento di morte? E tale arma riguarda ancora la scienza, o è l’esercito a dover decidere, nello specifico il Presidente Harry Truman (Gary Oldman)?

Sono domande che scuotono il protagonista pervaso dal senso di colpa per aver reso possibile una potenza distruttiva che prima apparteneva solo alla teoria.

Oppenheimer è diventato morte, distruttore di mondi e ne è consapevole. Tuttavia Nolan ha tenuto a sottolineare come lui e molti scienziati, fossero ebrei e vedessero nella costruzione della bomba atomica una corsa contro il tempo, in chiave di mera sopravvivenza, per anticipare il progetto di Hitler (il quale considerava la fisica quantistica la scienza dei Giudei) affidato oltreoceano ad Heisenberg (<<Io so cosa vuol dire per i Nazisti avere la bomba>>, dice Oppy), senza contare che è stato storicamente accertato che il Giappone non aveva alcuna intenzione di arrendersi, come dimostrò la conquista di Okinawa e il rifiuto della dichiarazione di Postdam.

 

Isolamento e senso di colpa

Isolato e poi venerato, osannato e ostacolato, sostenuto e rinnegato, Robert Oppenheimer è avvolto da una leggenda maledetta. L’esploratore ciclotimico dei buchi neri dell’universo e dell’anima, non sa quale siano i buchi più profondi e insondabili, ma riesce a trasmettere tutta la complessità da un uomo di mente, di scienza, un visionario che cerca se stesso nelle donne, nelle quali spera di trovare pace, ambito dalla politica, dal potere, che sa di essersi reso complice di una catastrofe.

Alla fine abbiamo Oppenheimer si sente le mani macchiate di sangue cerca perdono. «Ti sei fatto tirare badilate di fango sperando di ottenere perdono, ma non te lo daranno» dice al fisico la moglie Kitty; «Vedremo», risponde lui.

Pur rappresentando i personaggi come concetti, Nolan è riuscito a non far venire meno il coinvolgimento emotivo grazie a: un linguaggio ben esplicato nella primissima parte, all’utilizzo del racconto politico condito da elementi di spy story e di investigazione nella parte centrale, al rifarsi al filone emotivo e psicologico che caratterizza tutto il film, ad una ricca sceneggiatura, al montaggio alternato, alla vibrante colonna sonora, a forti stacchi che delineato in modo ancora più preciso il protagonista che deve fare i conti con le conseguenze della propria conquista.

Protagonista e spettatore della Storia, Robert Oppenheimer è l’uomo il cui genio individuale è stato valorizzato dagli americani, per poi essere messo sotto inchiesta, perché ritroso alla sperimentazione della bomba ad idrogeno; è l’uomo il cui sguardo è concepito da Nolan per essere e andare oltre la materia, lasciandosi ispirare da Picasso, T.S. Eliot (La terra desolata) epifanie proustiane. Uno sguardo complesso sul mondo, necessariamente complesso, che diventerà il nuovo campo di percezione del Secolo breve: l’immagine in movimento, il cinema, appunto.

Un film importante che pone domande al nostro presente, molto pensato e dialogato, prolisso, ma che indubbiamente sa cogliere il tragico avvento della bomba nella storia come rottura del tempo lineare e creazione di un nuovi spazi, nuovi confini del mondo tra utopie e distopie, fusioni e fissioni rivelatrici che necessitano di sguardi acuti e complessi, liberi da ideologie.

‘La poesia cambierà il mondo’: il ruolo salvifico della poesia nella nuova silloge di Alessandra Maltoni

La poesia cambierà il mondo, edita da La Zisa edizioni, è una silloge della scrittrice ravvenate Alessandra Maltoni.

Nonostante la sua formazione tecnico-scientifica, la Maltoni è sempre stata ammaliata dalla scrittura. I suoi racconti e poesie l’hanno consacrata nel mondo editoriale italiano ed estero. Alessandra Maltoni ben presto ha raggiunto un indiscusso successo ed è stata pluripremiata.

Con la silloge Tracce di riflessione poetica si è classificata finalista al Premio Internazionale “Trofeo Penna d’autore 2004” di Torino. Nel 2007 ha pubblicato l’opera da Ravenna Racconti tra i numeri. E’ coautrice del antologia poetica La parola  e i suoi approdi. La pubblicazione Domande tra il porto e il mare è stata la protagonista della fiera del libro tenutasi a Scilla in Calabria nell’autunno del 2009. Nel 2010 ha vinto il Premio nazionale di narrativa e saggistica Il Delfino, sezione mare.  La lirica Spazio di riflessione ha ricevuto menzioni d’onore dell’Associazione culturale torinese Penna d’autore ed è inserita, assieme ad una sua breve biografia, nel volume Grandi Classici della Poesia Italiana. La scrittrice, tradotta in lingua spagnola e in lingua inglese, fa parte del salotto degli autori del circolo dei lettori di Torino.

Attualmente Maltoni è una libera professionista ed è titolare di un centro servizi culturali con l’attività politica nel campo della cultura.

La silloge La poesia cambierà il mondo è il frutto della partecipazione della scrittrice al concorso letterario con tema “Poesia è rifare il mondo, bandito da la Zisa Edizioni, con lo scopo di reclutare nuove sillogi da inserire nelle nuove collane.

 

La poesia cambierà il mondo: sinossi

La poesia cambierà il mondo è uscita del 2019. La raccolta è corredata dalla prefazione della Prof.ssa Roberta Accomando, docente di comunicazione, che ha arricchito ulteriormente l’opera con il suo contributo.

Ciò che cattura immediatamente l’occhio è la copertina su cui è illustrato un cangiante papavero blu. Un fiore raro, centrale nella raccolta poetica.

“chinano il capo/ al cadere della pioggia/ le gocce d’acqua/ sono come le lacrime della vita/ ma, la poesia/ alza il capo e papaveri blu/ li erge il sole/ verso l’infinito sull’Himalaya…

Il papavero blu è la poesia. Questo accostamento richiama immediatamente alla poesia Eterno di Giuseppe Ungaretti

“Tra un fiore colto e l’ altro donato

l’ inesprimibile nulla.” Anche in questo caso l’immagine del fiore è metafora di poesia.

 

La scelta del papavero non è casuale, come afferma Alessandra Maltoni, il quale “insieme al rosmarino e all’aloe il papavero blu è uno dei fiori che contiene e dona più energia. La poesia deve trasmettere energia che è nelle parole, quell’energia che può cambiare il nostro stato d’animo, che può cambiare il mondo”.

La poetessa in questa silloge interroga la natura e ne studia l’energia. La raccolta contiene e apre al lettore scenari diversi: oltre al mondo della botanica con le piante e il mare anche quello della fisica quantistica, con riferimento al fenomeno dell’Entanglement. Ad aggiungersi a questo connubio è un massiccio apporto letterario.

Le parole a cui la Maltoni si riferisce é il sì suona di Dante Alighieri. È proprio una citazione del sommo poeta, molto amato dalla scrittrice, che apre la sua silloge poetica. Allo stesso Dante Alessandra Maltoni dedica un componimento:

Dante in una noce

Invisibile agli occhi
la preghiera di lei,
comunica in versi, la salvezza.
In miniatura i canti,
raccontano l’Inferno,
in un museo a spaccanapoli,
lontano dalla zuccheriera
dalla nonna amata.

Alla poesia viene affidata una funzione salvifica, sociale e storica. Per salvare il mondo è necessario partire dalle piccole azioni, dalla natura, dai rapporti umani e dall’uomo. Lo stile raffinato scorrevole ed essenziale racconta proprio percorsi profondi di vita. A mediare è la poesia. La natura, il mondo vegetale, il mare e l’energia solcano un sentiero di speranza. Soltanto illuminandosi d’immenso, come declamava Ungaretti e affidandoci alle orme dantesche potremmo essere salvi. Infatti come scrive la poetessa “l’anima illuminata d’immenso trasformerà il mondo”.

“L’ opera è permeata da una visione fiduciosa verso il futuro dell’umanità verso un’inevitabile possibilità di miglioramento” scrive la Professoressa Roberta Accomando nella prefazione

La silloge La poesia cambierà il mondo racconta un sogno per un futuro più consapevole e osserva gli elementi introspettivi della natura circostante traendo energia positiva. La comunicazione attraverso la parola scritta o verbale si trasforma in energia e può cambiare le azioni, gli eventi e il mondo.

 

Fonte http://www.lazisa.it/

 

 

 

 

 

 

 

 

Perché mente e coscienza non sono un epifenomeno come sosteneva Huxley, ma rispettivamente un tribunale recondito e flusso degli stati vissuti da un Io

È quasi impossibile trovare oggi in un articolo di biologia termini come mente o coscienza, al cui posto leggeremo: neuroni, proteine, sinapsi e così via…, donde d’improvviso – con un salto dalla prosa scientifica alla poesia immaginifica – la mente è spiegata come “ciliegina sulla torta” (E. Boncinelli) o “fischio della locomotiva” (A.G. Cairn-Smith). Il termine ufficiale usato dal conformismo riduzionista è “epifenomeno” (un’invenzione del “mastino di Darwin”, T.H. Huxley), che significa “fenomeno derivante da un altro”: siccome però nel mondo tutti i fenomeni derivano da altri (proprio nello studio delle loro concatenazioni causali consistono le scienze) e “poiché là dove mancano i concetti, s’offre, al momento giusto, una parola” (J.W. von Goethe, “Faust”), il termine serve solo, secondo il diavolo, a celare la mancanza d’ogni concetto a riguardo di cosa sia la mente.

La paroletta di Huxley non è tanto un’ovvietà, ma uno sproposito, perché la mente non è un fenomeno. Fenomeno (dal greco “fàinomai” = mostrarsi) è tutto ciò che ci appare davanti, manifestamente: l’alternarsi del giorno e della notte, le fasi della luna, l’evaporare dell’acqua all’aria e l’abbronzarsi della pelle al sole, lo sbocciare dei fiori a primavera e la caduta delle foglie in autunno, ecc. È un fatto però, che di nessuno la mente ci appare. La mente piuttosto è il tribunale recondito davanti a cui tutti i fenomeni compaiono: i fenomeni sono gli oggetti delle apparizioni, la mente è il soggetto invisibile che li vede e giudica. Tanto è potente e allo stesso tempo misteriosa la caratteristica dell’uomo da far dire ad Euripide: “La mente in ciascuno di noi è un dio”.

La coscienza pure non è un fenomeno, ma consiste nel flusso degli stati vissuti da un Io. Neanche nell’intimità dell’amore appare all’amante la coscienza dell’amata– che cosa le frulli per la testa, le passi nel cuore o ella provi nei sensi –, e l’uno si deve accontentare (dei fenomeni esteriori) delle parole e dei gesti dell’altro. Nello stato detto “autocoscienza” la coscienza appare a sé, non come oggetto esterno, ma ancora come un particolare stato vissuto dall’Io. C’è dell’altro che questi super-semplificatori mostrano d’ignorare. Per loro, le neuroscienze spiegano la mente come un fenomeno della struttura biologica e dell’organizzazione fisiologica del sistema nervoso centrale; i livelli biologici e fisiologici si spiegheranno, “molto presto” annunciano da cent’anni, con reazioni chimiche; e queste, si sa, si spiegano già in fisica con le interazioni delle cortecce elettroniche degli atomi.

La fisica però non si ferma agli atomi e ai quark, ma tira in ballo anche i campi quantistici e l’osservatore. Ogni sistema atomico, infatti, vi è descritto con una distribuzione (questo è un campo) di tutti i valori delle grandezze fisiche e solo l’esecuzione di una prova ne determina i valori attuali – l’autostato, che è relato alla coscienza (collettivamente elaborata) del team controllante l’apparato sperimentale –. Un evento fisico è inseparabile dal campo quantistico in cui è immerso e dall’interferenza dell’osservatore intelligente che, approntandone la preparazione ed osservandone l’evoluzione, lo fa iniziare in un autostato e precipitare infine in un altro. “Non è possibile una formulazione coerente della meccanica quantistica che non faccia riferimento alla coscienza” (E. Wigner, Nobel 1963 per la fisica). Così la mente, declassata dal semplicismo riduzionista a fenomeno secondario delle attività cerebrali, è promossa dalla scienza fondamentale a statuto primario di tutti i fenomeni. Il loro tribunale, appunto. Come avanziamo, allora, nello studio della mente se non con un’introspezione di come l’Io di ognuno appare a Sé?

Che cos’è il mio Io? Qual è il mio nocciolo duro, se c’è, al netto del mio corpo? Sfoglio un album di vecchie foto in bianco e nero e mi vedo a 6 anni nella bottega di papà, che ora non c’è più, in uno scatto fatto da Callisto, il postino di paese; a 7 anni, con la mia bellissima mamma, sul cui viso oggi è scolpito il disincanto: posiamo sorridenti lungo un viale alberato per la gioia di Fai, un eccentrico personaggio locale; ecc., ecc. Non conosco parole per descrivere il flusso nostalgico di tenerissimi ricordi che mi avvolge, stringendomi il cuore, arrossandomi il viso ed inumidendomi gli occhi. Riconosco a fatica vaghi lineamenti di me in quelle foto ingiallite e mi chiedo ancora: in che cosa consiste la sostanza dell’Io, che permea ogni fibra del mio corpo? Essa certo non coincide con i 10^27 atomi di turno che lo compongono: al mio corpo sono affezionato anche nei difetti perché è comunque parte di me, ma non posso identificare una parte di me col mio Io intero. So bene che l’Io dipende in tutto dal corpo, a cominciare dalla sua stessa esistenza. Però, se un organo non vitale mi venisse a mancare, o uno vitale diverso dal cervello mi fosse trapiantato da un donatore, non per ciò ammetterei che non sono più io, anche se non mi riconoscerei identico a prima.

E il cervello? in che rapporto sta con l’Io? Il confronto tra un uomo ed un computer forse mi aiuterà a procedere. Tutto il mio corpo è hardware, compreso il cervello che svolge i due ruoli che nel calcolatore hanno il disco per la conservazione dei dati ed il processore per la loro elaborazione. E cosa corrisponde in me al software, senza cui un computer è più inutile di un ferro vecchio? Il software è una sequenza di operazioni matematiche (infine, un numero), che indica al processore come elaborare i dati salvati nel disco o inseriti dall’esterno. Esso è memorizzato nel disco, o nel cloud che è comunque un server da qualche parte. D’acchito mi verrebbe d’identificare la componente volitiva dell’Io con un software, perché è l’Io che ordina al cervello come elaborare le informazioni conservate nella memoria o che gli stanno provenendo dai sensi. Proseguendo nell’analogia dovrei riconoscere che, come il software d’un pc sta in un disco, così la mia Volontà è basata nell’encefalo. Ma il paragone è miserrimo, perché ogni software è un puro numero: non vive, né sa di essere; non pensa; è stato scritto dall’Io d’un programmatore umano e nelle stesse circostanze ripete le operazioni che gli sono inscritte.

Il mio Io, invece, respira la vita; pensa; pensa di pensare; non è stato programmato (da alcun super-Io) e sa di godere di arbitrio libero, pur se condizionato dal corpo e dall’ambiente. L’Io è vivente, cogitante, autocosciente e dotato di una volontà che avverte l’imperativo morale altro da Sé, mentre nessun software è l’ombra di ciò! La parola che si usa da sempre per denotare l’insieme di quelle facoltà è: anima (dal sanscrito “atman” = soffio vitale). Ecco il nucleo del mio Io dal concepimento: è l’unità indissolubile di un corpo e di un’anima.

Nei primi anni di vita la Volontà della mia anima era scandita esclusivamente dall’istinto alla soddisfazione dei bisogni del corpo, ma col tempo l’interscambio tra il suo mondo interno ed il mondo esterno (il latte materno, l’educazione familiare, il contesto sociale, ecc.) l’ha forgiata in scelte, fatte inizialmente su valori e sensi parziali, che con gli anni sono cresciuti ad una matura, integrale Weltanschauung. Il mio Io è cresciuto sulla spinta di questa Volontà ed oggi gli appartengono la memoria delle cose apprese e delle esperienze fatte ed il bene e il male derivati anche per mia responsabilità alle persone che ho influenzato. Le mie decisioni hanno concorso a costruire l’Universo attuale al posto d’infiniti altri universi potenziali: chi può sapere che cosa di buono il mondo ha perso per i miei errori ed omissioni, e perdonarmi per essi? Ora, durante questa mia auto-analisi, pensiamo che un neuroscienziato abbia osservato con un sistema di sonde tutti i campi e le reazioni chimico-fisiche del mio corpo e dalle loro misure abbia calcolato con un modello matematico i pensieri della mia anima. Ammessa l’omologia della teoria impiegata – ma se ogni traduzione da una lingua all’altra è infedele in significato e stilemi; se la descrizione data dal mio stesso racconto è stata carente, può un numero, qual è la risposta d’un apparato osservativo, rappresentare isomorficamente una catena di pensieri ed emozioni? –, in ogni caso la fisica misurata sul mio corpo non è la stessa cosa dei pensieri vissuti dalla mia anima: ciò che ho vissuto pensando quei pensieri appartiene al mio Io interno ed è altro ontologicamente dalle grandezze fisiche osservate dall’Io (a me esterno) del neurologo.

L’alterità tra stati psichici e grandezze fisiche vale nei due versi e, come vieta il cortocircuito del riduzionismo materialistico, così nega quello inverso del riduzionismo idealistico contemporaneo – della filosofia analitica e del neopositivismo, per intenderci – secondo cui gli oggetti fisici “hanno lo stesso fondamento degli dèi di Omero (W.V. Quine, filosofo ad Harvard), essendo solo i costrutti mentali delle percezioni dimostratisi più utili in ogni epoca, al punto che “noi sappiamo, per dimostrazione, che la Luna non è più là quando non la osserviamo” (N.D. Mermin, fisico alla Cornell). Resta la terza via del buon senso, un realismo che prende atto dell’esistenza sia di oggetti fisici che di stati dell’anima, e della loro alterità irriducibile fatta salva la loro coesistenza nell’essere umano. Io so anche che il mio Soggetto interno è intravisto come oggetto esterno dagli altri Io (quelli delle persone con cui entro in relazione), e viceversa: la coesistenza e l’ambiguità ontologica falsificano il dualismo cartesiano, secondo cui l’alterità implica una radicale separazione (che infine, per il ruolo guida assegnato alla “res cogitans” sulla “res extensa”, si traduce in monismo spiritualistico). Come potrebbe la mia Volontà ordinare al deltoide di sollevare il braccio, se l’anima ed il muscolo appartenessero a mondi disgiunti? Forse inserendo un ponte tra i due, cioè con un terzo mondo, e così via all’infinito?! “Il corpo non è unito in modo accidentale all’anima, perché il più profondo essere dell’anima è lo stesso essere del corpo, e dunque un essere comune ad entrambi” (Tommaso d’Aquino, “Quaestio disputata de anima”). Insomma la realtà di questo mondo è una, una sola, ma è molto diversa da come ce la raccontano i riduzionisti delle due scuole; e la sua trama è molto, molto più complessa di quanto speculino oggi anche i fisici più creativi.

Chi prima delle equazioni di Maxwell (1861) e degli esperimenti di Hertz (1886) avrebbe immaginato la realtà dei campi, quando per i materialisti di allora tutto era solo atomi e moto? Chi prima della sintesi di Einstein (1915), quando spazio e tempo erano universalmente considerati contenitori inerti dei fenomeni (due “forme a priori” della mente, per gli idealisti di allora), avrebbe pensato lo spazio-tempo come una struttura dinamica reale, che ordina alla materia come muoversi ed è da essa ordinata come incurvarsi? Quando ho scritto che l’auto-interazione del campo di Higgs crea il bosone omonimo, un lettore mi ha obiettato: “Ma di che è fatto il campo, se non delle medesime particelle? […] è come se Lei ci dicesse che un oceano interagendo con se stesso determina le molecole di cui è costituito”, testimoniando la persistenza anche in ambienti colti (e religiosi) di un pregiudizio materialistico e meccanicistico, di cui la fisica s’è liberata 150 anni fa. Quando si prenderà atto che l’evidenza dell’esistenza di un oggetto non è data in fisica dalla sua osservabilità (qualcuno ha mai “visto” un quark top?), ma coincide con l’efficacia delle sue proprietà matematiche a predire regolarità di Natura altrimenti giudicate accidentali?

A sciogliere il problema del sinolo dell’Io, di questa unità tanto oggettivamente materiale se vista da fuori quanto soggettivamente mentale se vissuta da dentro, non saranno né la biologia molecolare, né le neuroscienze, e neanche la fisica ultima dell’altisonante “Teoria del Tutto”…, che poi è la geometria delle stringhe e del multiverso, ovvero una cinematica di cordicelle e tamburini vibranti in uno spazio (“bulk”) a 10-11 dimensioni: questo esercizio è condannato fin dall’inizio a fallire il bersaglio, perché carica la complessità dell’essere non sulla struttura matematica degli oggetti (ipoteticamente fondanti il “Tutto” comprensivo della mente), bensì sulla topologia super-dimensionale del bulk che ne ospita i giochi. No, per tentare la scalata alla montagna dell’Io – alla sua parete fenomenica, almeno – ci occorrerà una scoperta altrettanto eversiva di quelle del campo elettromagnetico e della relatività, e più probabilmente un cambio del paradigma epistemologico che superi la “vecchia”, a ciò visibilmente impotente, rivoluzione scientifica.

Giorgio Masiero, fisico.

La radiazione di Hawking esiste-Il pozzo che evapora

Alla Technion University, in Israele, un esperimento conferma l’esistenza della radiazione di Hawking.

Il mondo ama le eccezioni, e il loro strabordare dai confini delle leggi. Quando si dice che un buco nero è un pozzo dal quale nulla può sfuggire, nessuna particella materiale, e neanche la luce, si può venir colti, oltre che da un sentimento di claustrofobica angoscia, anche da un sospetto lieve. Possibile? Possibile che da una porta chiusa, seppure ermeticamente, non possa filtrare un capello dorato di luce? Che la parete bianca sia priva di macchia, che la montagna inamovibile non sussulti? E l’effetto tunnel quantistico? E la fuga da Alcatraz? E le tentazioni di Sant’Antonio? Perfino negli spot dei disinfettanti, i pubblicitari si cautelano per bene lasciando quel piccolo batterio di sorta (“pulisce fino al 99,9999% …”). Non si tratta dell’assurdità della perfezione, che anzi pare non intimorire per nulla la fisica: leggi che non falliscono mai (o quasi?), come la conservazione della massa energia, costanti sempre perfettamente costanti come la velocità della luce, particelle completamente identiche. Qui si tratta di qualcosa di diverso, di una vibrazione fondamentale delle forme ideali. Un’incrinatura nell’iperuranio; è la crisi del bianco e del nero. Sarà pure un atteggiamento da malfidati, ma la coscienza del compromesso, e la propensione al “ma”, sono care a molti di quelli che osservano un mondo, così complesso come il nostro, per attitudine o mestiere. E dunque? A quanto pare, qualcosa scappa dal buco nero.

La radiazione di Hawking è confermata dal fisico Jeff Steinhauer

Questo qualcosa sarebbe una debole radiazione termica la cui esistenza fu ipotizzata da Hawking nel 1974, (da qui il nome radiazione di Hawking) studiando la teoria quantistica dei campi nello spazio-tempo curvo. E solo adesso Jeff Steinhauer, fisico dell’Israel Institute of Technology, ne conferma l’esistenza osservando le particelle emesse da un modello di buco nero simulato in laboratorio. Un buco nero è un oggetto estremamente denso (tecnicamente, è un corpo interamente contenuto all’interno del proprio orizzonte degli eventi), caratterizzato da un’enorme attrazione gravitazionale, al punto che nulla vi sfugge, né materia, né luce. Ecco perché appare completamente nero. Forse. Quando Einstein pubblicò la sua teoria della relatività generale, nel 1915, dimostrò che la materia è responsabile della curvatura del cronòtopo (lo spazio- tempo di Minkowski), e che questa curvatura è a sua volta responsabile della forza di gravità: per usare una famosa analogia, è come se la terra scivolasse su un tessuto spaziale tridimensionale curvato dal sole. E’ dunque naturale ipotizzare l’esistenza di oggetti estremamente massivi e densi, tali da costituire dei pozzi in cui tutto può entrare e nulla uscire. Dei buchi nel telo. Creare un buco nero è “semplice”: basta comprimere tutta la massa di un corpo all’interno del proprio raggio di Schwarzschild (la distanza dall’orizzonte degli eventi). Per esempio, per rendere la terra un buco nero, la si dovrebbe comprimere all’interno di una sfera di circa un centimetro di raggio! Non è cosa da poco, ma un processo del genere si può manifestare spontaneamente nel cosmo, ed è in particolare ciò avviene nella fase finale (il collasso gravitazionale) della vita di stelle sufficientemente massive. Data la loro natura, è possibile osservare i buchi neri solo con metodo indiretto: per esempio, studiando la danza di una stella che ruota attorno a un centro di massa invisibile e deducendone la presenza di un sistema binario stella-buco nero; o tramite misura di peculiari emissioni di raggi X emessi da particolari sistemi, per esempio vortici gravitazionali di materia attorno a un sospetto “nulla”. La gravitazione, sia newtoniana che relativistica, nasce e si sviluppa come teoria classica, cioè al di fuori dell’ambito speculativo della meccanica quantistica, e un primo tentativo di unificazione teorica (“gravità quantistica”) è la teoria quantistica dei campi nello spazio-tempo curvo.

Un’evidente previsione di quest’ultima è l’emissione, da parte dei buchi neri, di radiazione elettromagnetica, e dunque di energia: è noto come il principio di indeterminazione di Heisenberg implichi che il vuoto non è statico (altroché), ma sede di un’energia di vuoto e di fluttuazioni quantistiche che generano continuamente coppie di particelle e anti-particelle (virtuali) che si annichilano, cioè si annullano reciprocamente; a causa dell’intensa forza gravitazionale nei pressi dell’orizzonte degli eventi, tali coppie possono diventare reali e, mentre una particella viene inghiottita dal buco nero, l’altra può uscirne.

Radiazione di Hawking: il buco nero perde energia-massa

Il  buco  nero,  in  un  tempo  molto  lungo,  perderebbe  cioè  energia-massa  (che  sono  equivalenti,  dato che    ), evaporando. Il buco nero non sarebbe più nero, cioè completamente “assorbente”, ma “grigio”. Utilizzando onde sonore in luogo di onde luminose, confinandole in laboratorio in un modello acustico di buco  nero, e sfruttando  un  particolare  stato  della  materia  a  bassissime  temperature,  detto  “condensato  di Bose-Einstein”, Jeff Steinhauer ha verificato non solo la possibilità di un’emissione di questo tipo, ma anche la sua natura quantistica; è stato infatti osservato, nelle coppie di particelle coinvolte, lo straordinario effetto quantistico dell’entanglement, di quella promessa, che si scambiano talune particelle prima di separarsi, di ricordare l’un l’altra per sempre, al di là dello spazio e del tempo.

Non  è  difficile immaginare  come lo  studio  del buco  nero, una  delle  entità  più squisitamente misteriose dell’universo  intero,  e soggetto  di  studio  principe  della  moderna  cosmologia, possa  riservare  contributi interessanti  a  quella  ricerca  fondamentale  che  oltrepassa  la  fisica  e  l’uomo,  e che  tende  alle  sublimi domande: esiste una teoria del tutto? Com’è nato il mondo, ed eventualmente, perché?

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