Il 7 ottobre 2024 ricorre il primo anniversario dell’attacco terroristico di Hamas a Israele, ma per alcune grottesche compagini italiane che si preparano a manifestare, è una data storica che celebra la resistenza palestinese nei confronti dello Stato di Israele, considerato terrorista dai maître à penser che manifestano una sinistra passione per i terroristi islamici. Perché? Da dove nasce tutta questa solidarietà e eccitazione per la cosiddetta “resistenza palestinese” e per coloro che vogliono distruggere Israele?
Le rivoluzioni, come scriveva Dahrendorf sono momenti malinconici della storia, avventure individuali e collettive, nelle quali la speranza viene quasi sempre tradita, lasciando al suo posto una violenta delusione. La rivoluzione che credono di celebrare i pro-Palestina, è evidentemente, quel punto di svolta epocale, quel mutamento tanto vagheggiato, capace di inaugurare, attraverso un passaggio “critico”, mediante la violenza, la guerra, il terrore, un’altra società, regno di autentica giustizia.
Secondo gli ipocriti odiatori occidentali che vivono in Occidente e alla maniera occidentale, gli integralisti islamici e chi ha massacrato uomini. donne e bambini il 7 ottobre 2023, sono portatori di valori di giustizia ed uguaglianza. Coloro che impiccano omosessuali in quanto tali e incarcerano e assassinano donne che non indossano correttamente il velo. Come lo si può spiegare?
Nel modo attuale di autorappresentarsi, troviamo tanti relitti affioranti della narrazione ideologica intorno alla rivoluzione sorta in Occidente. Forse anche per questo attecchisce fra giovani cresciuti in Europa: jihad, insomma, fa rima con rivoluzione, non a caso nel “Manuale dello stato islamico”, una delle tante pubblicazioni web di Daesh si legge, “lo stato islamico è la vera rivoluzione, grazie a Corano e Sunnah”. Senza contare che nell’immaginario di sinistra gli arabi sono vittime a prescindere, non bianchi, poveri, sfruttati.
D’altro canto, come ha giustamente notato il prof. Luigi Caramiello ne “L’Islam tra noi che genera nuovi mostri”, se si presta un po’ di attenzione al discettare di tanti intellettuali intorno al tema, si fa presto a scoprire quanto siano ancora folte le schiere di coloro che subiscono tutt’oggi il fascino del vecchio mitologema della rivoluzione, il quale, periodicamente, si ripresenta sotto i nostri occhi, anche se in forma variamente trasfigurata. Non sono tanto le “masse” a subire la seduzione di tale messaggio, esso infatti trova simpatia soprattutto fra le élites politiche e culturali, professori sessantottini (altra rivoluzione il ’68!), neo femministe e trans-femministe, donne del movimento “Non una di meno” (tranne se israeliana, viene da dire), che hanno manifestato contro il genocidio (termine peraltro scorretto) perpetrato da Israele a Gaza, in barba al divieto del questore che sapeva bene che nella tanto strombazzata protesta, si è inneggiato al 7 ottobre, e all’antisemitismo.
Gli occidentali pro-Palestina con il (finto) complesso di colpa, trincerandosi dietro la Costituzione dimenticano di citare il seguente passaggio: <<E’ vietata ogni organizzazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali, o religiosi>>.
E’ doveroso ricordare ai pseudorivoluzionari che ciò che insegnano tante diverse esperienze storiche – dalla rivoluzione francese del 1889 a quella bolscevica del 1919, per giungere a taluni inquietanti esiti della cosiddetta “Primavera araba” -, è proprio il fatto che ogni qualvolta, sotto il pretesto rivoluzionario di un vago concetto di giustizia, l’autorità dello Stato si estende all’insieme della società e tende a non riconoscere più alcuna altra sfera, alcun’altra dimensione individuale; il risultato è semplicemente un orrore, che sulla ha a che vedere con l’evoluzione della società.
Luoghi, visi, persone, strumenti tecnologici che fanno da tramite tra una realtà e il proprio sguardo, le proprie idee, i propri pensieri. In questo microcosmo si muove il fotografo e film-maker milanese Matteo Delbò che ha girato per il mondo munito di mezzi tecnologici e di onestà intellettuale. Il principio di realtà è alla base del suo lavoro che consiste nel fotografare e nel riprendere situazioni particolari o ordinarie che se guardate da un certo punto di vista diventano straordinarie.
Dopo il diploma alla Scuola Nazionale di Cinema, Matteo ha vinto il Premio David di Donatello per il miglior cortometraggio.Ha trasmesso in diretta per il sito del primo quotidiano italiano “Il Corriere della Sera” e per MTV NEWS a seguito di emergenze naturali, manifestazioni e rivolte durante le “primavere arabe”.Per l’agenzia H24 ha filmato 20 reportage di lungometraggi, vincendo alcuni dei più prestigiosi premi italiani: “Napoli, vita, morte e miracoli” Premio Flaiano per il miglior reportage italiano nel 2007, “Stato di paura” Premio Ilaria Alpi per il miglior lungo italianodocumentario nel 2007, Premio Flaiano “Catia’s choice” per il miglior reportage italiano 2015.Per Al Jazeera English ha girato documentari per il programma Witness end Compass e ha lavorato per Sky news da Mosul, in Iraq.Attualmente lavora per il programma RAI “Report”.
La passione per la cultura visuale unita alla dedizione e al talento innato, ha reso possibile a Matteo anche la vittoria del World press photo 2019 nella categoria digital store per il cortometraggio “Ghadeer” dove si respira polvere e caldo asfissiante.
Si parlava di fedeltà al principio di realtà, davanti al quale tutti si sono inginocchiati: scettici, atei, razionalistici, cristiani, ma viene da chiedersi soprattutto guardando i lavori di Matteo: non è che soffriamo di troppa realtà, pensando che la realtà sia, semplicemente, ciò a cui ci addestra l’illusione ottica, e questa realtà entra dalla finestra, soffocandoci come il caldo di Mosul? Questo difetto nello sguardo ci censura all’ovvio, all’epoca in cui l’arte del guardare, del filmare può anche essere dileggio del vero.
L’attività di Matteo Delbò, costruita soprattutto sulla relazione e la condivisione, ci induce a profonde riflessioni, prima fra tutte quella relativa all’adozione del criterio dell’esperienza come sola fonte delle evidenze umane, per dirla alla Fondane, sul valore che si attribuisce oggi alla metafisica e sull’importanza di scotennare i fondamenti del vivere civile.
Varsavia
Qual è la parte del suo lavoro che le piace di più e quale invece le costa maggiore fatica?
Per quanto riguarda la parte che mi piace di più, sicuramente è la la fase di costruzione della storia attraverso la relazione con i personaggi, quindi fondamentalmente quando si riprende e si realizzano film documentari che poi vedi insieme a qualcuno; è un esperienza meravigliosa di condivisione, di relazione di impegno tecnico, nonché di ingresso nella vita delle persone che spesso costituisce una condivisione inimmaginabile in qualunque altro modo, per esempio se si trattasse di una vacanza. Mi spiego meglio: a Gaza vivevamo insieme alle persone che riprendevamo e questo corrisponde anche una modalità di approccio al lavoro che non tutti hanno ma che per me e per le persone con cui collaboro, quelle vicino al cuore rappresenta un modo di lavorare fondamentale per la riuscita di un docu-film di qualità.
Per quanto riguarda invece la parte faticosa, direi che riguarda il montaggio, tutta la parte di produzione e quindi una volta che ci si è separati e distaccati da quell esperienza relazionale, nasce un altro tipo di relazione che è quella con il materiale, la quale è molto più mediata, intellettuale ed emotivamente meno diretta. Tuttavia questa parte, benché mi piaccia meno, richiede altre doti quali la pazienza, la capacità organizzativa e una certa disciplina ed io sono più disciplinato più disciplinato nella relazione, nel contatto diretto, molto meno quando c’è una distanza.
Black horse in Gaza
Quando si è appassionato alla fotografia, la trova una forma d’arte o di artigianato?
Mi sono appassionato alla fotografia e nello specifico, forse sarebbe meglio dire alla documentazione da cui poi è nato il rapporto con la fotografia e successivamente con il film making, come attività e come lavoro, facendo il primo reportage “privato”, scattando foto alla mia personale situazione familiare, e fotografando una guerra familiare. Poi sono andato in Jugoslavia durante la guerra e li ho intrapreso seriamente questa passione come lavoro, che mi ha permesso di entrare al centro sperimentale per poi di proseguire la carriera.
Poi la fotografia, la documentazione e il film-making per me sono attività principalmente di artigianato, sebbene ci sia un fortissimo aspetto creativo e naturalmente ciò ha che con il fatto di raccontare delle storie che portano come risultato finale a una sequenza di scatti, immagini e suoni che producono un senso compiutezza narrativa; per cui quando riprendo la realtà in un certo senso la riformulo ,a il sostrato c’è. Poi soprattutto nei film ci sono tutta una serie di ulteriori passaggi, mediazioni che sono estremamente soggettive e relative alla manipolazione, la quale a sua volta può essere più o meno soggettiva o oggettiva. Tale manipolazione, per quanto mi riguarda è un atto di artigianato creativo in quanto metaforicamente e naturalmente uso le mani e i miei strumenti tecnici per dare una forma compiuta e significativa alla realtà.
Cosa vorrebbe che suscitassero le sue foto in chi le osserva? Una parte di realtà o le importa che si guardi anche al suo “estro artistico”?
No del mio “estro artistico” non mi importa nulla, è un aspetto fuori dal mio orizzonte mentale ed emotivo, mi importa che le fotografie come le immagini comunichino qualcosa più che in informino creando una relazione tra il soggetto e e il fruitore finali, il viewer. Si tratta di una relazione complessa e mediata da me che deve risultare immediata. Certamente in tal senso bisogna avere grandi capacità di artigianato creativo.
Come si fa una buona inchiesta?
Si parte dalle fonti e poi bisogna avere a disposizione tanto tanto tempo e dedizione.
A volte è stato mai toccato dall’ombra del pregiudizio, ovvero è partito con un’idea precisa perché voleva fosse quella e poi è dovuto ricredersi?
Un professionista che cerca di raccontare la realtà non deve mai partire con un pregiudizio, cn un preconcetto, in questo senso, no non mi è mai capitato. Non dobbiamo assoggettare noi la realtà secondo quello che ci piace o conviene di più.
Un fatto, un viso, una situazione che l’hanno colpita di più in Iraq?
Tante cose. Direi che spesso in Italia di parla di cose che non si conoscono. Ciò che mi ha colpito di più in Iraq è il loro sistema politico, il potere militare: è un sistema basato su quote che però non è servito a mitigare le rivalità tra le varie fazioni nell’accaparrarsi il potere, dando così vita a lotte politiche per il controllo di posizioni politicamente ed economicamente fondamentali. Il tutto a discapito del benessere dei cittadini con questa divisione settaria vigente.
Il Male vissuto in prima persona su cosa l’ha fatta interrogare? In che modo ha cambiato prospettiva?
Ho imparato o meglio, ho cercato di mettermi nei panni di chi la pensa diversamente da me, di entrare dentro a una cultura diversa per comprenderla, per avere una visione più completa della realtà anche se forse non sarà mai la totale realtà.
Hannah Arendt diceva che il male non possiede profondità e sfida il pensiero; è d’accordo?
Sì, il male è banale, che poi bisogna capire bene cosa intendiamo per Male. Diciamo che spinge a riflettere, ad assumere un altro punto vista, a scoprire altre realtà che però quando le vedi non sempre il fatto di essere intellegibile è un sollievo, può far soffire ugualmente.
Sogni da realizzare?
Senza dubbio riprendere a viaggiare, a muovermi con più libertà, dopo che sarà finito questo drammatico periodo.