“Slowhand”: la nona vita di Eric Clapton

Dopo una disordinata ma straordinaria carriera spezzettata in brevi ma fondamentali esperienze, Yardbirds, Bluesbrakers, Cream, Blind Faith, Derek And The Dominoes, Delaney & Bonnie e collaborazioni di lusso (The Beatles, Plastic Ono Band, George Harrison), Eric Clapton, forse uno dei più significativi chitarristi del rock, decide di prendere in mano il suo avvenire. Dotato di un talento ed una passione per il blues fuori dal comune, ma anche di un carattere difficile che lo porta ad una continua ma vana ricerca di un assetto stabile, Manolenta nel 1970 pubblica l’omonimo album solista che pur contenendo ottimi spunti non stupisce ed entusiasma più di tanto. Dopo altri tre album (461 Ocean Boulevard, There’s One in Every Crowd, No Reason to Cry) in un crescendo quasi rossiniano, arriva la consacrazione nel 1977 con la pubblicazione di Slowhand. Abilmente sospeso tra brani originali e cover di grande prestigio, quest’album presenta un miscela esplosiva di blues, rock e pop che ottiene il consenso del pubblico e nel contempo dimostra la sua grande maestria a confrontarsi con generi diversi.

“L’unica pianificazione che faccio è circa un minuto prima di suonare. Cerco disperatamente di pensare a qualcosa che potrebbe essere efficace, ma non mi siedo mai a lavorare nota per nota”.

Da sottolineare il grande istinto di Clapton a scegliere brani adatti alle sue corde che lui, grazie ad un talento musicale mostruoso, lancia nelle classifiche e nell’immaginario collettivo. Ne è un esempio lampante Cocaine, in apertura di album, che composta ed incisa in origine da J.J.Cale, nelle sue mani diventa più famosa dell’originale, come accaduto anni addietro per I Shoot The Sheriff di Marley.

Eric Clapton e Pattie Boyd

La buona vena compositiva si conferma nel gioiello pop Wonderful Tonight, sognante ballatona dedicata alla moglie Pattie Boyd, il cui riff è tutt’ora un esercizio fondamentale per ogni aspirante chitarrista e nello pseudo-country di Lay Down Sally, perfetta canzone da viaggio, dominata da un poderoso arpeggio “in staccato”. Il reaggae (di moda in quel periodo) ed il blues si fondono come per miracolo in Next Time You See Her, che pur avendo un tono calmo e rilassato, nel testo risulta carica di minacce per un avversario in amore. Il riverbero e le voci soffiate caratterizzano We’re All The Way, dolente canzone d’amore cantata in duetto con Yvonne Hellman, come pure l’energica The Core, disegnata da un potente distorsore e dall’alternanza tra timbro maschile e femminile. Il country rock alla Eagles, di stampo tipicamente californiano, emerge in May You Never  a cui mancano solo i cori di Don Felder e Glenn Frey per essere un singolo spacca classifiche. Per una i lancinanti assolo di Manolenta sono lasciati da parte per far posto alla morbidezza della chitarra acustica e alla dolcezza dell’organo. Le cose cambiano quando si passa al puro blues di Mean Old Frisco storico pezzo di Arthur Crudup in cui a farla da padrone è, ovviamente, la slide guitar. La strumentale Peaches And Diesel chiude l’album con garbo ed ironia dal momento che in esso è contenuta un autocitazione di Wonderful Tonight. Grazie a questa scaletta “mista” ed esaltante, Slowhand si arrampica in cima alle classifiche e riceve ottime recensioni da parte dei critici di mezzo mondo. E’ un album di gran classe, perfettamente arrangiato ed inciso, il cui unico difetto, se proprio se ne vuole trovare uno, è l’eccessiva “commercialità”. E’ talmente perfetto da sembrare studiato apposta per vendere copie e far soldi. In ogni caso Clapton dimostra di aver trovato un suo equilibrio e di essere un musicista a tutto tondo, non solo un bluesman. Il suono della sua Strato è meraviglioso, in grado di passare con la stessa efficacia dal “pulito” più languido al “distorto” più rude. Anche la voce si adatta meravigliosamente alla qualità dei brani passando dai toni morbidi dell’amore ai graffianti registri del blues. Lo specchio dell’anima di Eric Clapton, del carattere erratico e apolide di Manolenta. Forse il suo miglior album, senza dubbio un album che bisogna avere ed amare per capire le mille sfaccettature di un artista unico.

“Layla & “Other Assorted Love Songs”: il disperato blues dei Derek & The Dominos

Layla & Other Assorted Love Songs-Polydor-1970

Nel 1970 Eric Clapton, stanco della fama e dell’aura leggendaria creatasi intorno alla sua figura dopo le trionfali esperienze con Yardbirds, Cream e Blind Faith, decide di formare un gruppo nel quale poter essere solamente un semplice musicista. Sulla falsariga dell’esperienza già fatta precedentemente da altri gruppi, uno su tutti i Beatles che “per guardare il mondo con altri occhi” ed allentare la pressione diedero vita all’immortale alter ego Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, adotta lo pseudonimo di Derek (soprannome nato dalla crasi tra Del, suo vecchio nickname, ed Eric) e con altri tre colleghi, Carl Radle al basso, Bobby Withlock alle tastiere, Jim Gordon alla batteria, forma il gruppo dei Derek & The Dominos. Abbandona il suono grosso e gonfio della Gibson, con cui aveva “sporcato” il blues infarcendolo di psichedelia e si converte alla Fender Stratocaster con cui medita un drastico ritorno alle origini. Il momento creativo, d’altronde, è ottimo anche grazie ad una tormentatissima storia d’amore entrata di diritto negli annali del rock. Sul finire degli anni ’60, “Manolenta” stringe una profonda amicizia con George Harrison, che darà vita ad un’assidua frequentazione ed a collaborazioni di lusso. In quel periodo l’ex baronetto è sposato con la bellissima modella Pattie Boyd. In breve tempo Eric si accorge di essere perdutamente innamorato della moglie del suo migliore amico e ne fa la sua musa ispiratrice.

Tutti sapevano (in merito all’infatuazione di Clapton per Pattie Boyd) che George non ha dato niente, ma Eric questo non lo sapeva” – Bobby Withlock 1970

Layla & Other Assorted Love Songs riflette questo tormento. Gronda di desiderio e passione per Pattie ma nel contempo trasuda rabbia e dolore per la delicatissima situazione che si è creata con George. A dare una forma precisa a questo vortice di sentimenti contrastanti è, ancora una volta, il blues, che con la sua malleabilità permette di distillare emozioni così diverse in gocce di splendore. A dar manforte al chitarrista innamorato si aggiunge, in qualità di guest star, il principe della slide guitar  Duane Allman.

Eric Clapton e Duane Allman nel 1970

Il feeling immediato, la stima reciproca ed il profondo affetto tra i due signori della sei corde si riflette in epici intrecci chitarristici che vanno ad impreziosire quattordici brani di strepitosa bellezza ed incredibile intensità. Le delicate I Looked Away, Bell Bottom Blues, I’m Yours le rabbiose Keep On Growing, Nobody Knows When You’re Down And Out, Anyday, le potenti Tell The Truth, Key To The Highway, Why Does Love Got To Be So Sad, Have You Ever Loved A Woman, la liquida Little Wing (inserita come tributo ad Hendrix morto durante le registrazioni), il riff fulminante di Layla, lo struggimento di It’s Too Late e Thorn Tree In The Garden, contengono tutte un messaggio d’amore che difficilmente può essere equivocato. La voce si fa rauca ed a tratti disperata, le parole colpiscono per la carica di pathos che contengono. Dal punto di vista tecnico l’album è semplicemente strabiliante. Le chitarre si saturano, si distorcono, s’intrecciano quasi a voler seguire lo strazio dell’autore.

La sessione ritmica batte incessantemente il tempo per dare ancora più forza alle parole. L’organo ululante e tastiere martellanti forniscono il necessario accompagnamento alle visioni chitarristiche della premiata ditta Clapton & Allman. Uscito in un periodo ancora dominato dai sentori della controcultura hippie, quest’album all’inizio non viene capito ed apprezzato ma non appena i fumi lisergici della psichedelia si dissolvono, trova finalmente la sua giusta collocazione tra le pietre miliari del rock. E’ tutt’ora uno dei migliori esempi di blues bianco ed elettrico mai incisi. I suoni e le partiture in esso contenuti vengono presi a modello da decine di gruppi più o meno famosi. Nonostante la vita con le sue bellezze e le sue tragedie (Clapton sposerà la Boyd nel 1974, Duane Allman morirà tragicamente nel 1971) abbia edulcorato il clima mitico della sua gestazione ed incisione, le tematiche universali in esso contenute sono in grado di colpire ed accomunare ogni essere umano che non può non immedesimarsi di fronte ad un amore contrastato o alla fine di una bella amicizia.

“All Things Must Pass”: Il volo di G. Harrison

Non deve essere stato facile essere un Beatle e soprattutto il “terzo” Beatle. Schiacciato dalle imponenti personalità dei colleghi John Lennon e Paul McCartney, George Harrison ha faticato non poco prima di trovare una propria dimensione artistica. Relegato per anni al semplice ruolo di chitarrista e costantemente sottovalutato dal punto di vista artistico, dal 1965 in poi, Harrison è stato protagonista di una crescita musicale continua che lo ha portato a diventare, forse, il miglior compositore dei Fab Four durante la loro tormentata fase finale. Il suo talento si manifesta in Revolver, in cui firma la caustica Taxman, matura in Sgt. Pepper, sua l’orientaleggiante Within You Without You, si rafforza nel White Album, cui fornisce le meravigliose While My Guitar Gently Weeps, Piggies, Long Long Long ed esplode in Abbey Road a cui regala i capolavori assoluti Something e  Here Comes The Sun. Una lenta maturazione, dunque, un cammino interiore che gli ha permesso di trovare uno stile ed una poetica, molto in linea col suo carattere meditabondo e misticheggiante. Ma di benzina nel serbatoio, Harrison ne aveva ancora parecchia nel 1970, senza contare le numerosissime canzoni scartate in fase di registrazione dagli ex compagni e quindi non incluse nel canone beatlesiano.

 «A volte era frustrante dover far passare milioni di “Maxwell’s Silver Hammer” prima di usarne una delle mie; a pensarci adesso, ce n’erano un paio, delle mie, che erano migliori di quelle che John e Paul scrivevano con la mano sinistra. Ma le cose andavano così, sapete, e non mi dispiace particolarmente: ho solo dovuto aspettare un po’» (George Harrison)

Una volta finita l’esperienza con i Beatles, George decide di rompere gli indugi e di pubblicare tutti quei brani che erano rimasti nell’ombra per tanto, troppo, tempo. Il risultato è un monumentale triplo album intitolato, guarda caso, All Things Must Pass, pieno di ispirazione, splendore e redenzione. Pubblicato nel novembre del 1970, quest’album, a differenza dei progetti solisti degli ex compagni, riscuote immediatamente un clamoroso successo sia di pubblico che di critica, rappresentando la definitiva affermazione dell’autore come musicista eccellente e compositore raffinato. Il materiale in esso contenuto è di altissima qualità. Si va da I’d Have You Anytime (scritta a quattro mani con Bob Dylan) a l’arcinota My Sweet Lord, dalla tiratissima Wha-Wha alla sognante Isn’t It A Pity, fino a What Is Life, It’s Not For You, Apple Scruffs, Beware Of Darkness, All Thing Must Pass, tutte tessere che vanno a comporre il caleidoscopico mosaico musicale del “chitarrista gentile”. Le liriche trasudano amore universale, suggestioni religiose e serenità interiore a differenza dei tormentati versi lennoniani o delle semplici rime di stampo mccartneyano.

 All things must pass è il disco del definitivo affrancamento di Harrison dall’ombra dei Beatles e del superamento del trauma dovuto alla tormentata separazione. Il tutto non senza polemiche, ovviamente. Nella copertina Goerge è seduto in un prato in mezzo a quattro nani da giardino. Le interpretazioni negli anni sono state molteplici, ma aldilà dei dibattiti dovuti ai presunti messaggi cifrati presenti nella cover (McCartney ha fatto la stessa cosa in Ram e Lennon in Imagine), l’opera in questione è di innegabile bellezza. La spiritualità tipica dell’autore si riflette in suoni pacati ed in cantato soffice e rilassante; c’è anche spazio per del rock sanguigno senza sconfinare mai nel rumore e nella rabbia. L’ispirazione è grande (anche se tende un po’ a scemare nella jam session che occupa tutto il terzo LP) anche nei brani risalenti al 1966 o al 1969, a riprova che Harrison era già un ottimo compositore ai tempi della beatlemania. Ma si sa, nessuno avrebbe mai osato mettere in discussione la diarchia più prolifica del rock in grado di zittire qualsiasi altra voce si avvicinasse nei paraggi. Il buon George ha dovuto fare tutto da solo armandosi di pazienza, tenacia e quintali di autostima fino a trovare la sua personale strada per l’Olimpo. Non deve essere stato ne semplice ne indolore ma alla fine il risultato ripaga in pieno la fatica fatta. Chissà quali altre meraviglie avrebbero fatto i Beatles con George Harrison a pieno regime!

Revolver dei Beatles: Il sacrario del pop

“Revolver”- Parlophone-1966

Da bambino chiesi a mio padre (beatlesiano ortodosso e presente all’epoca dei fatti): “Papà qual è il disco più bello dei Beatles?”

Lui, senza pensarci un momento, rispose: “Revolver”

Io, li per li, non dissi niente.

Ma come Revolver? E Sgt. Pepper allora? Il White Album? Abbey Road?

A più di vent’anni da quella domanda e dopo innumerevoli ascolti dell’intera produzione beatlesiana, posso dire che aveva ragione. Il disco più bello dei Beatles è Revolver. Meno unitario del precedente Rubber Soul ma più caleidoscopico e sperimentale, quest’album rappresenta il momento esatto in cui i Fab Four prendono la volgare canzonetta e la innalzano ad opera d’arte.

Nel 1965 al gruppo accadono due cose fondamentali: cessano di esibirsi dal vivo ed esplorano tutte potenzialità che offre lo studio di registrazione. Ormai lontani dall’isteria dei fans e dallo stress delle tournèe, i Beatles si chiudono negli studi EMI di Londra e danno sfogo a tutta la loro creatività: il classicismo di Paul McCartney, il misticismo di George Harrison, la psichedelia di John Lennon, l’ironia di Ringo Starr si amalgamano in un coacervo incredibile di stili, tendenze e musicalità diverse. Il risultato è sorprendente.

«Dal giorno in cui uscì, Revolver cambiò per tutti il modo in cui si facevano i dischi. Nessuno aveva mai udito niente di simile.» (Geoff Emerick-tecnico del suono)

 

The Bealtles-1965

L’arguta critica sociale di Taxman, la dolente bellezza di Eleanor Rigby, gli umori acidi di She Said She Said, l’allegria di Yellow Submarine, la sperimentazione pura di Tomorrow Never Knows, elevano Revolver al rango di capolavoro assoluto e manifesto di un’intera generazione. Perfino la copertina (straordinario collage creato dall’amico di vecchia data Klaus Voorman) cessa di essere una mera fotografia per diventare parte integrante del disco. Arte visiva e musicale, oriente ed occidente, pop e musica colta, amore e filosofia, i Beatles alzano il tiro, spingendo “oltre” la loro ambizione e la loro consapevolezza. Ormai fanno terribilmente sul serio. Si sbarazzano dello spettro di Bob Dylan (che aveva caratterizzato gli album precedenti) e dell’etichetta di “phenomenal pop combo” per raggiungere lo status di guru della musica moderna.

Aiutati anche da un crescente consumo di LSD e da possibilità economiche pressoché illimitate, i Favolosi Quattro recepiscono ogni sentore di mutamento, ogni minima vibrazione socio/musicale, ogni tensione rivoluzionaria e li trasformano in splendide melodie realizzando idee assolutamente inconcepibili fino a quel momento. Riescono nell’impresa di diventare il gruppo più innovativo del mondo e, nello stesso tempo, il più commerciale. Revolver, infatti, raggiunge, nel suo anno di pubblicazione, la vetta delle classifiche sia in Gran Bretagna che negli Stati Uniti ed è, successivamente, inserito ai primi posti in quasi tutte le liste dei migliori album mai pubblicati.

Anche dal punto di vista lirico e poetico quest’album rappresenta un punto di svolta. Sono lontane le semplici parole d’amore di Michelle, She Loves You, Love Me Do e You Won’t See Me. Qui trovano spazio la solitudine e la tristezza, la satira politica e la filastrocca, le droghe ed il “Libro Tibetano Dei Morti”. L’impatto sul mondo musicale è enorme. Un terremoto vero e proprio. Le tecniche di registrazione, i testi criptici ed ermetici, i nastri suonati al contrario, il sitar e la tambla, gli archi e gli ottoni, i rumori di fondo, tutto, ma proprio tutto, viene studiato e ripreso da gruppi contemporanei e successivi (inclusi gli stessi Beatles). Pink Floyd, Who, Byrds ma anche U2 e Chemical Brothers hanno fatto un punto d’onore riprendere e cercare di superare Revolver. Si tratta di un disco rivoluzionario sotto ogni punto di vista. Lontano eppure attualissimo tanto da continuare a lasciare tracce visibilissime a quasi cinquant’anni dalla prima pubblicazione. Dopo Revolver, nulla sarà più come prima. La via era stata indicata ed il solco tracciato. Il mondo era ormai pronto per Sgt. Pepper.

 

 

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