‘Lettera al mio giudice’, il femminicidio raccontato da Georges Simenon

Opera del 1947 dalla scrittura sobria, atmosfere parigine come quelle di film quale “Il porto delle nebbie” di Marcel Carné, pellicola del 1938, Lettera al mio giudice di Georges Simenon è un libro dalla narrazione sempre tesa, anche perché, dopo l’introduzione, è il protagonista stesso che racconta via via ciò che vive – azioni, pensieri, sentimenti – un protagonista peraltro singolare nella sua assoluta “normalità” borghese.

Di grandissima attualità, Lettera al mio giudice è uno dei più famosi di Simenon, e racconta quel che oggi è chiamato femminicidio, e un femminicidio messo in atto per una forma malata di amore: da un lato quella dell’uomo che aspira a possedere la totalità della “sua” donna, anima e corpo, passato e presente, fantasie sentimenti pensieri, innanzitutto quelli relativi alla sfera sessuale, a fare di lei un oggetto conforme ai propri desideri, e dall’altro quella della donna che, incapace di difendere la propria integrità psicologica prima ancora che fisica, si sottomette a lui e si sente tanto più amata quanto più la smania di possesso di lui si fa violenta: soffre non sentendomi tutta tutta sua, quindi mi ama davvero. Non casualmente lei è povera, di scarsa cultura e non particolarmente intelligente: inferiore a lui e dunque vulnerabile, insomma.

Quanto a lui, egli ha inconsapevolmente maturato nel tempo un desiderio di rivalsa nei confronti de “la donna”, ossia la madre, alle cui aspettative egli si è adeguato, innanzitutto ascendendo ad un livello culturale e socio-economico superiore a quello delle sue origini, e poi la seconda moglie, Armande, da cui si è sempre sentito diretto tanto da non sentirsi veramente “in famiglia” con lei e le due figlie.

Attraverso le parole di lui seguiamo dunque la progressiva riduzione della libertà di lei e l’estendersi del dominio dell’uomo sulla donna fino all’irrimediabile atto finale. Simenon dà infatti la parola direttamente all’assassino, il dottor Charles Alavoine, notabile in una cittadina di provincia, e ci mostra il percorso tortuoso che la sua mente compie per arrivare ad uccidere la donna amata  – non la moglie poco amata e spesso detestata -,  non per punirla di un qualche tradimento, come per esempio avviene ne “La sonata a Kreutzer” di Tolstoj, ma come gesto estremo d’amore.

Vorrei tanto che un uomo, un uomo solo mi capisse. E desidererei che quell’uomo fosse lei

Qual è l’infingimento, il sofisma, l’alibi cui la sua mente … no, la sua affettività malata ricorre per giustificare la propria furia distruttrice nei confronti della poveretta? “Liberarla” da quelli che chiama i suoi  – suoi di lui –  “fantasmi”, che poi sono la consapevolezza che lei ha già fatto l’amore con altri uomini, uomini raccattati nei bar che ama frequentare (e a proposito di bar, Simenon li ama perdutamente come ama tutti i territori “ai margini” e ha un suo tipico modo di rappresentarli che porta una chiara impronta esistenzialista).

Perché Alavoine scrive una lettera al suo giudice e non per esempio un diario? E perché prima dell’esito del processo? Perché è convinto  – non si sa se a torto o a ragione – , che egli capisca e anzi intuisca le sue ragioni grazie ad una superiore sensibilità rispetto a tutti gli altri, i quali hanno visto nel suo atto l’esito di una gelosia giustificata dai trascorsi della vittima, la quale in passato aveva avuto molteplici relazioni anche prostituendosi, tanto giustificabili  – quella gelosia e perciò l’assassinio –  che la moglie si dichiara persino pronta a riaccogliere il marito se assolto.

Se Alavoine si suicida e  senza nemmeno aspettare il verdetto, che potrebbe anche non essergli sfavorevole, non è solo perché la vita senza Martine non avrebbe senso, non è solo per seguirla nella morte, ma perché la sua eventuale assoluzione o la riduzione della pena, significherebbe avallare l’idea che  ella fosse una donna di poco valore, indegna del suo amore. E questo lui non lo vuole. In un certo senso, è così che l’uomo le dimostra il suo amore.

Non sono pazzo. Sono soltanto un uomo, un uomo come gli altri, ma un uomo che ha amato e sa cos’è l’amore. Vivrò in lei, con lei, per lei, finché mi sarà possibile, e se mi sono imposto questa attesa, se mi sono imposto quella specie di farsa che è stato il processo, è perché lei deve continuare a vivere in un altro, a qualsiasi costo.

 

 

 

La camera azzurra, il romanzo-interrogatorio di Simenon

La camera azzurra (Adelphi, 2003) è un romanzo di Georges Simenon e viene pubblicato per la prima volta nel 1964; esso va collocato nel genere poliziesco per la presenza di un giudice, di un investigatore e di un’atmosfera che ha non poco a che fare con il giallo ma che da esso si diparte in fretta. O, per meglio dire, chi legge quest’opera avrà una sensazione diversa, in cui languore e disgusto sedimentano e stimolano la lettura che non è quello che si prova leggendo un giallo di Agata Christie.

L’autore della Camera azzurra è ormai mitico: si tratta dello scrittore belga Georges Simenon, ideatore delle vicende del celebre commissario Maigret. Simenon è uno scrittore strabordante e ricco di talento, quasi convulso. Il fenomeno Simenon vuole che egli abbia scritto un romanzo nell’arco di una settimana, così come è nota la storia della sua irrefrenabile e mai esausta creatività. Improbabile fornire infatti una bibliografia della sua opera completa: si tratta di uno scrittore che vive per scrivere mai scrive per vivere:

“Sono passato poco a poco da 12 giorni ad 11, a 10, a 9. Ma ecco che per la prima volta sono giunto alla cifra 7, che è diventato come lo stampo definitivo nel quale saranno colati ormai i miei romanzi” (G. Simenon).

Tony Falcone, protagonista del romanzo, vive a Saint-Justin con la sua famiglia, insieme alla moglie Gisèle dalla quale ha avuto una bimba, Marianne. La loro è una vita semplice e genuina, fatta di abitudini, certezze e molti sacrifici. Basata sul reciproco rispetto e su di un amore “razionalmente” controllato, così prosegue la vita dei coniugi, fino ad un momento: quello in cui Andrée entra nella sua vita. Lei alta e fredda così che a Tony  pare una “statua”, una donna senza emozioni che non può dare amore, almeno questo è ciò che Tony crede. Quella donna diventerà l’amante disinibita, cruda ossessione, la sua rovina, pone fine alla calma – che vige nello stagno noioso di un piccolo borghese –  impettita dell’esistenza. Ma la protagonista eccentrica della storia, nucleo dell’intreccio che ritorna a più riprese non è una donna, bensì lei: la camera azzurra. Come fosse animata da un spirito ribelle, accompagna Tony fino alle ultime pagine.

A Tony bambino il colore azzurro sembra un miracolo, come può una polverina cromata di cielo candeggiare  lenzuola e vestiti? Allo stesso modo, si può costruire un parallelo tra questo non cedibile candore, la pulizia che a Tony ricorda l’amore materno, con la relazione con la devota moglie Gisèle? Se non fosse per quell’azzurro mozzafiato della stanza dell’Hotel de Voyageurs, che lo ha tentato inconsciamente, non sarebbe colpevole, no, non lo sarebbe. Strano, è proprio quello che Andrée si lascia scappare durante il proprio interrogatorio al giudice: “Le donne come lei non sono capaci di un vero amore”. Così, secondo Andrée, Giséle Falcone sarebbe un corpo svuotato dell’istinto, una moglie affidabile ma non una donna innamorata. E’ curioso perciò constatare che l’immagine che Tony aveva anteriormente al primo vistoso amplesso con Andrée, mai svelata all’amante, sia la stessa che l’amante di Falcone ha della sua rivale. Inversione di ruoli o gioco di specularità? Una cosa è certa: le donne del libro sono virili nell’animo, pusillanime è invece il ritratto di Falcone. C’è un momento, uno spartiacque nella vicenda, raccontata tramite la serie di interrogatori ai quali viene sottoposto il protagonista, quello dell’invio delle lettere spedite da Andrée. Lì Tony si sveglia, e comincia l’incubo giudiziario. E’ colpevole, lui stesso lo dirà. Ma di cosa? Di non essere stato sincero con se stesso? O c’è dell’altro? Si sovrappone il passato al presente, la bellezza al turpe inferno delle domande.

Simenon mostra in una parola, in un suono o in un dettaglio, nell’indubbia paura che si può scivolare nel baratro e racconta proprio questo: chi sopravvive nell’infelicità è morto da tempo. Solo ad un certo punto del libro l’autore ci concede di capire, ma non tutto. Il  protagonista, insieme alla sua amante Andrée, è artefice di una vicenda torbida e piena di ambiguità. Non sono solo amanti, ma accusati di un ignominioso crimine: entrambi sono stati arrestati con l’accusa di aver commesso l’omicidio dei rispettivi coniugi Nicolas, ex marito, inutile e malato, e la placida Gisèle.

Con La camera azzurra lo scrittore belga è riuscito a tessere una trama autentica che trascina giù con efficacia più del vero: nella quotidianità siamo tutti Tony e abbiamo paura di scegliere. A partire dalle prime righe della prima pagina Simenon non può non colpire il lettore: che sia nel bene piuttosto che nel male, basta poco per capirlo. Quelle parole sono scolpite, affisse come un annuncio di festa che poi si capovolga in un necrologio. La sua nettezza è lampante, plastica la luce come le ombre. Si afferra ogni virgola con gli occhi, come battuta di una piccola inquadratura cinematografica, o l’inizio di una sceneggiatura.

La camera azzurra non solo è un romanzo scritto come se fosse un sogno, senza sbavature o incrinature, è una casa in cui ogni oggetto si muova come animato e, al ritorno del padrone di casa, si riponga autonomamente al posto di assegnazione;  mestoli nella credenza, la frutta sul tavolo, e così via. Ogni emozione in Simenon è al suo posto, questo libro riesce ad aprire il cuore senza chiudere la mente, la spalanca . Chi entra a leggere, non potrà uscire se non cambiato da questa storia di passione e autodistruzione. Il libro stesso risulta costruito come un interrogatorio vero e proprio che scandaglia fino alle viscere oceaniche del nulla, per poi ammettere che la verità non è mai una sola, è solo che un’omissione è più potente di una bugia. E che cos’è, la verità, se non forse solo un’impressione?

 

“L’assassino”: l’arguta psicologia di George Simenon

Georges Joseph Christian Simenon (1903-1989) è autore di numerosi romanzi, noto al grande pubblico come ideatore del personaggio Jules Maigret, commissario di polizia francese. Prolifico scrittore, inizia la sua carriera a poco meno di sedici anni, a Liegi, come giornalista nella sua città natale. Trasferitosi a Parigi negli anni venti, diventa autore di narrativa popolare ottenendo grandi successi. Negli anni ’70 produce un considerevole numero di romanzi (gialli e non), tale da renderlo uno degli autori più letti e tradotti del XX secolo.

“L’assassino” (in originale francese “L’assassin”), è appunto uno dei suoi romanzi, edito nel 1937 da Gallimard e pubblicato in italiano nel 2011 dalla casa editrice Adelphi ,tradotto da Raffaella Fontana.

Hans Kupérus è un medico, ma anche un uomo corpulento, metodico, abitudinario, riservato. Ha da sempre un’ambizione frustrata: quella di diventare presidente dell’unico posto di ritrovo del piccolo paese in cui è cresciuto: il circolo del biliardo. È un martedì di gennaio e Kupérus è ad Amsterdam per una periodica riunione medica dove è solito fermarsi anche a dormire per tornare il giorno successivo, ma al convegno questa volta non si presenta. Entra in un’armeria e compra una pistola anche se non sa ancora cosa farne, poi riprende il treno per tornare in paese a Sneek.

È ormai trascorso un anno da quando un biglietto anonimo l’aveva messo al corrente che la moglie, quando lui andava in città, passava la notte fuori casa tradendolo proprio con la persona che da sempre veniva eletto tacitamente, per la sua altolocata posizione, presidente del circolo impedendogli di coronare il suo modesto sogno. Non lontano dalla stazione d’arrivo, il treno improvvisamente si ferma e Kuperus prende una decisione. Scende di nascosto e si reca nel capanno dove è certo di trovare i due amanti. Colti sul fatto, li uccide. Poi getta i corpi nel lago che, ghiacciando, li occulterà per tutto l’inverno. Quindi rientra in paese e passa al solito caffè, chiacchiera con gli amici e torna a casa. Al rientro Neel, la domestica, gli comunica che la moglie è andata a trovare dei parenti e che sarebbe rientrata il giorno dopo. Kuperus, come se fosse la cosa più normale, ordina a Neel, sulla quale aveva da sempre fantasticato, senza mai osare nulla, di raggiungerlo in camera da letto. Dopo un debole tentativo di dissuasione lei cede alle sue richieste. Da quella volta, Kuperus rinnova ogni sera la pretesa che viene silenziosamente soddisfatta, divenendo sempre più  coinvolto in questo strano menage. Così comincia questo romanzo noir , intrigante e  gelido come il suo protagonista, in cui Simenon segue la discesa nell’abisso di uno dei suoi eroi più tipici: uno di quelli che osano “passare la linea” e ne pagano il prezzo.

Pur utilizzando uno stile narrativo asciutto e poco incline a estetismi letterari, le opere di Simenon dimostrano una notevole capacità di ritrarre con arguta psicologia vicende dal sapore profondamente umano. Si parla addirittura di borghesizzazione del racconto giallo: uomini umili appartenenti alla borghesia, si trovano coinvolti in vicende drammatiche, passando sotto la lente di un osservatore attento e analitico, che nelle sue opere non si dilunga in descrizioni favolistiche, ma anzi ad esse dedica poche ed esaustive righe. Tutto è realtà e naturalmente anche il bigottismo e l’ipocrisia della società perbenista che condanna senza pietà l’assassino. Simenon attraverso la vicenda criminale e la discesa nelle tenebre della coscienza di Kuperus, dà grande prova di conoscere profondamente l’ambiente di provincia (in questo caso quella olandese ma è universale).

Molti dei romanzi di Simenon sono diventati film, sceneggiati e serie televisive. “L’assassino” è stato portato sullo schermo da Ottokar Runze, in un film tedesco dal titolo “Der Mörder”, uscito nel 1979.

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