Il soggiorno napoletano di Gabriele d’Annunzio” di Franco Di Tizio presentato il 4 ottobre scorso

Si è tenuta lo scorso giovedì 4 ottobre alle ore 18.00 presso la Libreria Iocisto (Via Cimarosa n. 20 – Piazza Fuga) la presentazione del libro “Il soggiorno napoletano di Gabriele d’Annunzio” (Ianieri Edizioni, collana Biblioteca dannunziana, 576 pp, con 189 illustrazioni, euro 38).
Con l’autore saranno presenti Raffaele Giglio, Già Professore Ordinario di Letteratura italiana Univ. Federico II e Filippo Sallusto, dannunzista.

Il soggiorno napoletano di Gabriele d’Annunzio, durato poco più di due anni tra il 1891 e il ’93, fu forse (e senza forse) il più negativo, o per lo meno il più travagliato momento della pur complessa sua vita: pressato da gravi problemi economici, che lo condussero quasi alla disperazione, in bilico tra l’estinzione, non voluta da lui, di un tenace legame amoroso e una nuova perigliosa conquista, Gabriele a queste difficoltà sapeva opporre un rimedio che era tutto suo: la creatività letteraria. Sono infatti gli anni dell’Innocente, delle Elegie romane, dell’iniziale pubblicazione del Trionfo della morte, del Poema paradisiaco, opere che attestano in modo inconfutabile lo spessore delle sue doti di narratore e di poeta.

Franco Di Tizio ha ricostruito in modo esattamente cronologico il drammatico tratto biografico di d’Annunzio, attingendo a memorie, articoli di stampa, insomma a tutto il materiale documentario che nel tempo si è andato costituendo intorno alla sua figura, e non di rado ha corretto e precisato con consapevole acribia ciò che altri hanno affermato o supposto: eloquente testimonianza, la sua, di un lungo e attento approccio alla figura del Pescarese, così ricca di interessanti momenti esistenziali e di risvolti emotivi, ancora da indagare a fondo.
Infatti anche da questo, che si può definire un breve flash sulla sua esistenza, scaturiscono interrogativi e perplessità, ad esempio sulla duplicità dell’eros dannunziano bilicato tra l’amante tradita e la nuova conquista, o sulla inesauribile, quasi torrenziale, dispendiosità della sua vita quotidiana, o sull’attitudine a rifugiarsi nell’arte sublime della parola nei momenti più critici dal punto di vista economico: un’arte che, lo si deve pur rilevare, egli frequentava anche per sopperire alle esigenze quotidiane, ma che pure gli suggeriva parole di straordinario fascino.

L’apporto alla ormai sterminata critica dannunziana di questo nuovo studio di Franco Di Tizio sta appunto nell’implicita sollecitazione ad addentrarsi ancora più a fondo, seguendolo di giorno in giorno, nel processo esistenziale di un personaggio così poliedrico e così dotato di creatività della nostra storia letteraria e civile.

Franco Di Tizio, nato il 14 ottobre 1948 a Francavilla al Mare, è medico umanista. Ha esordito in campo letterario, a vent’anni, pubblicando una raccolta di poesie, Aliquando permutabo (Solfanelli, 1968). Studioso del Cenacolo michettiano e, principalmente, biografo dannunziano, ha dato alle stampe numerosi libri, tra cui: Francesco Paolo Michetti nel cinquantenario della morte (Brandolini, 1980), Francesco Paolo Tosti (Brandolini, 1984), Costantino Barbella (Solfanelli, 1991), Carte dannunziane (Menabò, 1998), Il Camarlingo e la Camerlengo (Ediars, 2000), L’Attendente e il Vate (Ianieri, 2001), D’Annunzio e Michetti. La verità sui loro rapporti (Ianieri, 2002), D’Annunzio e Albertini. Vent’anni di sodalizio (Ianieri, 2003), Lina Cavalieri. La vita (1875-1944) (Ianieri, 2004), Antonietta Treves e d’Annunzio (Ianieri, 2005), Basilio Cascella. La vita (1960-1950) (Ianieri, 2006), D’Annunzio e Mondadori (Ianieri, 2006), Francesco Paolo Michetti nella vita e nell’arte (Ianieri, 2007), La Santa Fabbrica del Vittoriale nel carteggio inedito d’Annunzio-Maroni (Ianieri, 2009), D’Annunzio e Antonino Liberi. Carteggio 1879-1933 (Ianieri, 2009), La tormentata vita di Gabriellino d’Annunzio nel carteggio inedito con il padre (Ianieri, 2010), Giuseppe Mezzanotte e d’Annunzio. Cinquant’anni di amicizia (Ianieri, 2011), Gabriele d’Annunzio e la famiglia d’origine (Ianieri, 2013), Guido Treves e d’Annunzio negli anni del declino della Casa Editrice (Ianieri, 2014), D’Annunzio e la figlia Renata. Carteggio inedito 1897-1937 (Ianieri, 2015), Gabriele Cruillas. Il figlio non riconosciuto da d’Annunzio (Ianieri, 2016), Gabriele d’Annunzio e il figlio Veniero (Ianieri, 2016), Gabriele d’Annunzio e il figlio Mario (Ianieri, 2016), Giacomo Acerbo e i suoi rapporti con d’Annunzio e Mussolini (Ianieri, 2017), Elena Sangro e la sua relazione con Gabriele d’Annunzio (Ianieri, 2018) e Rina De Liguoro regina del cinema muto (Ianieri, 2018).

Gabriele D’Annunzio: decadente “animale di lusso”

Gabriele D’Annunzio è stato uno degli esponenti del Decadentismo italiano. E’ con Il Piacere – la sua opera più celebre- che si inaugura il nuovo quindicennio letterario decadente, esprimendone la vera essenza: la concezione della vita fondata sull’estetismo e sulla formula “Il verso è tutto”; l’arte è il valore supremo, ad esso devono essere subordinati tutti gli altri valori. La vita si sottrae alle leggi del bene e del male e si sottopone solo alla legge del bello, trasformandosi in un’opera d’arte.

D’Annunzio infatti punta a creare l’immagine di una vita eccezionale: “il vivere inimitabile” di un individuo, che rifiuta la mediocrità borghese, indossando la maschera dell’esteta, conducendo una vita all’insegna di duelli, di lusso ed instancabili ed effimere avventure amorose. A questi attimi di pura sregolatezza, il D’Annunzio- esteta, fa però corrispondere, una copiosa produzione di versi, di opere narrative e di articoli di giornali acquisendo una cospicua notorietà.

Gli anni novanta dell’Ottocento, rappresentano la massima ostentazione del vivere inimitabile: D’Annunzio vive nella sontuosa villa della Capponcina a Firenze, dove conduce un’esistenza all’insegna della raffinatezza più sfrenata, tra oggetti d’arte e stoffe preziose. Lo scrittore dice di sé: “Io sono un animale di lusso il superfluo m’è necessario come il respiro”. Accanto a lui l’attrice di fama internazionale Eleonora Duse, con la quale intraprese una relazione sentimentale, lunga e tormentata. Relazione, come tutte quelle che l’infedele ed egoista poeta ebbe, del resto, basata sull’opportunismo, sul calcolo (la Duse portò in scene e finanziò le opere di D’Annunzio), sul narcisismo e su slanci passionali, piuttosto che su un autentico e disinteressato sentimento.

La fase della “bontà” e l’accostamento al superomismo di Nietzsche

Ben presto D’Annunzio avverte la fragilità della figura dell’esteta che è impotente nei confronti dell’inesorabile dilagare del capitalismo ed dell’industrialismo. Entra quindi in crisi l’estetismo e si approda nella fase della “bontà”: D’Annunzio infatti, disgustato dagli artifici estetici, propone un ritorno alle cose semplici.

In una lettera a Matilde Serao scrive: “Mi pareva che tutte le mie facoltà di scrittore si fossero oscurate, indebolite, disperse”. A determinare questa inettitudine artistica ma soprattutto psicologica del Vate fu certamente un senso di sazietà dell’ossessiva ricerca del piacere ma soprattutto l’accostamento in questi anni ad autori come Tolstoj e Dostoevskij.

Il periodo di inettitudine corrisponde inevitabilmente ad un silenzio artistico, che tace fino agli inizi del ‘900. In questi anni Gabriele D’annunzio si accosta alla filosofia nietzschiana, che imprime un senso vitalistico, ed eroico al suo pensiero. In particolare coglie gli aspetti della volontà di potenza, dell’esaltazione dello spirito, della lotta e dell’affermazione di se, dandogli una veste antiborghese; si scaglia contro la realtà borghese che con il suo spirito affarista e speculativo, contamina il senso della bellezza. D’annunzio aspira all’istituzione di una nuova aristocrazia, capace di dominare le masse comuni ed elevarsi sopra ogni legge morale. Il mito del superuomo rappresenta una reazione alle tendenze in atto in questi anni di emarginazione e di declassazione dell’intellettuale: se l’esteta si isola dalla realtà, il superuomo cerca di dominarla in nome del culto del bello. L’artista- superuomo diventa “vate” con una missione politica, quella di strappare la nazione dalla sua mediocrità.

Il vitalismo psicologico si traduce in vitalismo artistico: tra il 1894 e il 1910 infatti, D’Annunzio pubblica 4 romanzi: Il Trionfo della morte, Le Vergini delle rocce, Il Fuoco e Forse che sì forse che no. In queste produzioni letterarie, emerge però un superomismo problematico: i protagonisti restano deboli e sconfitti, attratti dalla decadenza e dalla morte.

D’Annunzio: le opere drammatiche

A partire delle 1898, con la rappresentazione della tragedia Città morta, D’annunzio si rivolge al Teatro che rappresenta, più dei libri, lo strumento di diffusione del verbo superomistico. Lo scrittore, rifiutando un teatro borghese e realistico che metteva in scena eventi di vita quotidiana, elabora un teatro di poesia, riportando in vita uno spirito tragico che rappresenti personaggi d’eccezione fuori dal comune. Famosi in questo senso sono le tragedie e i drammi dannunziani: La Gloria, La Gioconda, Più che l’amore la tragedia pastorale La figlia di Iorio.

Le Laudi

Molto significative sono Le laudi del cielo del mare della terra e degli eroi pubblicate da D’Annunzio, tra 1903 e il 1912, in sette libri di liriche. Anche qui approda l’ideologia superomistica. Il primo volume, “Maia”, è un lungo poema unitario di ottomila versi, dove emerge uno slancio vitalistico e il desiderio di sperimentare ogni aspetto della realtà, quella moderna e quella industriale. Il testo inaugura il cosiddetto “verso libero”, adottato anche nelle laudi successive. Il poema è una trasfigurazione mitica di un villaggio in Grecia compiuto dallo scrittore.

Il secondo volume “Elettra”  è una propaganda politica: si enumerano infatti al suo interno numerose città italiane che conservano un passato di bellezza artistica e grandezza guerriera. Quel passato, dunque, sul quale si dovrà modellare il futuro.

Il terzo libro “Alcyone”, celebra la fusione panica con la natura. Si tratta di una sorta di diario di una vacanza estiva. L’estate consente una pienezza vitalistica, dove l’io del poeta si fonde con il fluire della vita. Il quarto libro “Merope” fu scritto nel 1912. Il Quinto libro fu aggiunto postumo e gli ultimi due non furono mai scritti.

L’esperienza della guerra e il Notturno

I sogni attivistici ed eroici sono relegati soltanto nei libri ma l’occasione di trasformarli in realtà viene offerta dalla Prima guerra mondiale: D’Annunzio allo scoppio della guerra, inizia un’intensa campagna interventista. Si arruola come volontario all’età di 52 anni, compiendo anche imprese rischiose: il volo di Trieste, la “beffa di Buccari” e il volo di Vienna.

Durante un atterraggio nel 1916, D’Annunzio si ferisce ad un occhio, ma non rinuncia però a comporre: scrive le prose del Notturno, pubblicate poi nel 1922, dove lo scrittore si avvicina alla prosa lirica di argomento autobiografico e dal registro stilistico più misurato.

Dopo il conflitto mondiale, D’Annunzio si fa interprete della “vittoria mutilata” che fermentava tra i reduci, con questi, marcia su Fiume scontrandosi con le trattative di pace dello Stato italiano. Nel 1921 è costretto a ritirarsi per l’arrivo dell’esercito italiano, scacciato tenta di riportare ordine nel caos del dopoguerra ma, si ritrova a fare i conti con il più abile politico, Benito Mussolini, il quale se da una parte lo esalta come il padre della patria, dall’altro lo guarda con sospetto relegandolo nella Villa di Gardone, che D’Annunzio trasforma in un museo “Il Vittoriale degli italiani”, dove lo scrittore trascorrerà gli ultimi anni della sua vita e muore nel 1938.

D’Annunzio ha attraversato oltre un cinquantennio di cultura italiana, coniatore di neologismi (tramezzino, folla oceanica, fusoliera), cimentandosi anche nel cinema, nell’attività pubblicitaria (pensiamo alla Rinascente), nella cucina influenzandola a livello letterario ma soprattutto politico, elaborando ideologie ed atteggiamenti, anticipando il ’68, dando vita al fenomeno dannunzianesimo il quale ha segnato il comportamento di intere generazioni borghesi, concedendogli grande fama e stravaganti leggende nel panorama letterario europeo novecentesco e dividendo ancora oggi la critica tra feroci detrattori della sua poetica seducente, sensuale, suggestiva e di esaltazione, priva di risvolti civili e morali, e appassionati ammiratori soprattutto in virtù del carisma e del nazionalismo del Vate.

Dal romanzo al film: L’innocente, l’ultimo sguardo critico di Luchino Visconti

L’ultima opera del maestro Luchino Visconti prima di andarsene, e dopo essersi dedicato ad un primo montaggio. L’innocente (1976) non venne ritoccato né dai collaboratori di Visconti né dagli sceneggiatori Cecchi D’Amico e Medioli.

I titoli di testa del film riportano l’ultimo messaggio, l’ultimo saluto del regista più lirico che ha avuto il cinema italiano: le sue mani che sfogliano una vecchia edizione del romanzo L’innocente di Gabriele d’Annunzio. Cosa avrà spinto l’aristocratico regista a trasferire su pellicola il più tradizionale dei romanzi del poeta-vate? Forse i giudizi lusinghieri sul romanzo espressi, tra gli altri, da Marcel Proust, scrittore molto amato da Visconti e di cui avrebbe voluto realizzare La ricerca del tempo perduto? In effetti, a differenza de Il piacere, primo romanzo decadente e post-naturalista della nostra letteratura, L’innocente si muove tra naturalismo e decadentismo, (guardando ai grandi romanzi russi), e proprio questo discrimine tra le due categorie storico-critiche (specialmente l’ultima) probabilmente ha attratto Visconti insieme all’atmosfera crepuscolare e dimessa rispetto alle precedenti opere.

Tale supposizione trova riscontro nel secondo periodo della produzione del regista, caratterizzato da un certo gusto per il decadentismo.Tuttavia sono il disagio interiore e la gelosia del protagonista, Tullio Hermil, ricco ed aristocratico uomo che tradisce la propria moglie, che proiettano il romanzo nel Novecento, anticipando la figura dell’inetto sveviano e ad attrarre Luchino Visconti.

Vi sono profonde differenze sostanziali e narrative tra il libro e il film:nel romanzo Tullio è sposato con Giuliana e hanno due figlie, nel film l’infelice coppia non ne ha, la figura quasi invisibile di Teresa Raffo, amante di Tullio e proposta nel film come presenza indipendente e addirittura giudicante del comportamento e del gesto di Tullio che uccide il figlio di Giuliana concepito con lo scrittore Filippo D’Arborio, dopo averlo esposto al gelo durante la notte di Natale. Ma soprattutto, mentre D’Annunzio lascia sopravvivere Tullio al suo crimine, Visconti lo rende suicida, in quanto secondo il regista l’aristocratico conservatore è incapace di scendere a compromessi con la modernità, con l’emancipazione femminile, soprattutto dopo il rifiuto di Teresa Raffo che lo indica come “mostro” escludendo qualsiasi possibilità di amarlo ancora. Certamente Tullio non si toglie la vita per rimorso ma perché, da perfetto superuomo, il quale si considera al di sopra della legge, e convinto esponente di un mondo che vuole plasmare il ‘resto’ del mondo, non può accettare la propria fine e quindi preferisce disporre lui della sua vita, di fronte al fallimento e alla decadenza.

Se L’innocente dannunziano è un romanzo-confessione/giustificazione che mira a raccontare un male inesorabile, un odio invincibile, sia mentale che morale che attanaglia l’ateo e dongiovanni Tullio tra ritorni ad un’equivoca bontà di matrice tolstoiana e continui tradimenti, L’innocente viscontiano è un sottile ritratto della Roma umbertina e del suo clima culturale,da questo punto di vista Visconti non si allontana dal suo leitmotiv: il crollo di un mondo, di una società filmati attraverso la sconfitta e l’agonia esistenziale di uno o più individui che ne rappresentano la classe vigente. Pur curando l’aspetto strettamente umano, le dinamiche relazionali,la condizione femminile (l’aborto in particolar modo), Visconti pone la sua raffinata lente d’ingrandimento sul male di Tullio e sul suo non far nulla per tenerlo a bada, per eseguire il requiem di un’epoca.

Non c’è spazio per approfondimenti di tipo psicologico ne L’innocente, Visconti piuttosto privilegia gli arredamenti principeschi, gli abiti d’alta sartoria, accessori preziosi, quasi a voler evidenziare ancora di più l’atmosfera di morte che pervade il film (allontanandosi anche per quanto riguarda questo aspetto dal romanzo).
Le nette differenze tra romanzo e film hanno suscitato non poche perplessità tra la critica, in realtà la rilettura che propone Visconti mostra coerentemente continuità con molte delle sue opere precedenti ( si potrebbe fare un parallelo tra Tullio e Ludwing, entrambi personaggi tragici, votati ai miti di grandezza) proprio il romanzo di D’Annunzio, usandolo come pretesto per raccontare, attraverso un linguaggio bellissimo, anche altro. Questa è la vera tragedia e Luchino Visconti ne è il maestro.

 

L’innocente-scheda film
Anno: 1976
Durata: 135′
Genere: Drammatico
Regia: Luchino Visconti
Fotografia: Pasqualino De Santis
Musica: Franco Mannino
Temi musicali tratti da: Sinfonia Concertante di W. Amadeus Mozart
Sceneggiatura: Suso Cecchi D’Amico, Enrico Medioli, Luchino Visconti
Cast: Laura Antonelli (Giuliana), Giancarlo Giannini (Tullio Hermil), Jennifer O’neil (Teresa Raffo), Marc Porel (Filippo D’Arborio), Massimo Girotti (conte Stefano Egano), Rina Morelli (madre di Tullio).
Costumi: Piero Tosi
Scenografia: Mario Garbuglia
Produzione: Rizzoli Film

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