“Doppio sogno” di Schnitzler, il romanzo breve che ha dato vita ad ‘Eyes wide shut’: una lettura psicologica

Doppio sogno è un romanzo breve del 1925 dello scrittore tedesco Arthur Schnitzler. Questo piccolo capolavoro narra del rapporto complesso tra un medico e sua moglie. Sono una coppia giovane e felice, però lui rimarrà turbato, dopo che si raccontano l’un l’altra fantasie e segreti, che prima di allora avevano tenuto per sé. All’inizio viene descritta una scena, simbolo di un atmosfera borghese e rassicurante: la loro figlia piccola, a cui viene letta una fiaba dai genitori, viene poi messa a letto dalla governante.

 

Doppio sogno: trama e contenuti

 

Ma il giovane medico Fridolin deve uscire quella sera per recarsi da un paziente, che versa in gravi condizioni. Una volta giunto a destinazione trova l’uomo già morto e viene sedotto dalla figlia del defunto davanti alla salma. Dovrebbe tornare a casa, ma finisce per vagare tutta la notte. Si fa sedurre da una passeggiatrice, che lo porta nella sua casa, ma con cui non conclude niente. Entra in un caffè notturno e qui incontra un suo vecchio compagno di università, che ora fa il pianista.

Quest’ultimo gli racconta che quella stessa notte dovrà suonare ad una festa da ballo con gli occhi bendati, anzi riesce a guardare “nello specchio attraverso il fazzoletto di seta nera che copre gli occhi”. Non conosce i partecipanti della festa mascherata, né il proprietario. Fridolin rimane affascinato dalla strana storia ed esprime il desiderio di voler entrare nella villa dei misteri. Il pianista gli risponde che deve procurarsi un saio scuro ed una mascherina nera. Il medico allora si reca dal mascheraio, dove ha modo di imbattersi nella piccola Pierette, forse una pazza, che viene sorpresa con due signori nel negozio.

Fridolin riesce ad entrare nella villa, ma viene smascherato. Sapeva la parola d’ingresso, ma non la parola d’ordine della casa. L’attende una punizione estremamente severa, forse dovrà pagare con la vita stessa, ma una donna lo riscatta e si dichiara di tutti. Successivamente scopre che la donna, che si è sacrificata per lui, ha pagato con la vita. Nonostante il medico viva queste esperienze al limite da solo, va detto che nelle donne, che incontra, ricerca sempre ossessivamente la moglie.

Una lettura psicologica

Doppio sogno è stato reso famoso dalla trasposizione cinematografica di Kubrick dal titolo Eyes wide shut”. Il film però non è totalmente fedele al libro. Kubrick infatti ambienta la vicenda nella New York dei nostri giorni, mentre invece nell’opera originale ci imbattiamo nella Vienna di fine secolo. L’alta società di Vienna in quel periodo si dedicava all’edonismo sfrenato con frequenti feste di ballo, perché non voleva affrontare direttamente i grandi cambiamenti culturali, sociali e politici di quell’epoca di transizione. Schnitzler prende spunto da questo atteggiamento mentale, assai diffuso al tempo, per indagare sulla natura umana e sui meandri della psiche, riuscendo ad esplorare zone d’ombra che nessun altro scrittore era mai riuscito a cogliere pienamente.

L’interrogativo di fondo di Doppio sogno è se sia opportuno dirsi tutto tra coniugi, rivelarsi anche le fantasie più inconfessabili o se sia meglio far prevalere il non detto. La scelta cruciale è tra l’incomunicabilità all’interno della coppia e quella che lo psicologo Bergler definiva “la delusione rispetto all’ideale dell’io”.

Quest’ultima espressione significa che una persona può subire una ferita nell’animo, constatando lo scarto significativo tra l’idealizzazione del partner e l’effettivo modo di essere della persona amata. Come se non bastasse la rivelazione di fantasie sessuali può far scaturire la gelosia da parte di entrambi.

Nell’opera di Schnitzler il protagonista Fridolin, dopo aver ascoltato le fantasie ed i sogni della compagna, subisce uno smacco notevole, sia perché capisce la complessità delle dinamiche del desiderio femminile, sia perché implicitamente ritiene scontato un monopolio sessuale nei confronti della moglie, ritiene di avere un diritto di proprietà su di essa. Lo stesso sentimento di gelosia che prova è difficile da decifrare: è un impasto, una commistione tra desiderio di possesso esclusivo e angoscia per una possibile separazione dal proprio oggetto di amore. Ma quando una coppia inizia un percorso di conoscenza e di autoanalisi così intimo il rischio è che uno dei due scambi le fantasie dell’altra metà per tradimenti effettivamente avvenuti e mascherati sotto forma di desideri mai messi in pratica. Schnitzler è geniale ad evidenziare le contraddizioni insanabili all’interno della coppia.

Tra Freud e Adler

Questa opera di Schnitzler potrebbe essere interpretata secondo certi criteri freudiani. Ma è altrettanto vero che Schnitzler non fu mai debitore di Freud. Entrambi giunsero alle solite conclusioni, però tramite mezzi diversi: Freud con l’analisi, l’artista con “l’autopercezione”.

Freud nei “Tre saggi sulla teoria sessuale” sostiene che “l’occhio è come il corrispondente di una zona erogena”. Il piacere di guardare non è altro che una pulsione parziale secondo Freud, che può avere come antagonista solo la vergogna ed il pudore. Il protagonista di “Doppio sogno” è preso dal piacere di guardare tutte le donne nude alla festa mascherata, però questo voyeurismo sconfina e si sublima nell’epistemofilia (nel desiderio di conoscere e di indagare la realtà). Il medico Fridolin infatti vuole conoscere i propri recessi psichici, le fantasie erotiche della moglie e vuole sapere chi sono le persone che hanno partecipato alla festa. Non a caso l’ultima parte del libro tratta proprio dell’investigazione privata del medico per smascherare i responsabili di quell’orgia.

Da notare inoltre il conflitto intrapsichico del protagonista maschile tra erotismo e pulsione di morte: da una parte questa forza primaria che dovrebbe unire e legare e dall’altra una tempesta che dissolve le relazioni e distrugge i legami.

Infine un’ultima considerazione: Schnitzler con questo libro sembra volerci dire che fare un’analisi dei desideri all’interno di una coppia non è detto che sia un requisito indispensabile per due sposi, anzi talvolta può rivelarsi controproducente ed inquietante.

Lo stesso Adler, fondatore della Società di psicologia individuale, riteneva che la cooperazione fosse un presupposto fondamentale per il benessere della coppia piuttosto che il soddisfacimento della pulsione sessuale o lo scandagliare i desideri repressi dell’altra metà. Ognuno dei due partner, secondo lo psicologo austriaco, deve sentirsi parte di un tutto, deve imparare a fare le cose in due, nonostante che la società educhi al lavoro individuale e raramente al lavoro di gruppo, ma mai al lavoro di coppia.

I matrimoni infelici nascono quando uno dei due vuole sempre ricevere qualcosa, senza dare niente in cambio. Per Adler quindi il matrimonio è un compito comune. Emblematica a questo riguardo la singolare tradizione in una regione della Germania, che ci narra Adler. Per testare se dei fidanzati possono realizzare un matrimonio felice devono segare insieme un tronco d’albero con una sega con due manici. Per realizzare efficacemente questo lavoro ci vogliono coesione ed affiatamento; infatti se i due non si agiscono in modo sincronico e complementare non concludono niente.

Per Adler quindi è fondamentale la cooperazione, piuttosto che il sesso ed i desideri sessuali. E non è assolutamente detto che ricercare la cooperazione sia più difficile che trovare la fiducia reciproca per svelare le proprie fantasie.

 

Di Davide Morelli

Hilda Doolittle, la poetessa americana che amava la mitologia classica e l’imagismo e che stregò Ezra Pound

Nata a Bethlehem, in Pennsylvania, il 10 Settembre del 1886 da Helen Wolle, morava, amante della musica e pianista, e da Charles Doolittle,  professore di astronomia presso la Lehigh University, la vita di Hilda Doolittle è stata molto ricca di viaggi, incontri personali e culturali. La coppia ha cinque figli, di cui una morta subito dopo la nascita. Nella famiglia Doolittle vive inoltre un altro figlio di primo letto del padre. Hilda cresce dunque con cinque fratelli maschi.

Conosciuta semplicemente con le iniziali H.D., la poetessa Hilda Doolittle studia letteratura greca al Bryn Mawr College di Philadelphia, ma si ritira prima di aver concluso gli studi. Nel 1907, per un solo anno, è fidanzata con Ezra Pound. Le sue poesie, apparse su “Poetry” nel 1913, sono da questo definite come un perfetto esempio di poetica imagista.

Tuttavia già negli anni della prima guerra mondiale lo stile della Doolittle si avvicina più a quello dell’antica Grecia, sia per i temi trattati sia per il linguaggio. La Doolittle pubblica alcune traduzioni dal greco come l’Ippolito di Euripide e anche adattamenti di testi teatrali greci, come Ippolito temporeggia (1927). Durante la seconda guerra mondiale vive a Londra e compone The gift, che sarà pubblicato nel 1960 e 1982. Tra il 1944 e il 1946 pubblica Trilogy, Tribute to the Angels e Flowering of the Rod. Successivamente si dedica alla scrittura del poema Helen in Egypt (1961).

Hilda Doolittle è stata una musa scontrosa per molti. Nel 1913 sposa Richard Aldington, poeta potente e studioso di letteratura, da cui ha un figlio. Nel frattempo, H.D. coltiva una relazione con Cecil Gray, compositore decisamente più giovane di lei, di cui rimane incinta, partorendo Perdita, nel 1919. Nello stesso tempo, flirta con D.H. Lawrence benché il rapporto più sincero e duraturo sia con Annie Winifred Ellerman, scrittrice, nota come “Bryher”.

Pressoché sconosciuta in Italia Hilda Doolittle è stata la prima donna a vincere la medaglia dell’American Academy of Arts and Letters.

La sua poetica è caratterizzata dall’intensa forza delle immagini, dall’uso limitato delle parole e della mitologia classica. Non ha mai conosciuto il successo, anche perché il suo nome è rimasto a lungo confinato con il movimento imagista, presto superato. Anche i suoi messaggi potevano non essere compresi o accolti con favore, dal momento che affrontava temi femministi e lesbici, dovuti ad una vita  fuori dal comune. La sua riscoperta è degli anni settanta, quando ovviamente il movimento femminista ne ha fatto un’icona, probabilmente più per l’inusuale stile di vita, che per l’opera letteraria, seppur valida.

La vita e l’opera della poetessa americana dallo sguardo fiero e malinconico, riassumono i temi principali del modernismo: la fine delle certezze vittoriane, un’epoca dominata da famelici cambiamenti tecnologici, la violenza di due guerre mondiali, la distruzione dei sistemi simbolici tradizionali, la ricerca di nuovi miti.

 

CALORE

O vento, strappa il calore,
dividi il calore,
laceralo in stracci.

La frutta non riesce a cadere
attraverso questa aria densa―
la frutta non può cadere nel calore
che schiaccia e smussa
le punte delle pere
e arrotonda l’uva.

Taglia il calore―
apriti un varco attraverso di esso,
ruotandolo in ogni lato
del tuo cammino.

 

ELENA

La Grecia tutta odia
lo sguardo fermo sulla faccia bianca,
la limpidezza degli ulivi
dove si riposa
e le sue mani bianche.
La Grecia tutta disprezza
il candore del suo viso che sorride,
cresce bianco e innocente
insieme all’odio
ricordano l’incanto passato
i passati mali.
La Grecia fissa impassibile
la figlia di Dio, nata nell’amore,
la bellezza dei piedi leggiadri
e le ginocchia sottili,
potrebbe amare quella ragazza
solo se fosse deposta

 

Psicoanalisi e surrealismo, il romanzo psicoanalitico: Freud, Lacan, Breton, Allan Poe e Dalì

Uno dei primi surrealisti, Emile Malespine, affermava che per capire Freud occorreva inforcare dei testicoli come fossero occhiali.
Fatto sta, che il padre della psicoanalisi ha contribuito non poco ad alimentare la fantasia e stimolare il genio creativo di molti artisti, in particolar modo dei surrealisti, appunto. Nondimeno, la letteratura è sempre stata di grande ispirazione per Freud, tanto che per molti la psicoanalisi è essa stessa un’opera d’arte molto simile a un romanzo. Ma come si sono conosciuti psicoanalisi e surrealismo e com’è nata la reciproca attrazione? Attorno al 1915, Luis Aragon e André Breton, studenti in medicina, interessati alla neurologia e alla psichiatria, hanno fatto propri i lavori di Pierre Janet, professore al Collège de France e, all’epoca, figura di spicco della psicologia. Nel suo saggio “Automatisme psychologicque” del 1889, Janet sosteneva il ruolo fondamentale dei traumi psicologici sulla frammentazione dello spirito e anticipava di poco Freud nell’affermare l’importanza dei ricordi subconsci nella quotidianità.

Su questa scia intellettuale e culturale, nel 1924, Breton formula il ben noto manifesto del surrealismo, definendolo “un automatismo psichico puro per mezzo del quale ci si propone di esprimere, o verbalmente, o per iscritto, o in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato dal pensiero, in assenza d’ogni controllo esercitato dalla ragione, al di fuori d’ogni preoccupazione estetica o morale … “

I surrealisti, quindi, hanno cominciato a considerare la creatività automatica come una forma di attività artistica superiore, l’unica in grado di raggiungere la fonte della creazione poetica suprema, svincolata dalla tirannia della ragione, appellandosi a quel nebuloso universo subconscio tanto proclamato da Freud. Breton, in realtà, aveva letto solo documenti di seconda mano riguardo Freud e le sue teorie, anche perché lui, così come la maggior parte dei suoi colleghi, non conosceva il tedesco. Nel 1921, decise di fare un viaggio a Vienna proprio per incontrare il mitico padre della psicoanalisi, il quale però pare lo ricevette piuttosto sbrigativamente, liquidandolo con una compassionevole pacca sulla spalla. Nonostante la sua delusione, Breton sostenne la psicoanalisi, sopportando anche le forti e continue tensioni ideologiche tra il movimento surrealista e quello psicoanalitico.

I surrealisti, infatti, non hanno mai sposato uno dei concetti fondamentali della psicoanalisi, quello del complesso d’Edipo, definendolo come una ridicola uniforme per un astratto manichino. Era il sogno l’anima del surrealismo. Così Freud, consapevole e forse un po’ invidioso del crescente riconoscimento che questi giovani sobillatori stavano conquistando anche in virtù di alcune sue teorie, cominciò a intrattenere una fitta corrispondenza con Breton. L’argomento fondamentale del loro epistolario era la relazione tra sogno e creazione artistica e, pare, che il tono tra i due fosse sempre piuttosto teso, reciprocamente sfidante come fossero due duellanti calamitati da sentimenti contrapposti d’amore e odio, sempre in bilico tra l’ironico e il pedante. Breton fu comunque fino all’ultimo un ammiratore di Freud, pur mantenendo una certa distanza dalle sue teorie, così come dal leninismo e dal marxismo, tanto che prese fermamente le sue difese durante la persecuzione nazista del 1938.

D’altro canto, anche la psicoanalisi è stata fortemente influenzata dal surrealismo. Jacques Lacan, che frequentò filosofi come Heidegger, Claude Levi-Strauss, dedicando molta attenzione anche alla teoria della comunicazione di un linguista come Jakobson e per il quale bisognava liberare l’Io dal proprio narcisismo per far venir fuori l’inconscio, entro della vita pulsionale del soggetto e condizionato dal linguaggio e che coincide con la totalità del soggetto stesso, mentre la cura cerca la Verità non la guarigione. Appare quindi evidente come il tema della contaminazione di saperi sia stato centrale nella vita di Lacan e non sia estraneo alla sua idea di formazione. Tema che è spesso al centro dei pensieri di Lacan e su cui combatte le principali battaglie della sua vita professionale. Inoltre, nel 1956, ne “Il seminario su La lettera rubata”, Lacan commentò al racconto di Edgar Allan Poe, elaborando la tesi che collega l’elaborazione di Freud sulla pulsione di morte alla presa dell’ordine simbolico, responsabile innaturalità dell’esistenza umana.

Battaglie che daranno origine a strappi che possiamo senza dubbio definire drammatici.  S’ispirò quasi certamente a Salvador Dalì nel suo famoso metodo della critica paranoica e gli stessi concetti di dialettica del desiderio, immaginario e inconscio strutturato sembrano ispirarsi in tutto e per tutto a due opere di Breton, L’Amour fou e Le message automaticque.
L’irriverenza e la licenza artistica dei surrealisti ha, infine, permesso loro di sopravvivere alla prepotenza della psicoanalisi, traendo il meglio di Freud per elaborare in maniera originale i metodi di esplorazione delle origini nascoste della metafora. Ogni opera surreale, infatti, può essere interpretata come metafora della realtà trasferendo così al fruitore un messaggio vivo, con una forza devastante, in maniera molto più eloquente e incisiva di qualsiasi opera dichiaratamente realista. In questo, lo scrittore surrealista somiglia un po’ a un astronauta ribelle che se ne va a zonzo nello spazio creativo per i fatti suoi, in un altrove letterario dove tutto è possibile, prendendo per mano il lettore e trasportandolo in un metauniverso colorato, onirico, senza confini, lasciandolo libero di pensare senza mai farlo prigioniero. Forse, Freud – ma questa è solo una mia fantasia – era persino invidioso di questo magico dono proprio degli artisti surrealisti, quello cioè di poter trasformare i sogni ad occhi chiusi in un prolungamento verso la realtà, traducendoli in sogni ad occhi aperti.

Si sa, i poeti, quelli veri, vedono sempre più lontano!
Anche Freud, comunque, ha avuto le sue soddisfazioni in campo letterario, realizzando forse un sogno ad occhi aperti, tanto da meritarsi il premio Goethe, conferitogli nel 1930 a Francoforte. Se tutta la psicoanalisi può essere considerata davvero come uno strabiliante romanzo, la sua più bella creazione è, infatti, Freud stesso, il suo romanziere. Nel bene e nel male. Sigmund, come il Sigfried di Wagner, ha saputo forgiarsi una spada invincibile, che i nani della sua epoca mai avrebbero saputo inventare. Una spada cesellata di ‘inconscio’ e ‘resistenze’, inattaccabile quindi dalla ragionevole sfida intellettuale, e affilata da una dialettica potente e suggestiva, da far invidia a qualsiasi narratore d’ogni tempo. Non per niente – forse non tutti lo sanno – Sigmund in tedesco significa ‘bocca trionfante’, e questo eroico nome, accanto al cognome Freud, che significa ‘gioia’, sembra incredibilmente predire il senso della vita di quest’uomo, che ha fatto della sua esistenza una leggenda.

Se Freud era ambivalente nei confronti degli scrittori surrealisti, amava molto, invece, leggere Conan Doyle. Apprezzava particolarmente il metodo d’indagine logica di Sherlock Holmes che, in fin dei conti, non è poi molto lontano da quello di Freud stesso, perché gioca attorno a continue interpretazioni che sembrano dedotte da osservazioni altamente scientifiche. E guarda caso, il personaggio inventato da Doyle ha finito per prendere corpo, diventare un fantasma in carne ed ossa, tanto che per parecchio tempo, la posta di Londra ha ricevuto lettere indirizzate a: Sherlock Holmes, Baker Street 221b. Allo stesso modo, al numero 19 della Bergasse di Vienna, Freud analizzava le sue e i suoi pazienti come un artista all’opera. Immaginava di vedere sfilare davanti a sé l’inconscio delle persone, così come un viaggiatore seduto in treno, dal suo vagone, osserva il paesaggio scorrere e fluire fuori del finestrino. E così facendo, affrontando i demoni della psiche, assorbendo sensazioni e annotando fiumi di interpretazioni, questo Sherlock Holmes dell’anima ha scritto non solo il suo personalissimo, intimo romanzo, tessuto di sogni, fantasie, pulsioni, paure, frustrazioni e desideri altrui ma ha scolpito anche l’immenso prologo dell’intera storia della psicoanalisi, trascendendo la storia stessa per entrare definitivamente nella leggenda.

Non capita spesso che il senso del proprio vissuto sia compreso durante la vita stessa, più facile è lasciare che siano gli altri, a posteriori, a darne interpretazioni e giudizi. Invece, Freud sembrava rendersi perfettamente conto dell’impronta indelebile che stava lasciando sul suo cammino, tanto che durante uno dei suoi dialoghi con gli amici pare abbia affermato: “Se le mie deduzioni dovessero far nascere l’opinione che io abbia scritto un romanzo psicanalitico, risponderei che io stesso non mi esagero la portata dei miei risultati.”

Questo conferma, infine, come Freud e la psicoanalisi siano intimamente affini al surrealismo, invischiati in un reciproco e fertile contagio tuttora vivo e palpitante. E alla famosa massima cartesiana Cogito ergo sum, ovvero Penso dunque sono, emblema del realismo, l’irriverente surrealismo bretoniano ribatterebbe con un ironico sorriso, parafrasando così: Penso dunque sogno. In parole più esplicite, se il realismo mira all’essenza dell’Essere, il surrealismo aspira al suo Mistero, esattamente come la psicoanalisi.

 

Fonti:

http://www.outsidernews.net/psicoanalisi-e-surrealismo-la-strana-coppia/

‘Padre Padrone Padreterno’, il saggio sulle culture di Joyce Lussu

Padre Padrone Padreterno di Joyce Lussu si palesa come tentativo di avviare una riflessione critica sulla possibilità di «spiegare e comprendere, integrare e giustificare, senza conquistare e colonizzare, ma fiorendo in un destino babelico e non monoteista, non biblico, non universale, non imperialista, a favore del colloquio tra i mondi, stando insieme alla pari nelle differenze delle culture». Il dibattito odierno intorno alla “Cultura di Genere” rappresenta un tentativo per vivificare i mondi e per incentivare le intelligenze. Cogliere il “vissuto”, implica il non avvalersi esclusivamente delle discipline istituzionali, andare ben oltre le storie letterarie o gli studi critici. Oggi più che in passato, occorre vivificare il sapere per tradurre quei valori che rispettino le pluralità e che non si riducano al semplice confronto. A tal fine Padre Padrone Padreterno è uno strumento privilegiato e ancora attuale per il metodo in fieri che propone. Una prassi aperta ad ogni tipologia di dialogo, interdisciplinare, mossa da un interesse grande e plurimo, che superi l’approccio accademico, a favore della diversità. Il dibattito sui “Gender Studies” dimostra quanto sia necessario che la ricerca sia adeguata all’epoca in cui viviamo e che abbandoni ogni forma di pregiudizio etnico e sessuale.

Nonostante nomi illustri si siano occupati della questione di genere, ho preferito scegliere una voce dimenticata (o volutamente ignorata dagli imbonitori del sapere), e che al contrario io reputo una delle pensatrici più autorevoli e fuori dal coro. Joyce Lussu è ritenuta una donna di confine che ha adoperato un metodo d’azione. Infatti, il suo partire dal basso, le ha consentito di svolgere uno studio pioneristico sul “pensiero della differenza”. Quest’ultimo è pieno di risonanze ancora attuali, scevro da cerebralismo ma aperto all’incontro, tanto da risultare distante dal populismo arcaico. La pensatrice al concetto di genere, che sembra andarle stretto, predilige lo sconfinamento dei paradigmi. Vi si scorge una permanente tendenza a non farsi escludere perché donna, senza però l’aspirazione a mascolinizzarsi. L’agire come donna, il sentirsi sempre più donna è l’apprezzamento autentico e onesto della diversità e della complementarietà:

«Essere donna l’ho sempre considerato un fatto positivo, una sfida gioiosa e aggressiva. Qualcuno dice che le donne sono inferiori agli uomini, che non possono fare questo e quello? Vi faccio vedere io! Che cosa c’è da invidiare agli uomini? Tutto quello che fanno, lo posso fare anche io. E in più, so fare anche un figlio».

La tesi che la Lussu sviluppa nel suo scritto, è che in una società dove la disoccupazione e la sottoccupazione obbligano gli individui a difendere il proprio posto di lavoro per disperata necessità, emerge sempre la diseguaglianza; al contrario, in un sistema capitalistico arretrato, l’economia si reggeva sui risparmi domestici, mansioni assistenziali gratuite e creava le strutture culturali adeguate a giustificare questo stato di cose, dalla morale piccolo borghese alla religione. All’interno di tale sistema, donne ma anche uomini sono schiacciati dalla Restaurazione Capitalistica, e a maggiore ragione è necessario legare una volta per tutte la teoria alla prassi, al di fuori delle tavole rotonde istituzionali (espressione di forme stantie e ipocrite di indottrinamento), per procedere fuori dal gioco e per acquisire un linguaggio inedito.

Quel che secondo la lungimiranza dell’autrice mancava allora, e aggiungo anche oggi, è la consapevolezza rigorosa dei fenomeni che condizionano l’esistenza attuale. Manca, dunque, una conoscenza delle cause e ci si affretta a trovare soluzioni per falsi teoremi e per mere fallacie logiche. Pertanto occorrerebbe, secondo l’autrice, operare una ricerca storica per una riflessione critica. In momenti come quello odierno si recuperano o si inventano miti per preservare il potere delle classi dominanti. Ed ecco “gli anatemi sessuofobici, fallocratici, misogini”. È proprio nell’ambito di quella che Pareto definisce “eterogeneità sociale”, che la donna resta un ottimo capro espiatorio. Infatti questa strategia è una componente costante del potere di una minoranza sfruttatrice, per deviare l’attenzione delle masse dai responsabili delle sue sciagure e indirizzarla su falsi scopi. Ad esempio, per trasformare i contadini della metropoli in proletariato industriale è bastato sradicare le tradizioni, la cultura autoctona, per fornire manodopera a buon mercato.

Per comprendere a pieno anche il presente occorre fare un bel passo indietro, là dove il sistema capitalistico affonda le proprie radici. In Italia la politica di massa della Chiesa si sviluppa dopo il Concilio di Trento. Il potere teocratico con l’affermarsi della scienza che indaga sulle leggi della materia e dell’energia, si trova di fronte un nemico più pericoloso delle eresie. L’eresia infatti, rimaneva sempre all’interno del sistema teocratico, accettava i principi della trascendenza e della rivelazione, e cercava tutt’al più di tirare dalla parte dei poveri un dio inventato per i ricchi. La scienza invece è antitetica ai principi stessi della teocrazia, ne corrode i fondamenti; tanto più che si sviluppa all’interno della classe dominante, dividendola in due tronconi antagonistici e rischiando di indebolire il potere. Ciò assicura una riserva di forze conservatrici negli strati sociali emergenti e tenuti a bada con la repressione per ottenere il consenso. L’azione persuasiva consente l’integrazione nella cultura del potere e si consolida recuperando antichi culti animistici che, potenziando forme più primitive di superstizione, hanno dato luogo alla Democrazia Cristiana. Privilegiare una minoranza del popolo oppresso, assicura il consenso per poter meglio opprimere la maggioranza. Si assicurano alcuni benefici per impedire qualsiasi mutamento essenziale del loro status. Tale processo si cristallizza mediante una sedimentazione interiorizzata di quei modi di agire, di pensare e di sentire che appaiono come naturali e ovvi e non come rappresentazioni sociali. Passiamo ora in rassegna il famigerato ’68. Dunque, secondo l’autrice esso è servito a sgombrare il terreno da sclerosi sovrastrutturali mantenendo ben salde quelle strutturali, le cui radici a mio avviso sono ancora oggi profonde e robuste. Il gap a cosa può essere attribuito? Ancora una volta è mancata una collocazione storica, la quale doveva fungere da bussola e da criterio di omogeneità.

Quel che però emerge dall’analisi dell’autrice è che il ’68 ha privilegiato le componenti sociologiche, psicologiche, esistenziali e culturali in senso tradizionale e umanistico. Come se i problemi dell’umanità non fossero quelli della sopravvivenza. È mancata la concretezza delle problematiche inerenti le coltivazioni di cereali, o una industrializzazione che non renda invisibile il pianeta, la creazione di energia o una regolamentazione delle acque, il rapporto industria-agricoltura, città-campagna, essere umano-ambiente, il superamento della frattura antidemocratica tra lavoro manuale e intellettuale. Il disappunto dell’autrice non risparmia neanche i due capisaldi istituzionali per eccellenza, ovvero: la politica e la famiglia. La Nuova Sinistra colpevole di aver visto nella lotta armata una forma di contestazione romantica, di aver dato origine ad una ideologia tutta borghese e frutto di una interpretazione sommaria della Rivoluzione Cinese. Quest’ultima intesa come una mitologia semplificata e agiografica con un eurocentrismo ereditato dai partiti tradizionali. La famiglia, invece, rea di un patriarcato fatiscente per mancanza di aspiranti patriarchi, ossia di uomini in grado di assumersi l’onere di mantenere una casalinga natural durante. Porre le questioni in termini statistici e di ragioneria serve soltanto a consolidare e ammodernare la società capitalistico-borghese, mentre la parità reale richiede un mutamento profondo e generale di tutti i rapporti all’interno della società. Ogni indagine necessita di un approccio storico.

Infatti, se si adoperasse una lente meno ideologica, ci si accorgerebbe che la questione sessuale nella civiltà occidentale assume ancora oggi aspetti ossessivi. Secondo la Lussu, la sessuofobia e la misoginia del Cristianesimo ( che in realtà appartiene alla Chiesa) hanno fatto di questa naturale attività umana, una fonte perenne di terribili drammi e nevrosi distruttive, che non si risolvono certo con la psicoanalisi o le tavole rotonde di qualsiasi natura e luogo, anche se infiocchettate con i migliori propositi che danno vita ad una vuota e inefficace retorica. Freud e Reich sono sessuofobi e misogini quanto i Padri della Chiesa. Ernest Bornemann è l’unico che abbia fatto un’indagine approfondita sul patriarcato, non è certo uno psicanalista ma uno storico. Se si considerano i miti della verginità o i miti della monogamia della donna, emerge che l’uomo esprime la propria sessualità sempre in ogni epoca, in modo egoistico, autoritario, accumulando le frustrazioni. Anche l’uso della sessualità è un fatto politico, risultato del Contratto Civile e Culturale della società. Le determinazioni sono ricavabili dalle strutture e dalle sovrastrutture della nostra vita. Pertanto liberarsi dalle abitudini mentali indotte dal Cristianesimo, vuol dire anche liberarsi dalle strutture economiche e produttive che il terrorismo psichico ha puntellato non meno di quello giuridico-poliziesco.

Le nevrosi sono aggravate da:

Insicurezza economica;

Instabilità sociale;

Degradazione dell’ambiente;

Sono vere intossicazioni consumistiche, ragion per cui occorre conoscere non solo gli effetti che ci hanno imposto e che dobbiamo eliminare dalla nostra coscienza ma occorre conoscere soprattutto:

Le Cause ;

Le Responsabilità;

I Condizionamenti;

La visione pessimistica della sessualità, tipica della psicoanalisi, è di chiara derivazione cristiana e fa comodo solo alla classe dominante. Presentati come fenomeni “naturali” e non storici, persuadono uomini e donne alla rassegnazione, all’adattamento e a squilibri che mutilano la propria autonomia generale e deprimono la gioia di vivere, generando sfiducia. L’Autonomia dalle interiorizzazioni, in modo non astratto, è possibile mediante una consapevole appropriazione storica. Non possiamo astenerci dal pensare alla metodologia weberiana. E cosa dire della famiglia, oggi nuovamente di moda e soluzione a tutti i mali? L’aggregato familiare non esiste più come nucleo stabile, è stato disintegrato dall’industrializzazione, dalla mercificazione consumistica, dai mass-media che bombardano con le più infinite contraddizioni e disinformazione permanente. Oscena simulazione nell’ordine delle strategie fatali di baudrillardiana memoria. Il risultato di tale strategia è:

Difficile coesione su progetti razionali;

Guazzabuglio;

Sedimentazione di antiche consuetudini mentali e psicologiche.

Alla classica divisione tra lavoratori manuali e padroni, si aggiunge una divisione tra integrati e non integrati ai livelli più vari. Nella società altamente industrializzata dalla impresa capitalistica, è sempre più vasta la schiera degli emarginati. Dal disoccupato con laurea al disoccupato manovale, passando per milioni di donne che si aggirano tra gli elettrodomestici e bambini nella solitudine di appartamenti unifamiliari. La figura del Padrone e del Patriarca si è dilatata in enormi, anonimi e misteriosi centri di potere che dominano la produzione e la distribuzione dei beni con decisioni occulte. Figura che si cela dietro sigle inafferrabili delle multinazionali, dell’alta finanza, e che dietro il paravento del “segretissimo” militare, organizzano le industrie per la guerra atomica, chimica e batteriologica. Il capitalismo per tenere in piedi i suoi fondamenti ricorre all’autoritarismo violento o paternalistico, al colonialismo, alla guerra e al fascismo. L’industria capitalistica non è pensabile senza il settore bellico, il colonialismo e la distruzione del territorio. Tuttora in atto nella matrice costante ma in una veste che non è certo quella tradizionale e alle quali si è soliti pensare. Occorre non confondere la forma con la sostanza, i fini con le cause, i mezzi con gli effetti. Lo stesso dicasi per il femminismo borghese, che è un aspetto del riformismo, usato dal capitalismo avanzato per integrare la donna nei suoi meccanismi. Mantenendo salda la distinzione e la differenza tra “femminismo” e “la questione femminile” è quanto mai vitale che il dialogo, le piattaforme e i modi debbano avere luogo in un altrove autonomo, sottratto al formalismo e al linguaggio istituzionale, se si desidera investire concretamente in una svolta che non sia apparenza, tautologia o becero sofismo.

Il personaggio-uomo, protagonista indiscusso del romanzo del Novecento

Protagonista indiscusso del romanzo del ‘900 è il cosiddetto personaggio-uomo, termine coniato dal critico piemontese Giacomo Debenedetti, il quale, attraverso autori come Kafka, Proust, Svevo, Pirandello, Tozzi, Joyce, pone l’attenzione sulla rottura che il romanzo dei primi decenni del ‘900 segna con il romanzo ottocentesco naturalista. Quest’ultimo si preoccupava di analizzare il visibile, occultando il materiale narrativo-descrittivo; il romanzo novecentesco fa esattamente il contrario: disocculta la realtà, epifanizza, per usare un termine caro a Joyce, soprattutto il personaggio, o meglio, il personaggio uomo o l’anti-personaggio.

Questo personaggio-uomo è sempre in trincea, come se fosse un pezzo sparso di un mosaico che si compongono e scompongono di continuo, è un’entità deformata che sembra essere uscita da un quadro espressionista (emblematico a tal proposito è il celebre dipinto di Munch “L’urlo”); dominato dall’angoscia e dall’inettitudine, perde la sua identità e diventa un alter  ego del lettore. Ma è  ancora Giacomo Debenedetti a fornirci un ritratto preciso di tale personaggio nel suo saggio “Il personaggio-uomo nell’arte moderna” del 1963: <<Chiamo personaggio-uomo quell’alter-ego, nemico o vicario che […] ci viene incontro dai romanzi e adesso anche dai film. Si dice che la sua professione sia quella di risponderci, ma molto più spesso siamo noi i citati a rispondergli. Se gli chiediamo di farsi conoscere, […] esibisce la placca dove sta scritta la più capitale delle sue funzioni, che è insieme il suo motto araldico: si tratta anche di te>>.

Un’importante caratteristica che emerge leggendo i ritratti dei vari personaggi-uomo dei romanzi del Novecento è l’assenza di bellezza fisica, i personaggi-uomo subiscono un abruttimento fisico che Debenedetti fa risalire a Dostoevskij e che mette in particolare evidenza in Tozzi ( iniziatore, con Svevo, del romanzo moderno in Italia) e in Pirandello. La coscienza frammentaria del  personaggio-uomo coincide, se volessimo fare un parallelo con la fisica (grande protagonista del Novecento), con la scissione dell’atomo.

Ma perché i protagonisti dei romanzi del ‘900 soffrono la vita? Per rispondere a questa domanda è utile chiedere supporto alla sociologia e alla psicoanalisi. Il nuovo personaggio di fronte alle tragedie della vita invece di lottare per venirne fuori, dovrebbe, secondo Debenedetti, <<sciogliere il problema di struttura storico-sociale>>. La colpa quindi non è  dell’ uomo inetto, ma è del problema stesso, che trascende noi stessi; più banalmente si potrebbe dire che la colpa è del destino di fronte al quale l’uomo ha pochi mezzi per cambiarlo a suo vantaggio, questa impotenza porta molto spesso l’uomo ad essere distruttivo ed autodistruttivo, sentendosi ogni giorno in trappola e vivendo una doppia vita, quella privata e quella pubblica, poiché l’uomo è fortemente influenzato dalla società in cui vive ma non sa che il suo disagio è legato a mutamenti strutturali come ha giustamente osservato il sociologo americano Wright Mills.

Se la sociologia pone l’accento sul rapporto uomo-società- collettività, la psichiatria osserva certe nevrosi che appartengono, perlopiù, alle classi sociali abbienti, alla borghesia; la psicoanalisi arriva ad individuare una scissione nell’unità della persona, a stabilire i termini dell’inconscio, Io ed Es, l’Io che rappresenta la nostra maschera (qui intesa come persona) e quell’Altro da sé che è nel sé. Ma il medico austriaco guarda la malattia da un altro punto di vista che implica uno stoico ottimismo: potenzialmente tutti gli uomini sono malati, ma il fine di questa malattia è la trasformazione interna, anche morale, dell’individuo. Questo non significa che bisogna rinunciare a curare il paziente, ma è necessario che quel disagio, quella nevrosi, sia vissuta liberamente in tutte le sue manifestazioni per poter sprigionare i suoi effetti rinnovatori. Visione non alla portata di tutti, quella di Freud, soprattutto per la nostra epoca “ipocondriaca” , dove difficilmente si riflette sul proprio malessere e lo si vive come una possibilità, un’ occasione oper migliorarci e per scoprire le nostre potenzialità, essendo troppo presi dal successo, dal lavoro, dalla fretta, dalla brama di essere protagonisti a tutti i costi.Dati questi fattori, non c’è spazio per l’uomo contemporaneo per vivere la malattia secondo un’altra prospettiva.

Anche Jung condivide l’idea della malattia come “bene doloroso” ma, a differenza di Freud, che ha deciso di fare lo scienziato e il medico, restando fedele alle sue scelte professionali iniziali, lo psichiatra svizzero, come dice Debenedetti ne Il romanzo del Novecento, “ci appare come un mistico della malattia”. Jung infatti incoraggia l’arte; per spiegare il conflitto interiore dell’uomo si serve della mitologia.

Certamente Freud ha aperto un’epoca nuova nell’indagine e nella conoscenza dell’uomo ma è stata la letteratura stessa a fornire materiale alla psicoanalisi, la quale, secondo alcuni, rappresenterebbe proprio una forma di letteratura, poggiandosi su alcune nozioni fondamentali  quali inconscio, rimozione, conflitto, pulsione. Tuttavia Freud era ben consapevole del fatto che gli scrittori siano stati precursori della sua scienza e, secondo lo studioso J. Starobinski, “l’ Interpretazione dei sogni, sul piano del sapere, vuole essere l’equivalente di ciò che fu Amleto nello sviluppo dell’opera teatrale di Shakespeare. Il poeta è un sognatore che non si è analizzato, ma che, nondimeno, ha reagito drammaticamente; Freud è uno Shakespeare che si è analizzato”.

Ma torniamo al personaggio-uomo in relazione alla narratività del romanzo del ‘900. Davvero questo personaggio si rivela a noi attraverso la narrativa? Risponde acutamente lo scrittore britannico E. M. Forster (“Passaggio in India”, “Camera con vista”, “Casa Howard”) distinguendo tra l’uomo, personaggio della vita, e l’uomo, personaggio di romanzo, e più precisamente tra homo sapiens e homo fictus. Il primo, trascurato dai romanzieri, è decisamente più informato del secondo, in quanto ne sa di più rispetto a cibo, sonno e amore. A parte l’amore, che occupa molte pagine di un romanzo, lo scrittore non può dedicare molto spazio al cibo e al sonno, pena la noia del lettore. Tuttavia qsto uomo fictus si pone come un importante indizio della narrativa e dell’arte moderna ai fini di disoccultare qualcosa, laddove non era riuscito il romanzo naturalista.

Per concludere, prendiamo in cosiderazione il rapporto tra il personaggio-uomo e il suo autore; questi  attua una sorta di sciopero nei confronti del proprio autore, si rivoltano contro di lui, e in merito a questa peculiarità ci sembra opportuno citare ancora una volta Giacomo Debenedetti che prende come esempio uno dei suoi scrittori preferiti, Marcel Proust:

“Proust seguita a dichiarare che sta cercando delle leggi, ma in lui si è potuto vedere quasi subito lo “sciopero dei personaggi”. Ci buttate nella vita, parevano dire, come un popolo di trovatelli, fidandovi che basti da sola, quella vita che ci avete data, a risolvere le nostre sorti. Non tenete conto che siamo incalcolabili […] Effettivamente i personaggi di Proust, vivi come sono, […] finiscono tuttavia col fondersi, col fare coro per testimoniare una finalità, una destinazione del vivere, che non vale per essi, tutti rimasti irrisolti nella desolazione del tempo che li ha consumati, tuttavia vale per il loro autore. E si tratta di un processo di iniziazione umana, svolgentesi per vie quasi mistiche e piene di sacri sgomenti, negli ipogei del Temps retrouvé, dove il romanzo di Proust […], conduce l’autore ad una delle più alte esperienze religiose del nostro secolo.”

 

 

Polimorfia e mistero, la sessualità secondo Saba

Il celebre e sempre citato psicoanalista Sigmund Freud (1856-1939) sostiene che la nostra libido si sviluppi nella prima infanzia e che gli eventi di questa fase della nostra vita siano costitutivi e influenti per le scelte e gli atteggiamenti che useremo nel rapportarci all’altro sesso e nell’accettare con serenità o meno la nostra sessualità. In questo periodo, infatti, iniziamo a prendere coscienza del nostro corpo e dei nostri desideri attraverso un complesso meccanismo di attrazione e repulsione nei confronti dei due sessi che vengono inizialmente rappresentati dai nostri genitori. Se questa delicata fase esistenziale viene turbata da avvenimenti per noi “ traumatici” anche la nostra sfera sessuale ne risentirà e sorgeranno disturbi tra i quali il complesso di Edipo o di Elettra. Questa è la premessa doverosa per poter comprendere al meglio la poesia di uno dei poeti più “umani” e così “semplicemente”, “infantilmente” complessi tra quelli che figurano nel poliedrico scenario della letteratura del Novecento: Umberto Saba (1883-1957).

L’eros di Umberto Saba

La poesia di Saba potremmo metaforicamente definirla come una parte del suo corpo, un qualcosa che non può essere assolutamente scisso dalla sua esistenza e da quegli avvenimenti che hanno fatto del piccolo Umberto un uomo in preda alla nevrosi e un poeta, anche per questo, straordinariamente profondo. Una profondità così semplice e alla “mano” proprio perché sgorga viva e diretta, senza artifici né retorica, da un animo che alterna la quiete alla tempesta.

Nel mondo odierno dove il corpo, nella maggior parte dei casi, è carne da offrire, merce da scambiare, un oggetto da mostrare, sembra così lontano e arcaico il modo in cui Saba affronta la tematica della sessualità, polimorfa e misteriosa, dove nel componimento “Eros” , contenuto nella sezione “Cuor morituro” del “Canzoniere” a spogliarsi è soprattutto l’anima; l’anima di un “giovanetto”, come lo chiama il poeta, in cui non fatichiamo a riconoscere il Saba stesso, in quel rapporto complesso e sfaccettato con le donne, con l’amore, con il sesso, con la vita in generale e con se stesso. Leggiamo:

Sul breve palcoscenico una donna

fa, dopo il Cine, il suo numero.

Applausi,

a scherno credo, ripetuti.

In piedi,

dal loggione in un canto, un giovanetto,

mezzo spinto all’infuori, coi severi

occhi la guarda, che ogni tratto abbassa.

È fascino? È disgusto? È l’una e l’altra

cosa? Chi sa? Forse a sua madre pensa,

pensa se questo è l’amore. I lustrini,

sul gran corpo di lei, col gioco vario

delle luci l’abbagliano. E i severi

occhi riaperti, là più non li volge.

Solo ascolta la musica, leggera

musichetta da trivio, anche a me cara

talvolta, che per lui si è fatta, dentro

l’anima sua popolana ed altera,

 una marcia guerriera.

Il componimento consta di 16 endecasillabi e un settenario finale e narra ,attraverso un ritmo spezzato fatto di enjambement, che sembrano seguire e sottolineare l’affollarsi dei pensieri e delle sensazioni che si accalcano nell’animo e nella mente del protagonista, della visione di una donna che inizia a muovere il suo corpo in maniera provocante, rievocando in lui il rapporto con la propria madre.
“E’ fascino? E’ disgusto? E’ l’una e l’altra cosa? Chi sa? Forse a sua madre pensa, pensa se questo è l’ amore.” Con poche e significative parole, Saba ci conduce subito al nocciolo della questione, a quel piccolo Umberto che cresciuto senza padre, ha attraversato la sua infanzia e l’adolescenza, periodi formanti, immerso tra sole donne, e da loro, prima fra tutte la madre, non riesce a staccarsi. La mancanza di un punto di riferimento maschile, l’assenza della figura paterna ha causato conseguenze di cui il poeta porterà strascichi anche da adulto. La donna, confusa indissolubilmente con la madre, diviene per lui qualcosa di sacro, inviolabile, per questo non degno di essere guardato con malizia, di essere desiderato con ardore. Umberto dinanzi al genere femminile è come un bambino non cresciuto, che chiede protezione. Come potrebbe desiderare una donna? Significherebbe desiderare sua madre. Da ciò,“ è disgusto? “ .

Saba e la donna-angelo

La stessa Lina, moglie del poeta, come racconterà lui stesso nella poesia  “A mia moglie”, non rappresenta quell’amore travolgente e passionale, ma l’ancora di salvezza, la donna-angelo moderna, calata nella quotidianità, che è per lui l’annunciatrice di “un’altra primavera”, che lo salva, lo trascina fuori dalla sua “vecchiaia”, d’animo si intende. Ma c’è l’ altra faccia della medaglia, l’Umberto pur sempre uomo, che viene nonostante tutto, attratto dalla donna, essendone affascinato. Un fascino che non accetta con serenità, che gli fa fare i conti con la sua natura di uomo, cresciuto ormai, che gli fa chiedere cosa mai significhi essere “uomo”. E allora ecco palesarsi la “marcia guerriera”, il bivio, la scissione, i due poli genitoriali. Una donna , la madre, con la forza e il coraggio che generalmente e talvolta erroneamente , si attribuiscono agli uomini, ed un uomo, il padre, che si dimostra molto più fragile della fragilità, che talvolta, sempre erroneamente, è attribuita alle donne. Ed ecco confondersi i sessi, superare quei limiti costruiti sui pregiudizi duri a morire, ed emergere un’anima, quella del poeta, che confonde uomo e donna, ammirazione e desiderio, moglie e madre, virilità e paternità.

C’è un’altra chiave di lettura di questo bivio: due educazioni, due insegnamenti, quello rigido e moralistico della madre, “guerriero”, e quello “leggero” della balia o potremmo dire anche del padre, di quel padre che pur non occupandosi della sua educazione, con le scelte di vita che compie, gli dimostra “la leggerezza” del vivere, descritta nel componimento  “padre è stato per me l’assassino”, a cui il poeta si ispirerà nella sua arte. Questi due modi differenti di affrontare la vita portano Umberto a chiedersi quale sia il migliore, senza però trovarne risposta. E allora il compromesso: il protagonista di  “Eros” che abbassa lo sguardo ed evita di guardare la donna, ma ascolta la musica e lì vi concentra i suoi pensieri. Si conciliano così i due insegnamenti, che si fondono in un compromesso non solo in questi versi, ma nell’intera opera di Saba, che attraverso la sua poesia, fatta di un linguaggio familiare e semplice, contiene invece tematiche attuali e brucianti.

Docere e delectare, il cucchiaio ricolmo di medicina amara e bordato di miele appetitoso, avrebbe detto Lucrezio.

 

“La coscienza di Zeno”: la malattia come punto di forza?

<<Tutto ciò giaceva nella mia coscienza a portata di mano. Risorge solo ora perché non sapevo prima che potesse avere importanza. Ecco che ho registrata l’origine della sozza abitudine e (chissà?) forse ne sono già guarito. Perciò, per provare, accendo un’ultima sigaretta e forse la getterò via subito, disgustato>>. Il romanzo “La coscienza di Zeno” di Ettore Schmitz, in arte Italo Svevo, pubblicato nel 1923 a Trieste dall’editore Cappelli di Bologna, assurge il romanzo italiano a concezioni e dimensioni europee. La coscienza di Zeno segna l’esordio della psicoanalisi, quella dottrina filosofica (clinica e teraupetica) che più influenzerà il Novecento nella narrativa italiana.

Il diario si compone di tre parti contrassegnate dalle date di tre giorni distinti negli anni di guerra 1915-1916. Nella prefazione del libro il sedicente psicoanalista Dottor S. dichiara di voler pubblicare “per vendetta” alcune memorie, redatte in forma autobiografica di un suo paziente, Zeno Cosini (rivoltosi a lui per guarire dal vizio del fumo e facilitare il processo di guarigione), che in realtà si è sottratto alla cura. Gli appunti dell’ex-paziente costituiscono il contenuto del libro, dunque l’unica voce narrante.

Nel preambolo Zeno spiega la sua difficoltà nel “vedere” la propria infanzia e ogni volta che prova ad abbandonarsi alla memoria, cade in un sonno profondo. La narrazione non offre la cronologica, lineare successione degli avvenimenti, ma segue il filo della memoria. Oltre l’inettitudine, vizio che caratterizza il personaggio, l’altro problema su cui ha effettivamente inizio il romanzo è appunto il vizio del fumo. Egli  rievoca le prime esperienze con i sigari lasciati per casa dal padre e i vari tentativi messi in atto (falliti) per liberarsene, non facendo altro che confermare quanto in realtà sia accanito per la sua “ultima sigaretta”, dimostrandosi a tratti addirittura nevrotico. Attraverso i ricordi, si giunge poi ad un delicato tema: il rapporto conflittuale col padre, basato su incomprensioni e silenzi.

Altri temi motivo di analisi ne La coscienza di Zeno sono: il suo matrimonio con Augusta Malfenti (in realtà inizialmente innamorato della sorella Ada, che sposerà invece il suo nemico Guido Speier); il conflittuale rapporto con la sfera femminile, la sua sindrome Edipica e la ricerca per l’amante, come Carla Gerco (giovane pianista realmente innamorata di Zeno che non vuole mettere però a repentaglio la sua storia coniugale); e infine il rapporto con Guido Speier con cui collabora per mettere in piedi un’azienda, ma in realtà è solo un’occasione per dimostrare la sua superiorità nei confronti del rivale d’amore che ha sposato Ada. Nelle riflessioni finali Zeno si sente guarito, riuscendo ormai a prendere coscienza della sua personalità ed accettare i propri limiti, fino a sfociare in amare considerazioni sull’umanità.

I fatti della vita del protagonista de La coscienza di Zeno sono giudicati dallo stesso, secondo prospettive, modificazioni e ripensamenti che variano nel tempo. Dominano l’introspezione e l’analisi psicologica, mentre la soggettività e l’interiorità prevalgono sull’oggettività. Nel monologo interiore condotto da Zeno si avverte l’influenza della narrativa di James Joyce e del suo “flusso di coscienza”. Svevo, d’altronde, conobbe personalmente a Trieste lo scrittore irlandese.

Lo scrittore fa sì che la sola voce che il lettore immagini di ascoltare sia solo quella di Zeno attraverso le sue confessione, delle quali però non ci si può  fidare.

 Per quanto riguarda la cronologia, i fatti non secondo uno schema lineare e odinato: molto spessp  il passato si confonde con il presente formando un unico tempo che non si puà dividere. Il risultato, che rappresenta una novità letteraria, è  definito da Svevo «tempo misto».

 Zeno, come Nitti e Brentani è scisso, scontento, arrendevole, ma sembra essere più maturo e consapevole. La sua forza rispetto a quelli che non lo sono, è proprio quella di non vivere nella certezza  che potrebbe crollare da un momento all’altro, ma di mettersi sempre in discussione, grazie alla nevrosi. Questo fa la differenza, secondo Svevo, tra i “sani” e i “malati”.

Naturalmente, oltre agli echi della teoria darwiniana applicata alla società e della noluntas di Schopenhauer, si avvertono nel romanzo gli influssi delle teorie di Sigmund Freud e della sua psicoanalisi, che proprio nella Trieste del tempo di Svevo conobbe un terreno di coltura favorevole.

La prosa risulta tutt’altro che accattivante per il lettore, tanto da far definire alcuni“La coscienza di Zeno” un libro noioso ma che induce a riflettere, e numerosi sono i richiami alla lingua tedesca, oltre a termini tecnici e burocratici.

Ma la riflessione che viene da porci in riferimento a La coscienza di Zeno è la seguente: davvero la malattia, il disagio, la nevrosi, possono rappresentare un punto di forza, una nuova occasione, un modo di essere intellettualmente diversi dagli altri? In un certo senso la malattia mentale, pur facendoci soffrire, ci fa sentire cose che da “sani” non sentiremmo, ci rende più sensibili, e più profondi?

Fa riflettere anche il finale, terribilmente vero ed inquietante ma forse non così tragico come potrebbe sembrare.

Dino Campana: tra follia e poesia

Nato a Marradi in provincia di Firenze, Dino Campana(Marradi, 20 agosto 1885- Scandicci, 1 marzo 1932), trascorre l’infanzia in modo apparentemente sereno ma, fin da giovane inizia a dare segni di squilibrio mentale, favoriti dalla religiosità bigotta della madre infelice che lo accusa di essere l’anticristo.

Dino Campana

La sua vita è un alternarsi di momenti di lucidità e di furore violento, per questo è a più riprese internato in un manicomio sino al ricovero definitivo del 1918. Destabilizzante e turbolenta  si è rivelata la sua relazione con la poetessa Sibilla Aleramo.

Le crisi nervose si acutizzano, come pure i frequenti sbalzi di umore, a causa dei difficili rapporti con la famiglia, soprattutto con la madre, e  della vita monotona del paese natio.

Dino Campana esprime il suo “male oscuro” con un irrefrenabile bisogno di fuggire e dedicarsi a una vita errabonda. La prima reazione della famiglia, e poi dell’autorità pubblica, è quella di considerare le stranezze del poeta come segni lampanti della sua pazzia. A ogni sua fuga, che si realizza con viaggi in paesi stranieri dove si dedica ai mestieri più disparati per sostentarsi, segue, da parte della polizia (in conformità con il sistema psichiatrico di quei tempi), il ricovero in manicomio.

Nel 1913 consegna ai direttori della rivista “Lacerba” il manoscritto di poesie “Il lungo giorno” ma questi lo smarriscono e il poeta riscriverà i versi a memoria, pubblicandoli poi sulle riviste “La Voce” e “Lacerba“. Muore in manicomio nel 1932 dopo 14 anni di internamento trascorsi a dettare al suo medico curante notizie autobiografiche e riflessioni.

Da molti considerato il “poeta visionario” italiano per eccellenza, da altri ridimensionato a semplice <<poeta visivo>> (Contini), Dino  Campana è un poeta discusso, coinvolgente e suggestivo. Nell’ambito della linea “vociana”, in cui può esser fatto rientrare almeno marginalmente, rappresenta una sintesi originale di simbolismo ed espressionismo. L’ansia di liberazione e realizzazione esistenziale, è uno dei tempi ricorrenti nella poesia di Campana.

Le sue opere sono  pervase da due tendenze apparentemente inconciliabili: da una parte l’immediatezza esistenziale nel rapporto con la realtà e dall’altra invece l’influenza di modelli importanti come Carducci e Nietzsche. Anche la follia di Campana è stata interpretata in due modi opposti ma che coesistono: essa rappresenta l’incapacità di compromessi sociali e l’adesione al modello culturale di poeta maledetto (rifacendosi a Rimbaud). Alla base della psicologia dell’arte del poeta c’è un sentimento lacerante di esclusione e disarmonia. In questo senso di disadattamento Campana esprime in modo personale l’instabile condizione dell’intellettuale novecentesco. La reazione dell’autore, però, è differente rispetto agli altri poeti contemporanei, per la sua tendenza a resistere disperatamente alla nuova condizione, negandola. e  tentando  disperatamente di reintegrare l’io nell’armonia generale delle cose.

La sua controversa collocazione critica e i giudizi non certo unanimi hanno contribuito a formare attorno a questa figura un alone di mistero, per cui, quando si parla di  Dino Campana, si tende sempre a dare credito all’immagine del “poeta maledetto”.

La follia però, per il poeta, non è un presupposto della sua produzione; semmai è considerabile un punto d’approdo la libertà sterminata, distruttiva e disgregatrice di ogni coerenza, figlia del tempo in cui Nietzsche aveva decretato “la morte di dio”.

Eugenio Montale fu tra i primi estimatori ufficiali, il più autorevole a oggi, delle composizioni di Dino Campana, tanto da dedicargli una poesia o meglio un omaggio a chi meglio di lui aveva saputo piegare le parole fino a renderle ancora più oscure.

La poesia di questo poeta visionario è una poesia nuova nella quale sono presenti i suoni, i colori e la musica in una trasfigurazione reale del simbolismo onirico. Il verso è indefinito e i valori classici e una grande modernità si compenetrano in una forma e purezza irripetibili.

Campana afferma di voler <<nel paesaggio collocare dei ricordi>> e sul paesaggio, fondamentale nella sua poesia, aleggia un alone di misteriosa lontananza. Nei suoi scritti sentiamo il fascino delle ore crepuscolari, della luna sui campi, del canto che si perde nelle strade solitarie, della finestra illuminata nel buio della notte mediterranea.

La partenza e il ritorno sono i temi fondamentali della poetica campaniana; un figliol prodigo che desidera la casa paterna, ma che odia al contempo; è possibile confrontarlo con la figura di Ulisse, nella misura in cui possiamo considerare che il poeta ha una reale volontà di ritornare a casa.

Un altro tema fondamentale della sua poetica è “l’oscurità tra il sogno e la veglia”, percepibile dal ripetersi degli aggettivi, che ritornano come se dettati durante un sogno.

Per comprendere meglio le qualità poetiche di Campana è utile servirci delle parole di Zanzotto, il quale afferma che <<una poesia come quella di Campana si configura come un flusso ininterrotto di armonie e di disarmonie, di serie melodiche e semantiche che si sovrappongono e s’intrecciano: proprio per questa ragione, la sua poesia risulta terribilmente difficile da cogliere. Il polverio delle discontinuità mentali di Campana giunge, in qualche oscuro modo, a fondersi al latteo suono, direi, dei suoi versi, a queste maree di armonie logiche e di armonie foniche che s’inseguono incessantemente, s’intersecano, si fondono e si differenziano per ricongiungersi ulteriormente, nelle sue poesie>>.

Canti Orfici

Dino Campana insegue una concezione alta e sublime della poesia come momento misterioso d’identificazione con la vita universale e dunque momento di assoluta verità. In questo senso va letto l’aggettivo orfico della prima e unica raccolta del poeta, “Canti Orfici” del 1914. Questo atteggiamento, sia nei riguardi dell’io che nei riguardai della poesia, è ben presente nella sua raccolta, che però cela un’altra verità: la condizione dell’emarginato. Il soggetto appare sulla scena nei panni di vagabondo e uomo sofferente tra la folla.  Sono riscontrabili  due tendenze prevalenti della sua poesia,  quello simbolistico. decadente e quello espressionistico.

Pensare nel languore
Catastrofi lontane
Mentre colle sue antenne
E le sue luci un grande
Cimitero il tuo porto
……………………….
Ne la città voluttuosa
Scuotevasi il mare profondo
Caldo ambiguo il silenzio sullo sfondo
Le navi inermi drizzavansi in balzi
Terrifici al cielo
Allucinate di aurora
Elettrica inumana,risplendente
A la poppa ne l’occhio incandescente.

 

In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose

 

…………………………………………

Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose
Che brillavano un momento al sole del mattino.

 

Acqua di mare amaro
Che esali nella notte:
Verso le eterne rotte
Il mio destino prepara
Mare che batti come un cuore stanco
Violentato dalla voglia atroce
Di un Essere insaziato che si strugge…

(Poesie tratte dai “Canti Orfici”)

Altra tematica trattata da questa raccolta è la sessualità, rappresentata in termini sadici. La pulsione libica diventa il canale per esprimere la ribellione e la carica aggressiva del poeta.

AnchelLa ripetizione è una caratteristica fondamentale della poesia di Campana, il quale accuratamente studia le parole per ricavarne quella musicalità che tanto lo contraddistingue.

Tuttavia questae non crea ridondanza e monotonia, bensì contribuisce alla difficoltà e alla complessità del testo.Con  la sua instancabile ossessione a ripetere,  Dino Campana ha saputo rendere conto delle tensioni di un’epoca oltre che delle sue proprie, e insieme abbia dato voce ad una violenza psichica che fa parte in qualche misura di tutti noi.  La polisemia e l’ambiguità del testo mirano a produrre effetti musicali che, si fanno più intensi, proprio là dove il senso logico del discorso sembra rimanere sospeso. Se volessimo riferirci a Freud, è possibile affermare che l’oscuro significato delle parole, che porta alla sospensione del nesso logico, altro non è che l’effetto della rimozione che, per ubbidire al principio di realtà, trova nella sua espressione una formazione di compromesso tra l’impossibilità di esprime alcuni contenuti e la volontà di farlo.

La poesia, in questo senso, può essere dunque considerata un sintomo che esprime il disagio del poeta e di tutto un modello generazionale.

concludiamo  con il distico “Eterno” di Ungaretti che ci fa  comprendere a pieno la poesia di Campana:

Tra un fiore colto e l’altro donato

L’inesprimibile nulla.

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