10 frasi per innamorarsi di Franz Kafka, lucido traduttore del malessere spirtuale dell’uomo

Franz Kafka occupa un posto di primo piano nell’ambito di una produzione letteraria che ha saputo trarre grande forze creativa dal primo conflitto mondiale, sia per la lucidità con cui lo scrittore ha saputo interpretarlo, sia per l’originalità con cui è riuscito a dare forma alle tensioni esistenziali e sociali dell’uomo contemporaneo, invano alla ricerca di una propria identità e di un ruolo. Il senso di frustrazione e di malessere spirituale dell’individuo prende spesso nei racconti di Franz Kafka, la forma dell’allucinazione, dell’incubo, tanto più angosciante quanto più minuzioso è il realismo con cui viene rappresentato. Caratteristica costante di Kafka è quella di iniziare il racconto in medias res, in modo diretto, senza premesse che giustifichino la situazione delineata (ad esempio la trasformazione di Gregor Samsa nel capolavoro La metamorfosi). Il suo stile nasce dal rapporto con i grandi modelli del decadentismo, ma anche sotto l’influenza delle opere di Martin Buber e del teatro jiddish, la tradizione misticheggiante del chassidismo.
Franz Kafka presenta persone, oggetti, e ambienti con estrema precisione e realismo. Ma si tratta di una realtà piena di risvolti e di implicazioni simboliche, oniriche, inquietanti.

Nato a Praga, città in cui si fondono cultura slava, tedesca ed ebraica, nel 1883 da un ricco commerciante di origine ebraica, con il quale lo scrittore ceco ha durante l’infanzia un rapporto difficile, Franz Kafka studia in una scuola umanistica e in un’università tedesca e si interessa molto di mistica ebraica e del pensiero di Kierkegaard. Si laurea in legge nel 1906 trovando lavoro presso una compagnia assicuratrice; per il sopraggiungere della tubercolosi è costretto a lasciare il lavoro e a compiere alcuni viaggi in Italia fino a stabilirvisi fino al 1920. Muore a Kirling nel 1924 a soli 41 anni. Insoddisfatto delle sue opere, Franz Kafka in vita ha pubblicato solo alcune prose, nel 1916 La metamorfosi e La condanna e nel 1919 Nella colonia penale. La rimanente produzione, tra cui si ricordano Il processo, pubblicato nel 1925, Il castello nel 1926 e il romanzo incompiuto America nel 1927, è stata pubblicata postuma dall’amico Max Brod che ha disobbedito alla volontà testamentaria del grande scrittore.

 

1 Lascia dormire il futuro come merita: se lo svegli prima del tempo, otterrai un presente assonnato

2 Un idiota è un idiota; due idioti sono due idioti. Diecimila idioti sono un partito politico.

3 Di una cosa sono convinto: un libro dev’essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi.

4 Il tempo che ti è assegnato è così breve che se perdi un secondo hai già perduto tutta la vita, perché non dura di più, dura solo quanto il tempo che perdi. Se dunque hai imboccato una via, prosegui per quella, in qualunque circostanza, non puoi che guadagnare, non corri alcun pericolo, alla fine forse precipiterai, ma se ti fossi voltato indietro fin dopo i primi passi e fossi sceso giù per la scala, saresti precipitato fin da principio, e non forse, ma certissimamente.

5 C’è una meta, ma non una via; ciò che chiamiamo via è un indugiare.

6 In teoria vi è una perfetta possibilità di felicità: credere all’indistruttibile in noi e non aspirare a raggiungerlo.

7 Gustav Janouch gli domanda: E Cristo?. Kafka, chinando il capo, risponde: È un abisso pieno di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi.

8 Ogni rivoluzione evapora, lasciando dietro solo la melma di una nuova burocrazia.

9 Bisognerebbe leggere, credo, soltanto i libri che mordono e pungono. Se il libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno in testa, a che serve leggerlo?

10 Amore è tutto ciò che aumenta, allarga, arricchisce la nostra vita, verso tutte le altezze e tutte le profondità. L’amore non è un problema, come non lo è un veicolo; problematici sono soltanto il conducente, i viaggiatori

“Il Castello”: il trionfo dell’impotenza umana

“Il mondo del capitalismo odierno come inferno e l’impotenza di tutto ciò che è umano davanti alla potenza di questo inferno, costituisce il contenuto dell’opera di Kafka”. (G. Lukàcs, “Significato attuale del realismo critico”)

Il romanzo Il Castello, scritto intorno al 1922 e pubblicato postumo da Brod nel 1926, è l’ultimo dei tre romanzi del grande scrittore praghese Franz Kafka. Rimasto incompiuto, questa oscura opera è incentrata sui temi della burocrazia, della legge come ordine globale, dell’alienazione e della frustrazione incessante in cui versa l’uomo che tenta di integrarsi in un sistema che lo invita e lo allontana contemporaneamente.

Kafka ha lavorato con intensità al Castello nel 1922 anche se almeno l’idea del romanzo risale all’anno precedente. Uno sguardo retrospettivo alle opere di maggior rilievo culturale apparse in questo periodo serve a rilevare le divergenze e a confermare l’unicità di Kafka rispetto ai suoi contemporanei. La Cecoslovacchia, sorta dalle rovine dell’impero asburgico, non è sentita dallo scrittore come la nuova patria democratica, capace di rimuovere il suo senso di estraneità dal mondo. In tutta l’Europa centrale dilaga l’inflazione che toccherà durante la Repubblica di Weimar, punte inimmaginabili. Inutile tuttavia cercare nel Castello un’eco del presente se non in quel senso angoscioso di precarietà che pervade quotidianamente l’esistenza di Kafka. Nel territorio linguistico tedesco, l’espressionismo cede il posto al nuovo stile che sarà denominato della Nuova obiettività, ma seguito da personalità minori come Werfel e Carossa.

Brod pubblica Il Castello un anno dopo Il Processo e un anno prima di America, secondo un ordine che non corrisponde alla cronologia delle rispettive stesure (America, Il processo, Il Castello); il romanzo del 1926 presenta un poscritto che sostiene una tesi teologica e una nota che spiega i criteri dell’edizione. Kafka aveva lasciato il manoscritto senza titolo ma lo aveva sempre denominato Il Castello rimasto incompiuto a causa di alcune circostanze sfavorevoli tra le quali l’aggravarsi della malattia dell’autore, la fine della relazione con Milena, ispiratrice del personaggio di Frieda e la perenne insoddisfazione di fronte ai propri risultati che hanno sempre gettato Kafka nello sconforto.

Durante una gelida notte il protagonista, semplicemente indicato nel romanzo con l’iniziale K., giunge in un villaggio sovrastato dalla figura misteriosa di un Castello. Cercando ospitalità nell’osteria, egli sostiene d’essere un agrimensore e di essere stato invitato dal Conte Westwest, per svolgervi dei lavori. Dopo alcune incomprensioni iniziali fra K. e gli occupanti dell’osteria, K. viene ufficialmente informato di essere stato assunto dal Conte e che il suo diretto superiore sarà il Sindaco. K. conosce anche una donna, Frieda, cameriera e amante del funzionario Klamm (enigmatico antagonista principale di K.), la quale consente a K. di spiare il funzionario da un apposito buco mentre sta riposando in una stanza riservata. Frieda lascerà il suo amante per seguire K. Al risveglio K. conosce Pepi, una serva che aveva preso il posto di Frieda al banco di mescita ma che ora, purtroppo, sarebbe tornata a servire come cameriera. Il romanzo si interrompe bruscamente quando K. incontra Gerstacker, un vetturino a lui già noto, che vuole offrirgli un lavoro.

Il Castello, come pochi altri classici della letteratura del Novecento ha dato il via a una pluralità di interpretazioni e studi; la certezza è che non vi è un significato univoco: l’autore praghese con espedienti bizzarri costringe chi pensa di aver trovato il senso del suo romanzo, a cambiare strada per assumere un contegno più possibilista. Ad esempio, quando all’inizio del Capitolo II, K. vede per la prima volta i due aiutanti, gli chiede dove sono gli strumenti, loro rispondono di non averne e di non capirne assolutamente nulla di agrimensura:

“Ma se siete i miei vecchi aiutanti dovete conoscere il mestiere”.

Qui si offende deliberatamente la logica, ma a Kafka interessa lasciare nel dubbio le identità di Arthur e Jeremias e di mettere all’erta gli esegeti troppo raziocinanti. Durante il primo sgradevole incontro con il maestro (Cap. I), questi si meraviglia alla domanda di K.: “Come? Lei non conosce il Conte?”. “Come potrei conoscerlo; abbia riguardo alla presenza di bambini innocenti (in francese)”. Si potrebbe pensare che al Castello si commettano chissà quali turpitudini, ma tutto il decorso posteriore dell’azione contraddice questo sospetto: del Conte non si farà più menzione, i funzionari passano il loro tempo dormendo e seducendo di donne di bassa estrazione. Non si sa nulla della natura del Conte; ma c’è una spia rivelatrice: una donna lacera una lettera e K. durante la notte trascorsa nell’“Albergo dei Signori”, vede nel corridoio, su un carrello, un foglietto strappato da un taccuino, intuisce che potrebbe trattarsi della sua pratica, la carta che suggella il suo destino. Allora l’inserviente distrugge senza un motivo il documento deludendo non solo K. ma anche la curiosità del lettore. La vicenda resta avvolta nel mistero, in un’atmosfera di suspence come nei migliori romanzi polizieschi.

L’azione di svolge nello spazio di una sola settimana, scandita da un tempo talmente lento da sembrare immobile, in un paesaggio gelido, innevato con riferimenti alla vita dell’autore praghese: K. ha scelto di recarsi in un luogo desolato, tetro e squallido: quando Frieda si augura di vivere sotto i cieli mediterranei più tersi, K. risponde con una domanda:

“Che cosa avrebbe potuto attirarmi in questo paese tetro, se non il desiderio di rimanervi?”

Un’autoconfessione rivelatrice del significato implicito del romanzo: in questa dimora inospitale, l’uomo tenta di afferrare la propria personalità contro tutti i decreti di un’autorità che si innalza ad arbitro della sua sorte. Il Conte Westwest e i suoi intermediari impersonano quella gerarchia alla quale è oscuramente demandato di decidere il destino dell’uomo al di sopra del suo arbitrio e delle sue aspirazioni. In questo senso l’inserto di K. che da piccolo sale sull’orlo del muro che circonda il cimitero del villaggio nativo e viene rimproverato dal maestro, allude alla smania di poter gettare uno sguardo esplorativo nel regno della morte, precluso alla comprensione razionale.

Se i personaggi maschili minori sono rappresentati da Kafka in tutta la loro meschinità, le figure femminili rivelano l’abilità kafkiana di un’analisi psicologica rigorosa: Frieda, biondina gracile e scialba assurge al mito della donna mangiatrice di uomini; ella per capriccio abbandona Klamm per K., uno straniero che non le darà nessuna sicurezza.

Nell’atmosfera che avvolge il Castello i rapporti umani sono dominati dall’estraneità e dalla solitudine; il rapporto erotico tra Frieda e K. e tra Olga e i servitori dell’albergo, accentuano invece di eliminare il senso di estraneità e l’indifferenza reciproca; le discussioni non si concludono mai con un dato certo, i confronti si svolgono quasi sempre in ambienti inospitali. All’interno di questa cappa di angoscia l’autore non risparmia momenti di comicità, causati però dalla disparità tra le forze di cui dispone K. e la difficoltà del suo compito.

Kafka si avvale, come ha sempre fatto del resto, di un linguaggio paratattico, semplice, chiaro ed incisivo, a tratti perfino elementare, fatto di parole usuali, lontano sia dal naturalismo che dall’espressionismo. Nella monocromia del suo stile è racchiuso il segreto della sua arte, senza avere la pretesa di tradurre in termini razionali i segni cifrati di una fantasia che Kafka stesso ha confermato di non essere capace di spiegare fino in fondo.

 

Bibliografia: Il Castello, prefazione di R. Fertonani.

‘Il processo’ di Franz Kafka: una tragedia allegorica senza interpretazione

Franz Kafka (1883-1924) ha trasformato in letteratura tutti i molteplici influssi che gli provengono dalle sue radici: il gusto per il magico ed il misterioso caratteristico delle tradizioni di Praga; il senso di colpa e l’incubo della persecuzione tipici delle comunità ebraiche in un contesto cristiano; le tendenze al fantastico e all’irrazionale della Germania romantica. Tutto questo non basterebbe comunque a fare di Kafka uno dei più grandi scrittori del nostro secolo, se egli non lo arricchisse con le sue personali ossessioni, le sue febbrili inquietudini e angosce private: il difficile rapporto col padre, la malattia che fin da giovane lo mette di fronte alla morte, l’amore infelice per la giovane intellettuale Milena Jesenka.

Tutte esperienze personali di infelicità che lo scrittore oggettiva e universalizza nel contesto della crisi della civiltà europea e, in generale, in una denuncia dell’incubo assurdo a cui si è ridotta la condizione umana.

Di tutta la sua produzione, ricordiamo soprattutto tre grandi romanzi: Amerika (America, 1927), Das Schloss (Il castello, 1926) e Der Prozess (Il processo 1925). Proprio quest’ultimo, rimasto tra l’altro incompiuto (composto da 10 capitoli, scritto tra l’agosto del 1914 e il gennaio 1915) giunse nelle mani dell’amico Max Brod che lo valutò come la più grande opera dello scrittore. Egli dopo aver controllato il manoscritto, apportando anche qualche modifica per compensarne le lacune, rendendo il testo ben strutturato e coeso, sottoponendolo così ad un lavoro di revisione e interpolazione, contrariamente alla volontà dell’autore che desiderava che l’opera fosse bruciata dopo la sua morte, pubblicò il romanzo nel 1925. Come ha scritto  Bruno Schulz (noto scrittore polacco) nella prefazione dell’edizione del 1936:

Il romanzo, che Max Brod ricevette nel 1920 dall’autore sotto forma di manoscritto, è incompiuto. Alcuni capitoli frammentari, che avrebbero dovuto trovare la loro collocazione prima del capitolo conclusivo, vennero da lui separati dal romanzo, basandosi su quanto dichiarato da Kafka, e cioè che questo processo in idea è a dire il vero incompiuto e che le sue ulteriori peripezie non avrebbero apportato più nulla di essenziale al senso fondamentale della questione.”

Tuttavia, nonostante l’impegno, l’opera rimane sostanzialmente sconosciuta fino a dopo la seconda guerra mondiale; a partire dal 1945 infatti, la fama di Kafka si estende a livello internazionale appassionando un largo pubblico e coinvolgendo la critica in una sfida interpretativa con l’ambiguità ed il forte simbolismo dei suoi contenuti.

Il protagonista de Il processo, Joseph K., è impiegato come procuratore presso un istituto bancario. Una mattina, due uomini a lui sconosciuti (Franz e Willelm) si presentano presso la sua abitazione dichiarandolo in arresto, senza tuttavia porlo in stato di detenzione. K. scopre così di essere imputato in un processo. Pensando ad un errore, decide di intervenire con tempestività per risolvere quello che ritiene essere uno spiacevole (ma temporaneo) malinteso. Ben presto K. si rende conto che il processo intentato nei suoi confronti è effettivamente in corso; tenta inizialmente di affrontare la macchina processuale con la logica e il pragmatismo che gli derivano dal suo lavoro presso la banca, tuttavia tempi e modi di svolgimento del processo, né altri aspetti del suo funzionamento, vengono mai pienamente rivelati all’imputato, neppure durante le sue deposizioni al cospetto dei giudici. A K. non verrà mai comunicato il capo di imputazione che pende su di lui. Anche dietro consiglio di personale in servizio al tribunale, K. affida a un avvocato il mandato di difenderlo. Pur rassicurando K. in merito all’impegno profuso per il suo caso, l’avvocato pare tuttavia procedere con la medesima opacità che è propria del tribunale, mettendo in atto iniziative la cui efficacia K. non è in grado di valutare appieno. Dopo un breve periodo di riflessione, il protagonista decide di rimuovere il mandato all’avvocato, a dispetto delle raccomandazioni dello stesso legale difensore. Questa rinuncia alla difesa prelude all’epilogo della vicenda. Senza preavviso, Josef K., proprio nel giorno del suo trentunesimo compleanno, viene infatti prelevato da due agenti del tribunale e condotto in una cava, dove viene giustiziato con una coltellata alla gola. K. muore in conseguenza di una condanna inflittagli da un tribunale che non lo ha mai informato in merito alla natura delle accuse a suo carico, e che non gli ha mai fornito alcun riferimento per attuare una vera difesa.

Complesso, profondo, surreale, cervellotico, visionario, delirante, con un’infinità di prospettive e interpretazioni, questo capolavoro “astratto” della letteratura mondiale verte sul controverso tema della giustizia e di conseguenza, sulla colpa e redenzione dell’uomo. Una parola potrebbe riassumere al meglio la principale caratteristica dell’uomo kafkiano, nonché del personaggio-uomo novecentesco: angoscia. Angoscia perché non si riesce ad assere autentici, perché si è impossibilitati a stabilire rapporti veri in amicizia, in amore e con l’altro, in un mondo dove nessuno si può fidare dell’altro. Vuoto, incomunicabilità, senso di sconfitta attanagliano il protagonista che vive un fantastico (per il lettore) incubo (per lui); ciò che interessa al tribunale non è accertare il colpevole ma accertare la colpa, vale più il concetto, che Joseph K. risucchiato e schiacciato in questo labirinto onirico asfissiante e claustrofobico. Se volessimo paragonare il protagonista ad un dipinto, sarebbe senza dubbio il celebre “Urlo” di Munch, che grida tutta la sua disperazione in questo mondo infido che ogni giorno ci riserva qualche trappola, per dirla alla Mills, grande sociologo americano.

La narrazione del Processo è limpida e distaccata, si avvale di uno stile disadorno, fatto di dialoghi freddi, apparentementi normali, messa in evidenza anche dal fatto che il racconto è affidato ad un narratore estraneo ai fatti. Kafka rinuncia a neologismi e costruzioni sofisticate, prediligendo monologhi interiori. Una delle prime caratteristiche che salta agli occhi è la minuziosa attenzione che lo scrittore rivolge alla realtà: le persone, oggetti e ambienti rappresentati con estremo realismo, seppur la descrizione va al di là del realismo, al punto da accostare agli oggetti un’aurea stregata e inquietante.  Kafka ci mostra la discrepanza tra il linguaggio e la vita in questa “allegoria di cui qualcuno ha portato via la chiave interpretativa”.

Altra caratteristica è il meccanismo complesso e inesorabile della legge che all’uomo non è dato conoscere, ma che rende assurda e tragica la vita. Da ciò derivano i numerosi temi che si sviluppano nel romanzo: la solitudine dell’uomo, l’impossibilità di stabilire un rapporto col mondo che lo circonda; ma il suo atteggiamento non è di rassegnazione e vittimismo (basti solo pensare al protagonista che fino alla fine non desiste dal suo scopo).

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