‘Senti caro Carlo’, il saggio su Gadda di Maria Pia Selvaggio sarà presentato per la prima volta a Roma il 27 maggio

Si intitola “Senti Caro Carlo”, il saggio di Maria Pia Selvaggio, frutto di uno studio di tre anni, che mira ad avvicinare soprattutto i più giovani alla complessa figura del grande scrittore milanese in modo non “accademico” attraverso la corrispondenza tra Gadda, giovane soldato al fronte durante la Prima Guerra Mondiale e sua zia.

Il libro, già best seller in nella sezione Critica Letteraria d Amazon, parte dall’analisi e dalla ricostruzione del carteggio custodito presso il Gabinetto Vieusseux di Palazzo Strozzi a Firenze e danneggiato dall’alluvione dell’Arno del 1966.

In attesa di celebrare nel 2023 i 50 anni dalla morte i 130 anni dalla nascita dGadda, la prima presentazione di “Senti, caro Carlo” si terrà venerdì 27 maggio alle ore 18 a Roma, nella storica Libreria Minerva di piazza Fiume, che l’anno prossimo festeggia il centenario della fondazione.

Sul saggio di Maria Pia Selvaggio

Affrontare la gigantesca figura di Carlo Emilio Gadda, personalità tra le più affascinanti e importanti della letteratura italiana del ‘900, per Maria Pia Selvaggio, è stata una scommessa vinta. Da pochi giorni infatti l’editrice e scrittrice sannita di Telese Terme (Benevento), ha dato alle stampe il saggio dal titolo “Senti Caro Carlo. Fibre epistolari tra Carlo Emilio Gadda e Isabella Rappi Lehr.

Il saggio scaturisce dal lungo studio di un carteggio, contenente la corrispondenza epistolare tra Gadda, giovane soldato al fronte durante la Prima Guerra Mondiale, e la zia Isabella Rappi Lehr, medico specialista al Rizzoli di Bologna.

Le epistole sono state concesse in esclusiva all’autrice del saggio, dagli eredi di Gadda con l’ approvazione del Gabinetto di Stato Viessaux di Firenze e della commissione gaddiana della ricerca di dell’Università La Sapienza di Roma. Le lettere, in parte illeggibili data l’usura del tempo, sono state analizzate e decodificate da Maria Pia Selvaggio in un lavoro solitario durato tre anni.

Pur mantenendo quella “armonia prestabilita”, che rende unico il labirinto gaddiano, la saggista Selvaggio ricostruisce, attraverso il piano della “realtà” e quello del “caos”, il momento di deformazione strutturale, che serve a svelare la trama poetica di Gadda oltre l’apparenza, minando la provvisorietà e la costruzione barocca, atta a sollecitare un profluvio di emozioni, nel centro del vortice nevrotico tra linguaggio e verità.

Il carteggio diviene solo lo spunto da cui Maria Pia Selvaggio parte per “puntellare” le risorse gaddiane, che screpolano le ansiose richieste della zia Isabella: “Come sta il mio caro Carlo?; Ho conosciuto un ingegnere che ti potrà dare una mano, raccomandarti…; Senti Caro Carlo, la tua cara mamma…;”.

La guerra “imposta” ai vari intellettuali, diviene l’itinerario di un disordine non “ordinato”, anche se quell’eredità dolorosa, in cui perderà l’amato fratello scuoterà e riscalderà il Gadda scrittore.

Il disordine oggettivo del reale, l’affetto dell’autore nei confronti del fratello, l’orrore della guerra, il disprezzo per le gerarchie, la ricostruzione del pensiero, sono le tematiche principali intorni alle quali riflette la Selvaggio, dividendo il saggio in quattro sezioni che analizzano e “rosicchiano” i pensieri di Gadda (filosofo, uomo, nipote, figlio e fratello).

In evidenza, le geniali   creazioni linguistiche, le  accensioni liriche, le pennellate impressionistiche, di una costante vena ironica e di un’arguta vis polemica, tipicamente ed isolatamente gaddiane

È evidente il coinvolgimento emotivo dell’autrice, lontano anni luce dalla fredda analisi d’un Gadda “critico”; l’arte, il linguaggio, la storia (delle idee e degli eventi), le scienze, la tecnica sono organi d’un essere vivente, come tali avvertiti e vissuti.

Il lavoro di Maria Pia Selvaggio mette anche a confronto due mondi differenti: quello della zia, Isabella, medico ortopedico, donna borghese, e attenta alla sorte lavorativa e preoccupata per la salute del nipote, e quello di Carlo, soldato ventiduenne, irascibile e oltremodo critico .

Il saggio è dunque un’epopea letteraria che parte dalla famiglia e approda alle opere più significative dello scrittore milanese che aveva una visione barocca del mondo.

Terapia e Umanesimo. Psicologia, letteratura, mitologia

Non tutto ciò che è terapeutico diventa ufficialmente psicoterapico. Solo nel 1961 Boris Levinson definì il cane come “coterapeuta” ad esempio. Eppure i benefici degli animali domestici erano noti da millenni. Tuttavia solo con la pet therapy sono stati, per così dire, istituzionalizzati a livello psicologico.

Allo stesso modo non tutti i disturbi psichici dell’umanità sono classificati nel DSM. Ogni volta il manuale viene aggiornato e spuntano fuori nuove sindromi. D’altronde la natura umana è la stessa, ma l’ambiente, gli artefatti, il modo di ambientarsi ad essi sono sempre nuovi. Lo stesso disturbo psichico inoltre può essere diagnosticato in modi diversi a seconda della cultura di appartenenza dello psicologo.

A dirla tutta neanche tutto ciò che è psicoterapico ha proprietà terapeutica: talvolta per la scarsa ricettività del paziente, talvolta per la scarsa efficacia del curatore o della cura. Spesso le persone usano gli psicofarmaci perché come dicevano gli analisti un tempo almeno questi inibiscono il sintomo, anche se non eliminano il problema psicologico. Prima di continuare su questa falsariga espliciterò alcune mie convinzioni: tutti avremmo bisogno di uno psicologo, anche gli stessi terapeuti avrebbero tutti bisogno di un supervisore, per una buona salute mentale pubblica.

Per quanto riguarda i benefici interiori dell’umanesimo possiamo citare tre pratiche psicologiche abbastanza recenti: la biblioterapia, la psicosintesi di Assagioli, l’arteterapia. Per chi volesse approfondire la biblioterapia consiglio di leggere i due libri dello scrittore Miro Silvera, editi entrambi da Salani. In questo caso il terapeuta consiglia di leggere dei volumi per far acquisire una maggiore autoconsapevolezza ai pazienti.

Esiste catarsi e beneficio psichico sia nella fruizione di opere d’arte che nell’esprimersi artisticamente. Male che vada anche il più goffo tentativo di esprimersi artisticamente è un modo per conoscersi meglio, per una migliore esplorazione di sé. La psicosintesi di Assagioli prevede anche lo scrivere un diario interiore perché l’io raggiunga il Sé transpersonale. Scrivere per Assagioli è un modo efficace per conoscere le proprie sub-personalità, per approdare a ogni tipo di inconscio, anche quello individuale superiore, fatto di simboli, e anche quello collettivo, costituito da archetipi.

Secondo Assagioli esiste un inconscio inferiore, quello freudiano, un inconscio medio, costituito dalla razionalità, e uno superiore, sede della creatività. Secondo lo schema psichico o diagramma dell’ovoide di Assagioli tutte le istanze psichiche sono comunicanti, esiste un continuo interscambio tra conscio e inconscio:  ecco perché le linee che collegano i vari nuclei psichici sono tratteggiate nella figura. Il diagramma dell’ovoide è fondamentale perché l’individuo compia il suo percorso di individuazione. Ma ancor prima del geniale Assagioli, considerato dallo stesso Jung e ideatore di una delle più importanti scuole di psicoterapie italiane, era nota a molti la scrittura come autoterapia. Così come l’arteterapia era già nota agli antichi greci.

Le tragedie greche avevano un effetto catartico collettivo. Per quanto riguarda l’arteterapia si sono diffuse molto la musicoterapia e la teatroterapia. Fondamentale per questa scuola  è la figura carismatica dello psicoterapeuta, che dovrebbe essere anche un artista a tutti gli effetti. Invece molto spesso non lo è e conosce solo teoricamente senza averle sperimentate di persona le tappe del processo creativo. Ci sono tanti presunti professionisti che in realtà sono improvvisati.

Così facendo, i pazienti/discenti sono allo sbaraglio. Però sgombriamo il campo da ogni equivoco: i pazienti non devono avere aspettative troppo elevate e pensare di guarire completamente con queste pratiche psicologiche o di diventare artisti a tutti gli effetti. In definitiva l’arte non ha salvato tutti gli artisti. Molti hanno dovuto convivere malamente lo stesso con la loro nevrosi o psicosi. I suicidi tra gli artisti sono ricorrenti. Lo stesso psicodramma di Moreno può risultare davvero terapeutico e formativo perché è il cosiddetto teatro della spontaneità,  è un’occasione di incontro.

Con lo psicodramma avevano luogo molte trasformazioni e molte rivoluzioni interiori: questo spaventava i dittatori sudamericani che infatti lo proibirono. Anche i cosiddetti libri di filosofia pratica possono farci evolvere interiormente e aiutarci nel nostro cammino. La  consulenza filosofica può aiutare, tant’è che in America è diffusa. Un’ultima cosa: perché queste pratiche psicologiche facciano effetto bisogna che la persona creda veramente in chi la guida, in quello che sta facendo e nei benefici interiori dell’umanesimo. Una volta consigliai a un amico depresso, che era stato lasciato dalla ragazza, tre libri: Lettera alla madre sulla felicità di Alberto Bevilacqua, La conquista della felicità di Bertrand Russell, E liberaci dal male oscuro di Cassano.

I primi due libri erano umanistici. Il terzo era sulla depressione ed era scritto da uno psichiatra. Ebbene non li apprezzò.  Non stimava me né quegli autori e credeva, avendo una formazione scientifica, che l’umanesimo fosse un’enorme perdita di tempo. Invece anche i libri possono essere antidepressivi. Anche queste scuole psicoterapiche fanno parte della terapia della parola. Anche i libri possono cambiare e migliorare a lungo termine la nostra neurochimica. Per quanto riguarda esprimersi artisticamente allo stesso modo ogni sintomo può diventare un simbolo. Le recenti scuole psicoterapiche suddette comunque non hanno influenzato ancora la letteratura, come fece a suo tempo la psicoanalisi, con Virginia Woolf, Kafka, Joyce, Svevo, Moravia, Gadda.

In poesia in fondo gli automatismi psichici dei surrealisti e il paroliberismo dei futuristi scaturiscono dalle libere associazioni freudiane, così come i monologhi interiori e i flussi di coscienza di tanti scrittori derivano dalla scuola psicoanalitica. La psicosintesi, la biblioterapia, l’arteterapia non hanno fatto altro che confermare conoscenze già note agli umanisti, pur non sottovalutando l’apporto significativo di questi maestri di pensiero. Freud invece è stato un grande innovatore e grazie a lui gli artisti hanno iniziato a esplorare l’inconscio in modo mai così approfondito, anzi prima della psicoanalisi molti lo rimuovevano.

Perché un’opera sia veramente artistica, secondo il diagramma dell’ovoide di Assagioli, l’io deve approdare al Sé transpersonale, almeno in modo parziale e provvisorio, e anche all’incontro collettivo, anche esso in modo almeno parziale e provvisorio: un’opera artistica quindi si caratterizza prima di tutto per la sua universalità a livello psichico. Dispiace che la letteratura difficilmente sia mitopoietica,  ovvero non crei più miti, grazie a cui si potevano fissare degli archetipi nella psiche dei fruitori.

I greci avevano il nichilismo, ovvero la concezione secondo cui persone e cose sono nel niente, esistono nel divenire e poi ritornano nel niente, ma avevano anche una letteratura mitopoietica,  che trasmetteva dei valori perché in ogni mito c’era un principio etico e ogni favola aveva una sua morale. Questo era l’antidoto efficace al nichilismo.

Oggi solo il cinema in parte è mitopoietico, ma più che miti spesso lo show-business crea mode e idoli di cartapesta, che dopo qualche mese vengono sostituiti e fagocitati. Oltre ad avere un bombardamento pornografico e un bombardamento di notizie l’uomo contemporaneo è bombardato da miti di ogni genere di brevissima durata.

 

 

Maria Pia Selvaggio direttrice editoriale di ‘2000diciassette’: ‘L’editoria avrebbe bisogno di una stabilizzazione, di regole nuove e di incentivi’

Maria Pia Selvaggio è direttrice editoriale della casa editrice 2000diciasette. Editrice ma anche scrittrice, la sannita Maria Pia Selvaggio nasce a Telese Terme (BN).

La sua prima opera risale 2006, Il Sapore del Silenzio. A seguire la raccolta di racconti Borgofarsa (2007); L’Arcistrea (2008) dedicato alla janara beneventana Bellezza Orsini; Lei si chiama Anna (2010), romanzo ispirato alla tragedia di Via Puccini (Roma), che ha visto protagonisti Anna Fallarino ed il marchese Camillo Casati Stampa di Soncino; nel 2011 partecipa a varie antologie con i racconti Larissa e Le Sette Ore ispirato ad una vicenda vera.

Nel 2012 edita il romanzo Ai Templari il Settimo Libro che pubblica con il gruppo Publiedi-Raieri-Panorama-Si di Giuseppe Angelica. Intanto inizia la stesura del romanzo Le Padrone di Casa.

Nel 2014 Maria Pia Selvaggio entra a far parte di un progetto europeo che la vede impegnata con il teatro attraverso le opere Hamida rappresentata in Belgio e Francia; ancora nel 2016 la seconda opera drammaturgica Kariclea messa in scena a Viterbo, Firenze, Grecia, Spagna e Bruxelles. Nel 2017 decide di dare in stampa con la casa editrice Edizioni 2000diciassette, Le Padrone di Casa.

2000diciassette è una preziosa realtà editoriale, testimonianza dell’impegno e del lavoro portato avanti a livello nazionale ed internazionale da editori coraggiosi e innovativi che vogliono valorizzare il territorio in cui vivono, insieme ai loro talenti.

 

Quando e come è nata 2000diciassette e su quali scrittori punta maggiormente? È stato complicato fondare una casa editrice nella provincia beneventana?

La casa editrice 2000diciassette nasce nel gennaio 2017 a Telese Terme (BN) e il nome sancisce l’anno di nascita e di rinascita personale della sua fondatrice. Ero stata pioniera della letteratura al femminile nel Sannio, la prima donna a pubblicare in Valle Telesina nel 2005. Ci volle molto coraggio e fui sottoposta a molte critiche, ma ricevetti anche molti incoraggiamenti. Lo stesso coraggio mi ha portato, anni dopo, a tentare di valorizzare il territorio, proponendo al mondo la lettura di autori sanniti. La finalità della casa editrice è quella di un ripristino della letteratura Sannita, che ha visto autori eccelsi quali Telesio, di cui si sono perse le tracce letterarie, ma che fonti quali Burger e Beloch citano nei loro studi, attraverso autori emergenti, per poterla proiettare nel mondo e nello stesso tempo favorire la lettura e la distribuzione di autori nazionali ed internazionali. Il nostro motto è: Dal Sannio, nel Sannio. I fondatori: Marcella De Mercurio, Pier Luigi Perrottelli, Jessica Vitelli, Luigi Morone e Christian D’Occhio, insieme allo staff di correttori e giornalisti, cercano di rendere sempre efficaci e propositive le proposte editoriali. Tutti gli autori presenti nelle collane editoriali hanno propri spazi e peculiarità particolari, che rendono i loro lavori letterari unici nel panorama culturale.

Quanto è importante per il territorio e per gli scrittori poter avere come riferimento la vostra casa editrice 2000diciassette?

Mi sorge spontanea l’affermazione trita e ritrita: “nessuno è profeta in patria”, ma devo affermare con sincerità che: si, non è stato facile e non lo è tuttora, dopo cinque anni dalla nascita della casa editrice farsi spazio in realtà dove a contestualizzare la cultura sono “circoli mecenatici” chiusi alle novità letterarie e culturali, soprattutto se considerate provenienti dal “basso”. Noi 2000diciassette diamo “inchiostro” e possibilità a chi non avrebbe mai il coraggio di esprimersi se non supportati, diamo voce ai fragili, a coloro che si sentono esclusi, ma che hanno tanta ricchezza e cultura da trasmettere. Stiamo dando vita a sogni che solo attraverso la scrittura, tante volte, possono essere realizzati. Siamo lontani da tecniche di “ego-cultura”, di cultura fatta di provincialismo e corse alle presentazioni più appariscenti, lontani da superficialità e bigottismo. Amiamo la scrittura genuina, la competenza profonda senza presunzione e l’apertura verso ampi spazi culturali. Abbiamo autori nazionali e internazionali e da poco abbiamo sancito una rete letteraria con poeti e scrittori francesi

Qual è la risposta del pubblico e del territorio alle iniziative della vostra casa editrice?

Si fa sempre molta fatica a scardinare quelli che sono luoghi comuni legati ad una visione provinciale delle manifestazioni letterarie e culturali, legate, mi ripeto, ad un certo mecenatismo borghese, ma due sono i punti di forza che su cui poggiamo le nostre innovazioni editoriali: inclusione e sinergia. Non senza un po’ di orgoglio, possiamo affermare che in parte siamo riusciti a sollecitare un pubblico sempre più ampio di lettori, uditori e scrittori del territorio, proponendo canovacci di presentazioni sempre più ampi ed inclusivi, dove a partecipare, sempre più spesso, sono anche persone che avevano un’idea “soporifera” degli eventi legati alle letture ed ai libri, o peggio, ne avevano un’idea esclusivamente “celebrativa”. Agli autori che editano con 2000diciassette noi forniamo le ali, accompagnammo il “volo” e spesso alcuni di loro riescono a trovare il coraggio per proporsi anche a casa editrici che credono superiori, complice l’idea che uscire fuori e percorrere altri tratturi editoriali sia meglio: questo per noi è fonte di immensa soddisfazione.

Come scegliete gli autori da pubblicare e secondo quali parametri?

Gli autori propongono le loro opere e un team di esperti, presieduto dal curatore di ogni collana, decide la pubblicazione, a seguire l’opera viene sottoposta al Direttore Editoriale. Abbiamo collane editoriali che vanno dalla narrativa, romanzi e racconti brevi, alla saggistica; dalla poesia al poema moderno, sono presenti in catalogo anche delle opere teatrali. Capita che qualche titolo nasca da eventi o progetti in corso, abbiamo delle antologie che toccano svariati temi: dall’importanza del cioccolato “Je suis Chocolat”, autori vari, all’autunno con “d’Autunno”; per alleviare il senso di solitudine provocato dalla pandemia, in pieno regime pandemico abbiamo editato “A porte chiuse”, ove autori di tutta Italia si sono confrontati in un abbraccio comune, fatal catena d’affetto e d’intenti.

Cosa pensa dell’editoria italiana?

Il problema della lettura in Italia si intreccia con caratteristiche culturali e socio-demografiche; la popolazione diminuisce e diminuiscono i lettori, bisogna diffondere la consapevolezza che chi legge fa più strada. L’editoria avrebbe bisogno di una stabilizzazione, di regole nuove, di incentivi che troppe volte vengono meno. I nuovi editori sono davvero degli eroi, in un mercato che diventa sempre più competitivo e saturo. In buona sostanza, chi ha più micce economiche sopravvive e i piccoli e medi editori si “arrangiano” per rimanere a galla. Troppo spesso, gli scrittori pubblicati da medie o piccole case editrici sono infinitamente più bravi di scrittori a cui è destinata fama nazionale, ma la Storia insegna che è un fenomeno avvenuto e ripetuto nel corso dei secoli, basti pensare agli autori cardine della letteratura italiana, per accorgersi che sono morti in povertà e qualcuno senza la fama che ha meritato a-posteriori. Credo sia importante aiutare le biblioteche, che possono essere quei punti diffusi di mediazione della lettura sul territorio per tutti i cittadini.

Quale tra le vostre collane riscuote maggior successo? Tra di esse se ne annovera una denominata Fragili? Perché questa scelta?

Il memoire. La collana dedicata al memoire rappresenta il 60% delle bozze letterarie che riceviamo, seguita dalla collana di poesie, romanzi e racconti. Una collana esclusivamente dedicata alle “fragilità”, nata circa tre anni fa, è divenuta forza motrice per coloro che spesso hanno timore a palesare le loro storie, a raccontarsi, a denunciare. Bullismo, sordità, accoglienza degli stranieri, handicap fisici, depressione, tutti problemi legati al sociale e rappresentati in prima persona da chi vive giornalmente i vari disagi. Per la prima volta in Italia una collana editoriale esclusivamente dedicata a tematiche sommerse, ma che hanno bisogno di essere raccontate. In questo ambito ci siamo mossi attraverso una rassegna “ConTesti”, che ha raccolto consensi da tutta Italia. Borghi della lettura ha accolto questo progetto con entusiasmo, adottando simbolicamente tre nostri autori. Un’altra collana “Ruah” riguardante la Storia delle Religioni, curata dal Teologo Christian D’Occhio, sta riscuotendo molti consensi. Personalmente, ogni nuovo autore mi emoziona, consapevole che accanto a me e tra fogli sparsi, pulsa un’anima.

Ci può dare qualche anticipazione sulla prossima pubblicazione in uscita e suoi progetti futuri?

Nei nostri progetti futuri l’idea di una rete con il mondo editoriale europeo, per uno scambio costruttivo e ampio. Per l’anno prossimo già tantissime le proposte ricevute che riguardano i vari generi e le varie collane. Molti i giovani che si avvicinano al mondo della scrittura e questo ci riempie di orgoglio: essere forieri di nuovi talenti è il sogno di tutti gli editori. Molti i titoli che saranno presentati, e tra i nomi che proporremo anche scrittori stranieri. La prossima uscita in ordine di tempi? Non potendo preannunciare tutte le uscite, che saranno abbondantemente pubblicizzate di volta in volta, annuncio la mia. Da tre anni ero al lavoro su un carteggio dal fronte fra Carlo Emilio Gadda e la zia Isabella Rappi Lehr, per concessione dell’archivio contemporaneo Vieusseux, dell’erede di Carlo E. Gadda: Arnaldo Liberati e con l’approvazione dell’Università La Sapienza di Roma, che ho terminato in questi giorni e che vedrà la luce nel mese di gennaio. Un lavoro difficile su una delle personalità più complesse della letteratura italiana.

 

Per consultare il catalogo della casa editrice 2000diciassette:https://www.edizioni2000diciassette.com/catalogo/

 

‘La cognizione del dolore’ di Gadda: una lettura psicoanalitica

La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda è uno dei primi romanzi a sfondo nevrotico, oltre che il primo romanzo che diede fama all’autore.

Gadda è uno scrittore che attingerà sempre alle vicissitudini e le esperienze familiari per ispirarsi nelle sue produzioni. Ogni libro è una trasposizione delle difficoltà affrontate nel corso della sua esistenza.

Seguendo schemi di lettura freudiani, Gadda, coglie nella propria infanzia un radicato nucleo traumatico che si esplicherà in maniera superba ne La cognizione del dolore.

Nei suoi contenuti, nel continuo richiamo alla figura materna e alle figure ”perbeniste”  che pullulano in quell’Italia marchiata dal fascismo – e al fascismo stesso! – si riscontrerà sempre e comunque un fondo nevrotico all’interno della sua scrittura.

Carlo Emilio Gadda, quando dalla sofferenza scaturisce la letteratura

L’infanzia di Gadda si cristallizza in un’immagine: quella del padre che,  per costruire la famigerata villa in Brianza, si porrà in una condizione che determinerà la sua rovina.

La madre invece, nonostante le evidenti difficoltà economiche familiari, svilupperà un attaccamento spasmodico alla villa tanto da non volerla vendere, a discapito dei suoi stessi figli. La villa diventa il simbolo del rancore verso la madre che  farà riflettere nelle sue opere e, in particolar modo, ne La cognizione del dolore; alla morte della madre lo scrittore finalmente si libera di quella che definì «la bestia nera della sua psicosi».

Una volta venduta la Villa tanto odiata in giovinezza, inizia la stesura di quello che sarà il suo romanzo introspettivo e autobiografico per eccellenza. Va alla ricerca di oscure ragioni che, impellenti, sottolineano in lui l’astio e  il rancore verso la madre, e non di meno l’odio verso la stupidità dilagante del mondo da cui si sente circondato.

Tutto questo avviene attraverso la costruzione di un perfetto alter-ego letterario che realizza ad hoc; anche per i meno attenti è facilmente intuibile come il protagonista di questa opera umoristica e dissacrante, nonostante tutto,  non è altro che lo stesso autore riflesso nell’ingegnere Gonzalo Pirobutirro.

Anche Gonzalo è un ingegnere, ed è questa sua formazione scientifica che lo sprona a rappresentare la realtà così come si pone, ponendo un’indagine razionale e un approccio scientifico, quasi sperimentale,  agli eventi, i personaggi, e le situazioni.

Lo scrittore in seguito alle sue esperienze più traumatiche, dal rapporto ostico con la madre all’esperienza del fascismo, maturerà anche grazie alla sua formazione scientifica, quanto sia un dovere scardinare la realtà e descriverla come veramente si pone senza gli orpelli del perbenismo. La realtà è sporca, abietta, sconvolgente.

La consapevolezza di appartenere a un destino condiviso

La vicenda in cui si snoda la trama de La cognizione del dolore, si svolge in un paese immaginario del Sud America. La figura centrale è, appunto, Don Gonzalo il figlio misantropo della Padrona della Villa, il quale viene affidato alle cure del Dottor Lukones  al quale Gonzalo comunica la sua visione sugli uomini e sul mondo, società in cui rientra anche la madre uguale alla massa stessa.

Gadda/Gonzalo riconosce nella moltitudine contenitori vuoti e inutili e se ne distacca, consapevole di non far parte di un  gregge privo di valori. Gonzalo è dominato dal pensiero di morte e ossessionato dalla figura della madre: pensieri nevrotici che andranno snodandosi pian piano in ogni pagina investendo ogni  porzione di vita del protagonista.

Grazie a questo insano rancore verso la figura materna, Gadda si mette alla ricerca delle ragioni per il quale Gonzalo ne La cognizione del dolore odia tutti per difendersi da un’esistenza in potenza, una vita attiva dalla quale si sente respinto.

La sua è un’ira che non risparmia nessuno, nemmeno gli umili, una collera infettata da raziocinio che lo porta sì a esser consapevole della stupidità del mondo ma, anche, a concretizzare la consapevolezza di far parte anche lui  di questa sofferenza comune e di avere il medesimo destino di tutti coloro che rifiuta.

Il dolore di Gonzalo

É questa insofferenza, questo dolore, il cardine dell’irritazione di Gonzalo, la causa dei suoi pensieri deliranti e sarcastici. Il rapporto con la madre ne consegue essere solo una conseguenza.

In psichiatria si parlerebbe quasi di una forma di delirio interpretativo che, come lo stesso Gadda fa intendere, non deve avere un’accezione di diagnosi al negativo, tutt’altro! Nelle pagine del romanzo, ci si ritrova di fronte a un personaggio scostante, nevrotico, allucinato e delirante.

Tuttavia Gonzalo non distorce la realtà, non inventa universi paralleli. I suoi pensieri deliranti hanno dei moventi razionali poiché tutto è conseguenza, è una reazione ad un trauma. Un’opera grottesca, nevrotica, sarcastica che l’autore lascerà incompiuta, atterrito e spento dalla ”vanità vana del nulla!”.

L’Io e mondo nella poesia italiana

Gadda ne “La cognizione del dolore” scrive: “[…] l’io, io!… il più lurido di tutti i pronomi!… I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero. Quando il pensiero ha i pidocchi, si gratta come tutti quelli che hanno i pidocchi… e nelle unghie, allora… ci ritrova i pronomi: i pronomi di persona”.

Però Gadda lo fa dire al protagonista, suo alter ego nevrotico, in una crisi parossistica. Non dimentichiamo che Gadda era notoriamente nevrotico, per quanto geniale, e ha messo molto del suo io empirico nevrotico in quel romanzo. Alcuni oggi, che vorrebbero rimuovere l’io lirico, citano questo brano dell’ingegnere.

Inoltre per Gadda tutti i pronomi sono “pidocchi del pensiero”, per cui non ci sarebbe via di uscita. Ogni narrazione sarebbe perciò tarata a priori. Infine queste frasi non vanno decontestualizzate. Estrapolare delle frasi dal loro contesto può essere fuorviante ed indurre in errore. Si tratta pur sempre di un romanzo, La cognizione del dolore, che ha senza ombra di dubbio un suo contenuto di verità, ma che è anche creazione di un mondo fittizio e di personaggi immaginari grotteschi e paradossali.

L’io tra nevrosi e impersonalità

Il problema è quanto della propria nevrosi, delle proprie fratture, dei propri vuoti uno riversi nella propria opera e ciò non è  necessariamente detto che sia un male. Chi impone che l’impersonalità e il distanziamento siano degli obblighi della narrazione? E la narrazione di Gadda può essere forse presa di esempio?

Bisogna sempre stare attenti quando si cita a non farlo a sproposito, a non strumentalizzare la fobia dell’io di Gadda. Qui non si tratta di canoni della letterarietà, ma di una difesa ad oltranza di quel poco che resta del soggetto freudiano (visto e considerato che il soggetto cartesiano è stato distrutto dai maestri del sospetto e del cogito, ergo sum resta solo il coito, ergo sum).

La rimozione dell’io lirico

Ad ogni modo ognuno è sempre circondato da se stesso, come scriveva Sartre, indipendentemente dagli escamotage narrativi. A proposito di io e scrittura, oltre al celebre detto “Conosci te stesso”, Gramsci in un articolo citava Novalis, che a sua volta scriveva: «Il supremo problema della cultura è di impadronirsi del proprio io trascendentale, di essere nello stesso tempo l’io del proprio io. Perciò sorprende poco la mancanza di senso ed intelligenza completa degli altri. Senza una perfetta comprensione di noi, non si potranno veramente conoscere gli altri». Ma può valere anche il contrario.

Insomma sono  necessarie anche l’autoconoscenza, l’autodeterminazione. Per decenni l’intimismo ha fatto da padrone nella cosiddetta poesia lirica. Attualmente in Italia alcuni letterati vogliono rimuovere l‘io lirico e demonizzano l’io in senso lato.

Voler rimuovere l’io lirico significa non poter scrivere in prima persona nelle poesie, essendo costretti a trattare gli altri che possono essere proiezioni del proprio io o riproposizione delle solite figure parentali. Insomma la psicanalisi ci insegna a ragione che è lecito diffidare anche di chi parla troppo degli altri e che talvolta così facendo finisce per deformarli troppo  con la sua lente o per rispecchiare sé stesso.

Poeti introversi ed estroversi

Alcuni sostengono che i poeti contemporanei siano affetti da egolatria. È difficile dire quale sia il discrimine tra normalità e patologia. E poi si pensi al fatto che anche Stendhal scrisse Ricordi di egotismo. La stessa poesia moderna americana è un continuum ai cui poli opposti ci sono la schiva Emily Dickinson e il titanico Walt Whitman.

Da una parte l’introversione e dall’altra l’estroversione. Prima ancora che un atteggiamento intellettuale, filosofico, letterario, conoscitivo scegliere uno o l’altro di questi poli è questione di personalità. Ci sono introversi ed estroversi. Non c’è niente di giusto o sbagliato. Ci sono pro e contro di entrambe le condizioni esistenziali.

Questi due diverse modalità di approcciare la realtà sono frutto prima di tutto questione di personalità. Dalla personalità consegue il modo di interfacciarsi al reale. Come esiste un orientamento sessuale, politico, valoriale esistono anche varie tipologie di personalità. Ma i critici letterari non dovrebbero giudicare il modo in cui gli autori si volgono alla conoscenza.

C’è chi sceglie insomma prevalentemente l’interno e chi l’esterno. In alcuni autori gli altri si riflettono in loro stessi ed in alcuni autori l’io si riflette negli altri. Si tratta pur sempre di rimandi continui, di un perenne gioco di specchi. Partire dagli altri e finire nell’io o viceversa è solo un punto di partenza.

Cosa significa privilegiare l’io

Privilegiare l’io o il mondo non deve essere una posa, basata su premesse teoriche. Esimersi dal tranciare giudizi approssimativi è senza dubbio un atto di onestà intellettuale; è fuori luogo anche il fatto che a seconda dello spirito dei tempi sia di moda quando l’intimismo e quando invece gli altri. Un altro aspetto risibile  è che alcuni autori postulino la rimozione dell’io e poi scrivano dei romanzi o delle raccolte poetiche autobiografiche.

Evidentemente egoriferiti sono sempre gli altri. In questi ultimi anni in poesia nelle polemiche letterarie evidentemente vince chi dà per primo dell’egoriferito all’altro. È una moda come un’altra. Non è frutto di una evoluzione stilistica o letteraria. Non è un punto di arrivo della letteratura come vorrebbero far credere alcuni. Un tempo c’era la vecchia disputa molto divisiva tra realisti ed idealisti.

La conoscenza di se e degli altri

Il vero atteggiamento conoscitivo equilibrato sarebbe trovare un equilibrio tra io e mondo e questo trascendendo i propri tratti di personalità. Ma ciò è quasi impossibile perché l’io o il mondo sono come calamite. C’è chi è attratto dall’uno e chi dall’altro, molto probabilmente più per attitudine che per scelta, più per natura che per cultura.

Un interrogativo che sorge spontaneo è se la propria personalità di base sia un nucleo costante ed inalterabile o se invece oggi come oggi sia modificabile. La cosa si complica perché sembra che le vecchie teorie sulla personalità come i tipi psicologici di Jung siano oggi inadeguate per decifrare il Sé così sfuggente dell’uomo contemporaneo.

Sembra che entrino in gioco in ognuno di noi anche le cosiddette sub-personalità. Anche gli altri sono però sfuggenti. In ogni caso è vero che cresciamo e maturiamo grazie all’immagine che gli altri hanno di noi, ma è altrettanto vero che per conoscere bene gli altri bisogna conoscere bene sé stessi.

È un circolo ermeneutico che dura tutta la vita. Sia la conoscenza di noi stessi che del mondo è sporadica, superficiale, discontinua. Di noi stessi conosciamo la nostra voce interiore, il nostro discorrere tra sé e sé. Degli altri conosciamo una minima parte dei loro comportamenti e delle loro espressioni verbali.

Uno dei problemi filosofici ancora irrisolti è come, nonostante i nostri limiti intrinseci, riusciamo a conoscere tutto quello che conosciamo. La questione dell’io in letteratura è un intreccio inestricabile di letterarietà e psicologia. Non può essere altrimenti e le persone ponderate dovrebbero riconoscerlo senza tacciare chi la pensa diversamente di psicologismo.

Non vi preoccupate comunque poeti introversi ed intimisti: l’io tornerà di nuovo in auge. E poi perché estrovertersi sia necessariamente un bene e concentrarsi su di sé è necessariamente un male? La preghiera, il raccoglimento interiore, la meditazione dovrebbero essere allora un male?

 

Davide Morelli

Barocco è il mondo: il pastiche linguistico di Gadda come immagine di un mondo aggrovigliato

In uno scritto posto nel 1963 ad apertura del romanzo La cognizione del dolore, Carlo Emilio Gadda precisa la propria poetica e offre l’esempio di una scrittura assolutamente originale. Accostandosi alla pagina per la prima volta, ci si può rimanere meravigliati di fronte ad una lingua diversa da quella utilizzata dagli altri narratori italiani coevi, e confusi per la difficoltà di cogliere sia i tanti riferimenti cui il testo rimanda, sia il significato letterale di molte frasi, nelle quali lo stravolgimento lessicale e l’alterazione sintattica rivelano immediatamente la lontananza dall’uso più convenzionale e comunicativo della lingua. lo scrittore milanese afferma tuttavia che il punto di partenza del suo lavoro di scrittore è la realtà; ma la realtà gli appare immediatamente arzigogolata, strampalata, deformata.

“La sceverazione degli accadimenti del mondo e della società in parvenze o simboli spettacolari, muffe della storia biologica e della elativa componente estetica, e in moventi e sentimenti profondi, veridici della realtà spirituale, questa cèrnita è metodo caratterizzante la rappresentazione che l’autore ama dare della società: i simboli spettacolari muovono per lo più il referto a una programmata derisione; che in certe pagine raggiunge tonalità parossistica e aspetto deforme: lo muovono alla polemica, alla beffa, al grottesco, al barocco: alla insofferenza, all’apparente crudeltà, a un indugio misantropico del pensiero. Ma il barocco e il grottesco albergano già nelle cose, nelle singole trovate di una fenomenologia a noi esterna: nelle stesse espressioni del costume, nella nozione accettata comunemente dai pochi o dai molti […]. talché il grido-parola d’ordine <<barocco è il G.!>> potrebbe commutarsi nel più ragionevole e pacato asserto <<barocco è il mondo, e il G. ne ha percepito e ritratto la baroccaggine”.

Per essere rappresentata, dunque, questa realtà barocca e grottesca, richiede una scrittura altrettanto barocca, che si avvale di lingue diverse, di espressioni ridondanti, di immagini non comuni. La scrittura non deve rispecchiare la realtà secondo i modi tradizionali, oggettivi, del realismo, che ne colgono solo lo strato superficiale, ma riprodurne la complessità, la molteplicità, le manifestazioni aggrovigliate come un gomitolo. Lo stile di Gadda nasce da questo intento “realista” che si manifesta in primo luogo nella lingua: per fedeltà ai caratteri della realtà, Gadda sceglie i più diversi registri linguistici e stilistici, ricorrendo alla mescolanza di termini letterari e forme popolari, alla deformazione e all’invenzione di parole, alla contaminazione di lingue antiche e moderne, compresi i dialetti. Il risultato di tale operazione fondata sulla manipolazione di materiale eterogenei è definito dalla critica pastiche, ed è una delle manifestazioni più significative dell’espressionismo letterario, non solo italiano.

Nella lettura di Gadda non ci si può tuttavia fermare solamente agli aspetti linguistici: il suo gusto per la polemica, la beffa, i sui toni aspri e irritati non segnalano semplicemente uno stato d’animo individuale, ma si legano a una situazione storica. Gadda, educato ai valori tradizionali della borghesia milanese, è insofferente nei confronti che hanno portato alla decadenza tali valori, trasformandoli in apparenze esteriori e superficiali. Nasce dunque da questa insofferenza la critica del grande scrittore nei confronti di Mussolini e dei fascisti, cui aveva dato inizialmente una spontanea adesione, ma che, con la loro grossolanità sociale e culturale, hanno contribuito alla caduta dei grandi ideali ottocenteschi e dei valori borghesi ad essi legati: il lavoro, la riservatezza, l’onestà. Dalla reazione, spesso violenta e umorale, contro il degrado della civiltà nascono pagine di aspra satira e forte vena morale, che permettono di affiancare Gadda a scrittori lombardi come Giuseppe Parini e Carlo Porta.

Nel definire la propria poetica infatti Gadda si richiama a Manzoni che costituisce un modello molto lontano da quelli in auge durante il ventennio, sia presso gli scrittori della <<Ronda>>, che privilegiavano Leopardi prosatore, sia presso quelli realisti, il cui punto di riferimento era Verga. Per Gadda, invece, è Manzoni a cui guardare, in quanto l’autore dei Promessi Sposi, scelse di “esprimere le cose vere delle anime con le vere parole che la stirpe mescolata e bizzarra usa nei suoi sogni, nei sorrisi e dolori”. Prosegue Gadda:

Il mondo bisogna pur guardarlo, per poterlo rappresentare: e in questo modo guardandolo avviene di rilevare che esso, in certa misura, ha già rappresentato se medesimo: e già il soldato, prima del poeta, ha parlato della battaglia, e il marinaio del mare. e del suo parto la puerpera. E questo arfasatti (persone di poco conto), vivendo lor vita, le danno pur luce e colore: quel colore che è cosa povera davanti l’eternità. ma tanto cara ai nostri occhi di poveri diavoli: quello di cui forse non ha bisogno il filosofo ma certamente il poeta.

In una lettera all’amico Bonaventura Tecchi, Gadda confessa che “a fare il letterato puro io non ci riesco. Io sono del parere di accogliere anche l’espressione impura (ma non meno vivida) della marmaglia, dei tecnici, dei ragionieri, dei notai, dei redattori di réclames, dei compilatori di bollettini di borsa, ecc…dei militari oltre che quello che il cervello suggerisce bizzarramente per le sue nascoste vie. Altrimenti che cosa se ne fa di tutta la vita?”.

Queste parole dimostrano ancora una volta come Gadda voglia cogliere la vita fino in fondo, ponendo di conseguenza la sua attenzione all’uomo “concreto” e al suo posto nel mondo, alle sue vicende quotidiane in tutti i loro aspetti, comportamentali, psicologici, linguistici.

 

‘Il male oscuro’, la psicoanalisi secondo Giuseppe Berto

Il male oscuro è un romanzo del 1964 edito da Rizzoli, dello scrittore trevigiano Giuseppe Berto, tornato al successo dopo un periodo non felice, affetto egli stesso dal male oscuro. Lo scrittore, che non ha mai fatto parte dell’establishment culturale italiana, dell’intellighentia che contava, isolandosi e iscrivendosi al partito dei perdenti, non semplicemente a quello dei “bastian contrari”, opera un’analisi del proprio vissuto attraverso un uso insistito del flusso di coscienza, senza ricorrere a interposizioni narrative. Egli rivela così i diversi avvenimenti della sua infanzia, specialmente il suo rapporto difficile con il padre che lo spinge verso la depressione in seguito alla morte del genitore (simbolo del super-io oppressivo), ed in seguito il suo complesso di Edipo, dunque l’ambigua e latente conflittualità sessuale nonché lo smodato desiderio di gloria, a sua volta all’origine di forti sensi di colpa. La trama segue la descrizione e l’evoluzione della malattia (che dura complessivamente un decennio), il matrimonio e la nascita della figlia Augusta, in un continuo alternarsi di flashback. La costante ricerca di medici più o meno esperti, spinge il protagonista a rivolgersi a uno psicoanalista che risolverà in parte i suoi problemi, fino al tradimento della moglie e al ritiro dell’autore in Calabria. La prosa del romanzo è volutamente povera di punteggiatura, al fine di rendere lo scritto un ininterrotto flusso di coscienza, riproducendo l’instabilità interiore del tempo codificato e l’idea di quel che l’autore avrebbe potuto dire, in sede di analisi, proprio al suo psicanalista. Berto dissolve la struttura narrativa e fa del suo libro una novità assoluta nel panorama letterario italiano novecentesco.

Il male oscuro, che si è aggiudicato il Premio Campiello e il Premio Viareggio, è un’ininterrotta confessione, e lo stile segue il percorso del pensiero. A differenza di altri autori, Berto non va alla ricerca di una cifra formale e linguistica, ma egli approfondisce l’indagine per riprodurre in maniera più efficace i collegamenti del pensiero. Il risultato è simile a quello di un monologo teatrale, che inevitabilmente richiama alla mente il flusso di coscienza di James Joyce.

Il male oscuro: capolavoro sull’ipocondria sulla scia della Coscienza di Zeno

Il male oscuro di cui parla Berto è storico e cosmico, unito ad un profondo senso di colpa che deriva dall’incapacità di perdonarsi delitti che in realtà non si sono mai commessi. L’opera di Berto è un capolavoro sull’ipocondria, che racconta con ironia grottesca, l’assurdità del vivere quotidiano, le meschinità che spesso tengono in piedi rapporti familiari e relazioni. Berto mette a nudo il concetto di padre, addentrandosi in un’analisi tormentata di tutti i valori di quella civiltà, di quell’Italia post-rurale in cui l’autore nacque e crebbe; tuttavia lo scrittore dimostra di nutrire pietà e compassione verso le tradizioni e la morale cattolica, cui da giovane aveva tentato di sottrarsi. Grazie al suo innato piglio scorrevole e “confidenziale”, Berto ha saputo rendere il suo romanzo leggero e divertente, nonostante l’argomento trattato, quello della nevrosi depressiva, presente anche in altri grandi romanzi del ‘900, come nella Coscienza di Zeno (di cui Il male oscuro potrebbe essere considerato non a torto come la sua naturale prosecuzione, basti pensare all’esposizione ironica delle teorie freudiane) di Svevo e nella Cognizione del dolore di Gadda.

Berto inoltre, nel suo vorticoso inseguimento di pensieri, non risparmia frecciatine satiriche alla classe borghese del boom economico del dopoguerra, giocando con il lettore in maniera spregiudicata; sembra quasi dirgli: “Ma davvero credi a tutto quello che sto dicendo?”. Ne emerge un Giuseppe Berto sincero, sorprendentemente moderno se si considera il suo essere conservatore per natura, ossessionato dal successo, un po’ cialtrone, sofferente che può far pensare a qualche lettore che in fondo Il male oscuro non è altro che un testo di una banale e comune lagnanza pre-senile. Tuttavia il romanzo di Berto ci comunica implicitamente qualcosa di più profondo: la sofferenza è di tutti e la vita è un posto pieno di dissimulatori, commedianti umani che recitano una parte, che nascondono delusioni e disperazioni dietro grandi sorrisi. Forse, per chi ha una visione mistica della sofferenza, il male oscuro, qualunque esso sia, purifica l’anima e ci rende più sensibili e vicini alle sofferenze altrui. O forse, in fin dei conti, ciò che chiamiamo malattia, disturbo, non è un modo di essere diversi, “normali”, “sani”, ma non comuni e dunque la psicoanalisi non è garanzia di guarigione? Da cosa si deve guarire? E qual è allora il rimedio alla nevrosi proposta da Berto? Un processo di “transfert” con il quale lo scrittore trasferisce ogni suo rimorso nel rapporto con il suo analista. Le sue colpe si dissolvono e l’identificazione patologica con il padre morto di tumore si risolve nella seguente constatazione: “In quale enorme misura somigli al padre mio lo vado scoprendo per mezzo di questa figlia Augusta a mano a mano che cresce, e sta a vedere che lui mi amava come io amo lei ossia immensamente potrei dire”.

Tuttavia come Svevo, per il quale tutti sono malati, essendo la vita stessa una malattia, anche Berto non considera la psicoanalisi una terapia curativa, bensì un valido sistema che consente di attivare un particolare tipo di conoscenza dell’animo umano. Non a caso, infatti, prima della psicoanalisi, Berto descrive la nevrosi che lo attanaglia come una malattia basata sulla paura, ma dopo i due anni trascorsi in cura dall’analista confessa: “Ho un sacco di fobie, sono quindi ancora malato e credo che non guarirò mai. Però sono guarito per quel tanto che volevo disperatamente guarire, ossia non ho più paura di scrivere”.

Il personaggio di Berto non è certamente un esempio di simpatia, anzi, suscita piuttosto fastidio, soprattutto perché il suo intento non è quello di suscitare pietà nel lettore, ma non si può augurargli del male, perché è sincero. Lo stesso scrittore nell’Appendice al romanzo ha dichiarato: “Nonostante racconti la più straordinaria sequela di disgrazie che possano capitare a un uomo, Il male oscuro non è, spero, un romanzo deprimente e neppure noioso. Ha, spero, un continuo umorismo che si mescola anche agli avvenimenti più tragici e tristi. Non è certo un’invenzione mia: Svevo e Gadda ci sono arrivati assai prima e meglio di me, e d’altronde un nevrotico non potrebbe scrivere se non fosse sostenuto dall’umorismo: una fortuna in mezzo a tanti malanni”.

Dante Isella e la filologia d’autore

Il critico letterario e filologo Dante Isella nasce a Varese l’11 novembre 1922, da una famiglia della nascente borghesia imprenditoriale, impegnata attività nei primi tempi circoscritta e pionieristica poi, dal dopoguerra, accresciuta nelle dimensioni e nel volume degli affari. Compie gli studi superiori presso il liceo ginnasio Cairoli di Varese e iscrivendosi successivamente alla facoltà di lettere di Milano. Ben presto la guerra lo conduce lontano: va in Svizzera e poi a Friburgo. Qui incontra Gianfranco Contini, il suo unico riconosciuto maestro, che gli lascerà il ricordo di un’esperienza esplosiva e fondamentale. A Friburgo incontra anche gli amici che furono poi i compagni di tutta una vita: Giorgio Orelli, Luciano Erba, Romano Broggini, Adriano Soldini e Giansiro Ferrata; durante l’anno passato in Svizzera lavora alla tesi di laurea su la lingua e lo stile di Carlo Dossi.

Il lavoro di Dante Isella sul poeta dialettale Carlo Porta non è circoscritto alle sole splendide edizioni: la valutazione letteraria del dialetto milanese rimane forse l’acquisizione più importante di questa stagione di studi. Il dialetto portiano non ha nulla di ‘naturale’, non è mimetico della realtà ma la interpreta: esistono vari livelli al suo interno, sovrapposizioni fra lingua e dialetto, fra latino e dialetto, fra francese e dialetto. È un vero e proprio universo stilistico che il critico definisce pastiche portiano.
Isella approda alla carriera universitaria con un incarico al magistero di Parma; nel 1966 inizia a insegnare a Catania come ordinario e nel 1967 è alla facoltà di lettere e filosofia di Pavia. Nel 1972 assunme un incarico presso il Politecnico federale di Zurigo. È accademico della Crusca dal 1988 e dei Lincei dal 1997. Nel 1962 coadiuvato da Niccolò Gallo, Geno Pampaloni e Vittorio Sereni fonda Questo e altro. Dirige inoltre, sin dagli esordi, assieme a Maria Corti, d’Arco Silvio Avalle e Cesare Segre, la rivista Strumenti critici. Nel 2001 fonda I quaderni dell’Ingegnere. Testi e studi gaddiani. Ha diretto anche i Classici italiani di Mondadori dal 1961 al 1993 e, dal 1978, la collana di Testi e strumenti di filologia italiana della Fondazione Mondadori; con Giorgio Manganelli dà vita, nel 1987, presso la casa editrice Guanda, alla collana di classici della Fondazione Pietro Bembo.

Gli interessi culturali di Isella sono molteplici: filologo testuale, prima di tutto, sulle orme di Contini. Ma anche storico della lingua, commentatore raffinato di classici e storico della letteratura. Le linee di ricerca fondamentali nella sua attività possono essere individuate nella particolare attenzione ai processi variantistici, all’interno di ricostruzioni filologiche di tipo stemmatico; un interesse definito e metodologicamente strutturato che arriva a costituirsi in una disciplina autonoma, quella filologia d’autore di cui Isella è stato riconosciuto maestro. L’altro polo centrale dei suoi studi fu la cultura lombarda, la letteratura in italiano e in dialetto nel senso di ‘lombardità’ in accezione più ampia di quella geografica, come valore culturale e soprattutto etico. I nomi che si possono ricordare, oltre a Manzoni e Parini sono quelli di Carlo Dossi, Carlo Emilio Gadda e Vittorio Sereni e in più un milanese d’adozione come Eugenio Montale.

Alla ‘linea lombarda’ dedica i tre fondamentali volumi di storiografia letteraria, pubblicati presso Einaudi I lombardi in rivolta: da Carlo Maria Maggi a Carlo Emilio Gadda (Torino 1984), L’idillio di Meulan: da Manzoni a Sereni e Lombardia stravagante: testi e studi dal Quattrocento al Seicento tra lettere e arti. Carlo Maria Maggi.

Fondamentale anche la tensione etica che Dante Isella individua nei testi di Maggi anche qui il dialetto rappresenta l’espressione autentica di un mondo di profonda moralità. La “lombardità” non è veicolata solo dal dialetto e Isella si dedica anche a scrittori in italiano. Parini e Manzoni fino al Novecento. Nomi grandi ma anche autori minori, funzionali all’individuazione di una linea culturale alternativa a quella dominante “fiorentino centrica” della nostra letteratura. I caposaldi della filologia di Isella su testi lombardi in italiano sono indubbiamente i lavori su Parini su Manzoni e su Gadda.

Lo studio gaddiano soprattutto sugli inediti segna un vero punto di svolta; le dinamiche testuali hanno consentito a Isella di elaborare un modello di apparato mai sperimentato: allo sviluppo del testo narrativo si intrecciano di continuo, sulle stesse pagine, riflessioni di carattere strutturale. Un critico che non abbandona mai la sua ricerca.
Nel 2007 in occasione del conferimento del Premio alla carriera Dante Isella ci tiene a sottolineare che la filologia è un’attività che sarà sempre necessaria pur restando sempre nell’ombra. E così come la filologia lavora restando nell’ombra, sceglie lo stesso per sé quando dice: «Fa anche parte del mio gusto non scrivere più nulla che porti alla disperazione di gente frettolosa. La filologia è lesinare tempo, divenire silenzioso, divenire lento. Non si raggiunge nulla se non lo si raggiunge lentamente. Leggere bene è leggere lentamente, in profondità, lasciando porte aperte, con dita e occhi delicati».

Di Michela Iovino.

Exit mobile version