Paolo Buzzi: l’ultimo futurista

Il nome di Paolo Buzzi (Milano, 15 febbraio 1874 – Milano, 18 febbraio 1956), figura tra i primi “manifesti” di Marinetti e potremmo tranquillamente inserirlo nella tradizione del filone lombardo che ha iniziato con la Scapigliatura e termina con il Futurismo, assumendo una fisionomia nuova: ottimista e fiduciosa nel progresso.

Nato in una famiglia borghese ma con origini legate alle antiche corporazioni familiari, Buzzi si inserisce in una temperie culturale  che vede da una parte, gli scapigliati contro quell’etica tipicamente borghese, dall’altra l’ azione del primo socialismo e l’energetismo marinettiamo che vuole dare una voce politica alla civiltà moderna delle macchine.

Paolo Buzzi è un uomo serio, ottimista e con tendenze celebratorie che si ritrovano in tutta la sua opera, dalle “Rapsodie leopardiane” di stampo classicista alle liriche di “Aeroplani” di tendenza futurista, opere caratterizzate da immagini barocche , simboliste, decadenti e dannunziane. I versi di Buzzi sono evocativi, descrittivi o narrativi, liberi o chiusi; i suoi discorsi, come ricorda Giovanni Titta Rosa in Vita letteraria del Novecento, <<più che su argomenti d’arte o di poesia, volgevano di preferenza sulle questioni pratiche, sociali, assistenziali, umanitarie o benefiche della sua carica; una preferenza che pareva ostentata, ma era invece naturale, perchè attingeva aquella serietà di fondo, comune alle sue funzioni di amministratore e alla sua “professione” di poeta>>.

Il poeta lombardo si è imposto nel panorama letterario italiano con lo scandalo provocato negli ambienti ufficiali dalla sua Ode ad Asinari di Bernezzo, il generale colpito da severi provvedimenti per aver tenuto un discorso interventista ai suoi soldati. L’ode portò all’ arresto di Marinetti e dei suoi seguaci.  Tra le liriche più orignali ed interessanti di Buzzi figurano: Versi liberi (1913), che al programma dell’anarchico ed egotista Lucini del verso libero andava sostituendo la marinettiana parola in libertà, e L’elisse e la spirale (1915).

Nella prosa il romanzo L’esilio (1905) narra la storia della crisi spirituale della borghesia milanese, crisi che si sviluppa in direzione futurista con La danza della iena (1920) e La luminaria azzurra (1917) in bilico tra i mitologia futurista della città e della velocità e ansia di un racconto che vuole essere contemporaneamente epico, eroico e storico.

Con Bel canto (1916), Paolo Buzzi intende celebrare le virtù tradizionali accostandosi ad un tipo di poesia civile e oratoria, proseguita nei Carmi degli augusti e dei consolari (1920), dove il poeta esalta le grandi figure del Risorgimento, una su tutte quella di Garibaldi.

Buzzi non si fa mancare nulla collabora anche alla fondazione di Roma futurista, alla formazione dei Fasci politici futuristi e  fonda nel 1920 il giornale Testa di ferro, il quale, naturalmente, si propone di integrare  temi futuristi con quelli eroici e lirici fondendole col mito dell’eroismo guerriero. La sua attività letteraria è prolifica e  prosegue con molte opere in versi e in prosa, tra le quali i Canti per le chiese vuote (1930), Echi del labirinto  (1931), Canto quotidiano (1933) .

Il poeta svolge anche un’intensa attività teatrale: dalle Sei sintesi sceniche  (1917), a Stornellata del 1932, versi liberi, da Il volto della vergine (1936), a La principessa lontana (1938) e a La caccia al lupo dello stesso anno, musicati da Camussi.

“Il codice di Perelà”: il Cristo mancato di Aldo Palazzeschi?

Fiaba o romanzo? È questa la prima domanda che ci dovvrebbe venire in mente, avendo tra le mani “Il codice Perelà” di Aldo Palazzeschi. È lo stesso autore che ci avverte, in una frase riporatata in tutti commenti di tutte le edizioni: “Perelà è la mia favola aerea, il punto più alto della mia fantasia”. L’opera che ci troviamo davanti non può essere però una fiaba, almeno strutturalmente. Apparso nel 1911, con il sottotitolo di “romanzo futurista”, subito si presenta per quello che effettivamente è: dialoghi brevi e serrati, assenza di descrizioni, assenza di una qualsiasi voce narrante, ambientazioni fisiche appena accennate.

Le vicende di quest’uomo, fatto di fumo, che per trentatrè anni (età casuale?) ha vissuto in un camino, ascoltando tre vecchie che parlavano di filosofia (“una filosofia leggera, però”), imparando molto di come funziona il mondo, appaiono non certo prive di un certo stimolo al divertissment puro e frivolo. Non sempre, nel corso dell’opera, sarà possibile compiere una esegesi dei gesti di cui il protagonista si renderà protagonista. Il fatto che il Re gli affidi addirittura la redazione di un codice e che tutte le varie signore gli vogliano narrare le loro storie, quasi ritenendolo un redivivo arbitro del gusto di memoria latina, fanno forse pensare che nel romanzo Perelà debba svolgere un ruolo speciale, che, proprio in virtù della sua natura, gode tra gli uomini di una ammirazione e di una stima infinita. In questo personaggio, prima che in questo romanzo, la critica ci ha visto molte cose: l’interpretazione che più incuriosice, e su cui è meritevole una riflessione, è quella che fa corrispondere Perelà al Cristo. Eccone quelle che possono essere delle analogie.

Perelà sarà portato davanti a una corte e condannato, proprio come Cristo: sarà condannato per aver fatto credere di essere in potenza di fare cose grandiose, quando in realtà non è stato cosi. Anzi, ha indotto al suicidio un uomo. Durante il processo la condanna è unanime: come era stato esaltato cosi ora viene sprofondato con le considerazioni più meschine da parte dei testimoni. Forse un parallelo con la vicenda del Cristo, prima osannato poi condannato dagli stessi uomini? Il Cristo era capace di miracoli, il Perelà  no, ma è ricoperto della stessa aura di straordinarietà: allora forse sarebbe più corretto parlare di un Cristo mancato?

La condanna decisa è quella della segregazione nel Calleio, su una altura brulla e arida: e questo solo per intercessione del Re, la “massa” (come è scritto nel romanzo), ne voleva l’uccisione. È in questo punto che la narrazione sfuggente ora assume dei tratti quasi neo realistici, con le descrizioni dei luoghi e dei comportamenti delle persone, ansiose di vedere arrivare il condannato nel suo “carcere”. Imprigionare un uomo fatto di fumo. È possibile? Come presto “la massa” si rende conto, non è possibile. Perelà non si troverà, è fuggito attraverso le sbarre. Nessuno sa dove sia andato.
Nell’ultimo squarcio di narrazione, tornata stavolta ad essere affidata di nuovo ai pensieri e alle parole della “massa”, intuiamo che tanti grandi aquile solcano il cielo per “strappare a Dio il velo del suo mistero”. Oppure sono “degli uomini che vanno a consegnare di propria mano la loro anima a Dio?” Non si riesce a capire cosa vediamo nel cielo, ma l’obiettivo di chiunque stia volando è quello di andare a “cercare il signor Perelà”.

Come il Cristo, anche “Sua Leggerezza” Perelà è asceso infine al cielo: resta da chiedersi forse cosa lo abbia spinto a scendere tra gli uomini, che hanno dimostrato, per la seconda volta, di non sapersi tener stretto un Messia. Anche stavolta li avrà perdonati?
“Il codice di Perelà” è un romanzo ricco e variegato che affronta la realtà in termini favolistici e affidandosi ad un’allegoria errmetica che fanno sorgere spontanea la domanda: Perelà è un antiromanzo ambiziosamente cristologico?

Aldo Palazzeschi, scrittore futurista…ma non solo

Personalità eccentrica, Aldo Palazzeschi ha rappresentato uno dei primi motivi di rottura nella letteratura italiana di inizio novecento. Nonostante il suo nome sia legato prevalentemente ad opere riguardanti il filone futurista, non risulta esauriente incardinare Palazzeschi in un’unica categoria di appartenenza.

Nato nel 1885 esordisce come poeta nel 1905 con il libretto di versi “I cavalli bianchi”. Nel 1909, dopo la pubblicazione della terza raccolta di versi, “Poemi”, che gli procura fra l’altro l’amicizia con Marinetti, aderisce al Futurismo (di cui Marinetti è il deus-ex-machina) e, nel 1913, inizia le sue collaborazioni con <<Lacerba>>, la storica rivista di quella corrente letteraria.

Nell’estate del 1916 è richiamato alla leva militare, ma fu quasi per niente coinvolto nelle manovre militari. Si ritrovano i ricordi di quel periodo nei suoi bozzetti di “Vita militare” e nel libro autobiografico “Due imperi… mancati” (1920). Durante gli anni del fascismo, Palazzeschi non partecipa alla cultura ufficiale nonostante gli sforzi intrapresi in questo senso da Filippo Tommaso Marinetti; compie qualche viaggio a Parigi e dal 1926 collabora a <<Il Corriere della sera>>.

Dei futuristi ne ammira la lotta contro le convenzioni, contro il passato recente intriso di fumoserie, gli atteggiamenti di palese provocazione tipici del gruppo, le forme espressive che prevedono la “distruzione” della sintassi, dei tempi e dei verbi (per non parlare della punteggiatura) e propongono “le parole in libertà”.

La vetta massima che raggiunge nella sua epoca futurista è costituita da “Il codice Perelà”, nel 1911. In realtà la sua adesione al futurismo non dura tanto: la sua personalità indipendente e la sua posizione pacifista entrano in rotta di collisione con la campagna per l’intervento in guerra dei futuristi, evento che lo porta anche a riavvicinarsi a forme più tradizionali di scrittura di cui ne è esempio il sarcastico e teatrale romanzo di successo “Sorelle Materassi”.

Vive le tribolazioni studentesche degli anni sessanta sostanzialmente come un “classico rimasto in vita”, cioè da ottantenne: prende con ironico distacco gli allori che i poeti della neoavanguardia innalzano di fronte al suo nome, riconoscendolo come precursore. Scrive infatti a Sanguineti: <<Coloro che furono avanguardisti cinquant’anni fa, saranno i più acerrimi nemici degli avanguardisti d’oggi, giacché la loro avanguardia è passata alla storia senza che se ne siano accorti, e a quella come ostriche sono rimasti attaccati. E dunque, caro Sanguineti, che cos’è mai questa avanguardia?>>

Palazzeschi mette in atto una versificazione giocata sul piacere, irragionevole ed impudente, della pura sonorità. Basta citare la canzonetta “E lasciatemi divertire!” della raccolta “L’incendiario” per capirlo:

“Infine io ò pienamente ragione,
i tempi sono molto cambiati,
gli uomini non dimandano
più nulla dai poeti,
e lasciatemi divertire!”

Viene maliziosamente da pensare se questo modo di concepire il ruolo e la condizione del poeta non sia dovuto, in realtà, ad una mancaza di talento poetico, per cui l’autore si giustifica adducendo come causa dell’assenza di una “vera”( tradizionale) poetica al mutamento dei tempi e dei gusti del pubblico…

Secondo il poeta e scrittore il pubblico non è più interessato alle ragioni della poesia che perde di valore sociale ( un pò come avviene in D’Annunzio): non c’è più domanda e di conseguenza cambia l’offerta poetica che non può essere più quella tradizionale. E si fanno avanti le buffonerie, il grottesco, il divertimento, la presa in giro, il paradosso, il motto di spirito ; il poeta è un clown che sollecita gli sberleffi, smantellando l’io lirico:

“Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia”

L’animo del poeta, che viene messa a nudo, è una maschera che riduce a merce la propria arte. Come ha notato il Professor Antonio Saccone nel saggio “Qui vive/sepolto/un poeta”, Palazzeschi non è interessato a trarre dal trattamento burlesco delle opere tradizionali di pensare e di sentire indicazioni volte a rifondare le tavole della poesia e del mondo. Il senso alienato, irrigidito, svuotato di quelle opere, è mandato in frantumi e snaturato in non-sense, il richiamo al pubblico intelligente, sollecitato ad esercitare il riso dissacratore sugli stereotipi culturali, a smascherarne, le convenzionalità, distanzia sensibilmente Palazzeschi dalle argomentazioni marinettiane, in cui quella componente fondamentale che è la partecipazione del pubblico funziona nel senso dello scontro permanente.

A differenza di Corazzini che patisce un luttuoso vittimismo, Palazzeschi potrebbe essere definito un nichilista giocoso come dimostrano i seguenti versi:

“Avete dei pensieri neri?
Veniteli a svagare
dentro i cimiteri”.

Fra le sue ultime opere uscite dalla sua penna all’alba degli ottant’anni troviamo “Il buffo integrale” (1966) in cui lo stesso Italo Calvino riconosce un modello per la propria scrittura, la favola surreale “Stefanino” (1969), “Il Doge” (1967) e il romanzo “Storia di un’amicizia” (1971). Negli ultimi anni della sua vita è insignito di numerosi premi e riconoscimenti, a testimonianza del grande esempio che aveva rappresentato per intere generazioni di letterati. Muore quasi novantenne nel 1974 a Roma.

Palazzeschi non si è mai sentito completamente di appartenere ora a questa ora a quest’altra corrente. Meravigliose e molto indicative per la sua poetica, sono però queste parole che affidò alla rivista <<Lacerba>>: <<bisogna abituarsi a ridere di tutto quello di cui abitualmente si piange, sviluppando la nostra profondità. L’uomo non può essere considerato seriamente che quando ride… Bisogna rieducare al riso i nostri figli, al riso più smodato, più insolente, al coraggio di ridere rumorosamente…>>.
Palazzeschi in fondo è stato questo: ironico, beffardo, sognatore, disimpegnato. Futurista, ma non solo.

 

 

Le principali correnti, movimenti e tendenze stilistiche del Novecento

Nei primi anni del Novecento si affacciano  nuove forme di avanguardia,che  mirano  ad un totale superamento della tradizione, delle istanze classiche, romantiche, naturaliste e decadenti. Si va alla ricerca di nuovi temi e l’arte stessa è sotto attacco in quanto istituzione, non ha più quella superiorità propria di un sistema autonomo. Nascono cosi nuove correnti, movimenti, tendenze letterarie come:

Espressionismo: tendenza stilistica caratterizzata da una certa propensione verso il lato emotivo della realtà, in contrapposizione all’oggettività dell’impressionismo di cui uno dei maggiori esponenti è Frank Kafka.

Futurismo: nasce in Francia nel 1910 con un manifesto pubblicato su “Le Figarò”scritto da Marinetti. L’attenzione si concentra sulla civiltà delle macchine, della velocità, della forza, del dinamismo, la dissacrazione dei valori tradizionali, la fiducia nel progresso.

Dadaismo: movimento culturale fondato a Zurigo da Tristan Tzara nel 1916, si propone in maniera anarchica di prendersi gioco dell’arte nella società borghese attraverso opere evanescenti con umorismo e derisione, il manifesto dei dadaisti è:

«Dada non significa nulla. È solo un suono prodotto della bocca».

Surrealismo: nasce come evoluzione del Dadaismo e si propone come automatismo psichico puro, essendo influenzato dalla lettura de “L’interpretazione dei sogni” di Freud ed incentrando la sua riflessione sull’amore inteso come fulcro della vita, sogno, follia e liberazione dalle convenzioni sociali, superando il razionalismo.

Crepuscolarismo: corrente letteraria nata in Italia caratterizzata da un forte bisogno di confessione e rimpianto per i valori tradizionali, rifiutando sia la poetica carducciana che quella d’annunziana. Ma questa perenne insoddisfazione non sfocia nella ribellione, ma trova rifugio e sfogo nei luoghi più segreti dell’anima, accompagnandosi ad una certa malinconia. I principali rappresentanti sono Gozzano, Palazzeschi, Moretti, Corazzini, Marrone, Govoni i quali tendono a ridurre la poesia a prosa, trasgredendo la metrica tradizionale.

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