Pasqua 2022. ‘Il piccolo Vangelo’ di Giovanni Pascoli e il suo Gesù uomo

Negli anni di passaggio al Novecento, Giovanni Pascoli si dedicò allo studio assiduo della Bibbia. Le sue opere, in prosa e in poesia, sono disseminate di riferimenti alle Scritture. La lettura degli autografi raccolti nel fascicolo Preparativi per il Piccolo Vangelo chiarisce l’eterogeneità e la rilevanza delle fonti consultate. Si tratta delle pubblicazioni e delle ricerche più significative nell’esegesi, nella storia delle religioni e nella cultura popolare. Pascoli traduce paragrafi dalla Vie de Jésus di Renan, legge i Vangeli apocrifi curati da Constantin von Tischendorf, annota le visioni liriche di Matilde Serao davanti ai luoghi della Palestina. Tratteggia la figura, ovvero lo stile, del “suo” Gesù, cuore del non finito Piccolo Vangelo, esempio sommo di umanità, egli stesso poeta, in ricerca della propria divinità perduta: maestro di una felicità che passa attraverso la speranza e lo spirito di non contraddizione, verso una concordia universale la  cui bellezza è già nel suo annuncio.

 

Pascoli indugia sul Cantico dei Cantici. Rielabora gli spunti, talora minimi, offerti dalle sacre leggende popolari raccolte da Giuseppe Pitrè, vi accosta ver-setti dei vangeli, mostrando tutta la peculiarità del suo fare poetico. Il Piccolo Vangelo, anche per questo, si pone tra i casi esemplari delle riscritture bibliche.


I fogli autografi conservati a Castelvecchio nel fascicolo
Preparativi peril Piccolo Vangelo, che riporta nella sua terrena missione Gesù, che il poeta chiama “figlio di Dio”, ma che vede nel suo più realisti­co aspetto; un Gesù uomo, con il suo essere terreno con il qua­le affronta una divina missione, che per gli altri è un profeta, ma la sua è una missione di umanità, carità e di martirio, mostrano la ricchezza, l’attualità e la rilevanza delle fonti che Pascoli consultò e trascrisse, nella redazione del suo «futuro successo».


Assieme alle idee sparse, alle varie ipotesi abbozzate, ai lunghi
elenchi di titoli, vi sono infatti riferimenti ai più aggiornati studi in campo biblico con trascrizioni puntuali o richiami a consultazioni erudite. Questo aspetto, a suo modo sorprendente, tanto più se vi si affianca la coeva produzione dei poemetti cristiani in lingua latina esemplari per lingua e contenuti, invita a indagare più ampiamente i rapporti di Pascoli con il sentire religioso nel trapasso del secolo, per arrivare a suggerire i possibili motivi di una scelta letteraria che ha per protagonista Gesù.
Nel Gesù di Pascoli c’è un’altra figura, cioè è un uomo che pur aven­do in sé il dono divino, è uma­namente fra gli uomini, che va predicando la sua buona novella, che rende sani i cechi, gli osses­si, i lebbrosi, ed è tuttavia anche sconfortato, ed è anche stanco: “A sera stanco il figlio del Dio vivo,/ come lavoratore, era, ma pago;/ e s’assideva al tronco di un ulivo,/ guardando al cielo.”

La fine del secolo fluiva nel Novecento in un clima di generale attesa,
con umili e segrete speranze oppure solenni e rilevate aspettative. Ad amplificare l’annuncio del tempo nuovo, in una visione fortemente suggestiva, venivano tolti i sigilli alla Porta Santa di San Pietro, con l’inaugurazione del primo Giubileo nello Stato Italiano, quando l’autorità temporale del Papa era già sfumata.
Le stesse scansioni temporali del Giubileo, dedicato a Gesù Redentore, trovarono eco in Pascoli nella pubblicazione su «L’Illustrazione italiana» dei futuri. In Oriente ed In Occidente, explicit dei Poemi Conviviali nel 1904, con i titoli originari di La Natività e L’annunzio a Roma, rispettivamente il 24dicembre 1899 ed il 30 dicembre 1900.

In quegli anni di transizione, e di fervore, Giovanni Pascoli s’impegnava
così nello studio assiduo e approfondito della Bibbia con esiti diversi, dalla prosa alla poesia, lungo un medesimo disegno e pensiero. Le indagini dantesche, le riflessioni leopardiane, le prose programmatiche e d’impegno umanitario preparate tra il 1895 ed il 1906, quali L’era nuova, L’avvento, Il settimo giorno, La messa d’oro, sono infatti disseminate di riferimenti biblici con proposito, com’è stato rilevato, non puramente esemplificativo o retorico ben-sì etico-pedagogico.

 

Il Grande Codice offriva le chiavi interpretative del poema divino, illuminava la toccante meditazione sulla vita e sosteneva l’ideale umanitario pascoliano, nel segno di una possibile redenzione universale. La dedizione pascoliana alle pagine della Sacra Scrittura risulta inoltre di grande interesse perché si esprime in un contesto culturale, prossimo a Pascoli, ma di segno contrario, rappresentato in maniera emblematica da Carducci e dall’entourage bolognese.

La riscrittura biblica più palese è però quella riferita al Cantico dei Cantici (2, 11-13), altro luogo poetico di Minocchi [1898] 11, riproposta nell’incipit dell’inedita poesia che chiude le carte degli autografi e che poteva invece aprire il Piccolo Vangelo in un piano narrativo più ampio.
Un caso davvero interessante è tuttavia costituito dalla poesia Il fiore, la cui genesi sembra essere una leggenda raccolta da Pitrè, S. Petru e lu nuciuni. Il racconto è abbastanza noto. Secondo San Pietro l’aver fatto alberi alti con frutti piccoli e alberi bassi con frutti grandi è una contraddizione di cui si lamenta con Gesù. Il Maestro lo soddisfa. Ma durante una sosta sotto un albero di noce, San Pietrone riceve in testa il grosso frutto staccato facilmente dal ramo da una folata divento. Gesù stesso commenta con saggezza la disavventura di Pietro, dolorante e con la testa fasciata:

 

«Caru Petru, iu n’ò munnu fici tutti cosi giusti e prupurziunati» (Pitrè [1888: 171]). Di là dal sapore squisitamente popolare della parabola, Pascoli registra nei sui appunti solo l’immagine degli alberi alti e i frutti piccoli, citando la fonte (A VII, 244). L’apparente dissonanza tra i due termini opposti diviene ne Il fiore rassicurante già dai primi versi, sostituendo alla pesantezza del frutto la levità dei petali e offrendo la certezza di una sicura fioritura, in qualsiasi condizione o stato, nel tempo opportuno:

E seguitò: Nel fiore de la vita. Ché non è pianta, ché non è vermena che non si trovi al tempo suo fiorita;[…]e la quercia che immensa l’ombra spande, piccolo; e il fioraliso ch’ha lo stelo sottile, porta il fiore suo più grande: piccolo il pino, grande il grogo: e il melo
L’aneddotica ed il prodigioso ritornano invece nell’antologia Sul limitare, al capitolo XX, Parabole, Allegorie, Leggende, accanto alle dieci traduzioni delle parabole evangeliche e dai Fioretti di San Francesco.
I numeri di pagine indicati da Pascoli a margine delle trascrizioni, anche in latino, rinvia-no a quest’opera. Cfr. A VI, 13 e ss. Il
Piccolo Vangelo di Giovanni Pascoli l’ha bianco e pure è la fuggevol cosa! e il cardo, eterno e del color di cielo [1914: 200, vv. 1-3; 7-12].

 

Le parole del Gesù di Pascoli rimandano, ancora, ad una giustizia e ad una proporzione rivelate dalla stessa natura che non manca di confortare nella dolce e positiva illusione di una «fuggevol cosa», capace di custodire il miele della vita, libato dalle api, dal poeta e dalla «paziente anima umana» (L’ape,v. 8). L’immagine originaria si estende quindi al rapporto tra il fuggevole e l’eterno, l’asperità di un cespuglio spinoso e la grazia della rosa. E, in modo chiaro, tra lo sguardo comune, schietto e pratico, lo sguardo di San Pietro, e la contemplazione poetica che rinviene o crea destini ulteriori, all’ombra delle stelle d’oro:

[…] e da l’irsuto bronco esce la rosa: e tale è nuda e squallida e soletta a gli occhi nostri, sopra ignave zolle, che a l’ombra de le stelle d’oro aspetta d’aprir l’olezzo de le sue corolle(Il fiore, vv. 15-19). Questi versi da Il fiore, il cui andamento prosegue nella poesia L’ape, tentano la via della speranza o quanto meno l’aspirazione a tale virtù.

 

L’affinità con l’aura morale o conoscitiva della leggenda popolare di riferimento non fa altro che confermarne l’intento, in favore dell’esito poetico. Se San Pietro,«comu li cani vastunati» (Pitrè [1888: 171]), accetta lo stato delle cose entro il registro emotivo della paura, pur nell’accezione caricaturale, «pirchì annuncami pò succediri qualchi mali comu chistu», Pascoli, nelle parole di Gesù, invita ad una condizione interiore esile ma libera, come fa l’ape ovvero il poeta:

[…]
In verità ti dico, anima: ornello o salcio o cardo, ognuno ha sua fiorita; amara o dolce; ma sol dolce è quello che tu ne libi miele de la vita
(L’ape, vv. 16-19).
Le api, compagne simboliche della scrittura pascoliana, quali immagini classiche del poeta così come il miele lo è della poesia, appaiono dunque nel loro valore esemplare, al pari dei gigli dei campi e degli uccelli del cielo. Nel Piccolo Vangelo il magistero dell’ape è affine a quello dell’allodola. Perché l’ape ed il canto traggono dalla vita il miele.
Da menzionare anche la poesia Gesù, di solito lodata come uno dei testi nei quali il Pascoli mostrerebbe «tenerezza e liricità». Tuttavia bisogna nutrire dei dubbi intorno a questi due caratteri, tenerezza e liricità, come appartenenti in generale alla poesia di Pascoli, nonostante tanti bambineggiamenti di lettori e antologizzatori attraverso i quali essa è stata falsata e, una volta falsata, è stata offerta in pasto in particolare agli alunni dei primi gradi scolastici.

E Gesù rivedeva, oltre il Giordano,
campagne sotto il mietitor rimorte:
il suo giorno non molto era lontano.

E stettero le donne in sulle porte
delle case, dicendo: «Ave, Profeta!»
Egli pensava al giorno di sua morte.

Egli si assise all’ombra d’una meta
di grano, e disse: «Se non è chi celi
sotterra il seme, non sarà chi mieta».

Egli parlava di granai ne’ Cieli:
voi fanciulli, intorno lui correste
con nelle teste brune aridi steli.

Egli stringeva al seno quelle teste
brune; e Cefa parlò: «Se costì siedi,
temo per l’inconsutile tua veste».

>Egli abbracciava i suoi piccoli eredi:
«Il figlio – Giuda bisbigliò veloce –
d’un ladro, o Rabbi, t’è costì tra’ piedi:

Barabba ha nome il padre suo, che in croce
morirà». Ma il Profeta, alzando gli occhi,
«No», mormorò con l’ombra nella voce;

e prese il bimbo sopra i suoi ginocchi.

Cosa sappiamo veramente di alcune espressioni contenute nei Vangeli? Il libro del teologo Aniello Clemente fa chiarezza

Quante volte anche persone che poco conoscono le Sacre Scritture utilizzano frasi bibliche per far colpo sul proprio interlocutore? E quante volte persone credenti danno un significato errato ai versetti dei Vangeli?

Il professor Aniello Clemente, docente di teologia, eclettico studioso e personaggio istrionico, fa chiarezza in un piccolo libro intitolato Quello che forse non sai… , Editrice Domenicana, su quello che crediamo di conoscere in merito al Vangelo, affinché l’insegnamento della religione cristiana, già considerato trascurabile se non assolutamente evitabile, si svolga in conformità con gli obiettivi formativi della scuola e con la metodologia adeguata, per offrire uno specifico contributo alla formazione integrale della personalità di chi impara.

Come recita la prefazione al libro, la lettura attenta dei quattro Vangeli porta a dei risultati sorprendenti. Molte delle convinzioni sulla storia di Gesù non hanno fondamento biblico, ma nascono da tradizioni religiose che nel corso dei secoli si sono sovrapposte a testi sacri fino a trasformarsi in cosiddette credenze popolari giunte fino a noi.

Quello che forse non sai… è un bisogno di una conoscenza storica più seria e documentata che un semplice libro per soddisfare delle curiosità.

Si prenda ad esempio la nascita di Gesù, i Vangeli non dicono nulla data, ma la storia ci può aiutare. La Palestina era sotto il dominio dei romani. Nel 63 a.C. Pompeo l’aveva conquistata e Gesù nasce mentre a Roma c’è Augusto. Questo dato lo ricaviamo dai Vangeli e nello specifico dai censimenti In Palestina ne fu stilato uno il VI-VII SEC d.c., quanto tal regione passò in mano ai Romani. In tale occasione divampò la rivolta del galileo Giuda. Di ciò è conservata traccia negli Atti degli Apostoli.

Gesù è morto sotto il successore di Augusto, Tiberio, l’attuale era cristiana fu stabilita dal monaco scita Dionigi il Piccolo, per unificare i vari calendari esistenti e per indicare che Gesù fu l’iniziatore di un’era nuova e il centro della storia. Secondo alcuni studiosi moderni Dionigi avrebbe commesso un errore, ovvero quello di ancorare l’era cristiana  al primo gennaio 754 a.C., senza accorgersi che alla data stabilita per la nascita di Gesù il re Erode era già morto.

Questi studiosi ritengono che la nascita di Gesù vada anticipata come minimo di sei-sette anni e collocata probabilmente al 6/7 a.C., ciò ovviamente vuole dire che alla sua morte il Messia aveva 37-38 e non 33.

Altra credenza da sfatare: la caduta di San Paolo da cavallo. Tutto ciò che sappiamo su San Paolo lo desumiamo dagli Atti degli Apostoli e dalle Lettere a lui attribuite. Saulo è figlio di genitori ebrei della tribù di Beniamino ed eredita la cittadinanza romana dal padre. Studia a Gerusalemme e diventa parte integrante del gruppo dei Farisei ed assiste alla lapidazione di Santo Stefano.

Ancora una volta l’iconografia può venirci in aiuto e Caravaggio ha centrato con il suo dipinto che raffigura il possente cavallo di Saulo che quasi schiaccia con il suo zoccolo il folgorato uomo che giace a terra. Ha centrato in quanto il grande artista dà senso alla costruzione delle Chiese, erette per i poveri, per far comprendere meglio il senso delle omelie attraverso i dipinti.

Tuttavia non c’è mai stato nessun cavallo: “Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi non vedeva nulla; e quelli conducendolo per mano lo portarono a Damasco” (At 9,8).

Nella società in cui viviamo è sempre più importante educare una persona, nel senso di generarla nella pienezza della sua umanità affinché il progetto culturale non venga distrutto dal relativismo e dallo scetticismo.

Cristo non sfilerebbe mai al Pride. Se ‘Dio è morto’, l’uomo insieme a lui, tra le mode anticlericali

Ed ecco, di nuovo, il Pride. Noioso come un gioco di ruolo di tre generazioni fa, variazione sul tema di guardie e ladri da giocarsi tra finti indignati e finti tolleranti. Non parliamone troppo, ché l’irrilevanza dell’evento si potrebbe riassumere nelle stesse due righe che bastano alla trama di una qualsiasi puntata di Don Matteo.

Oltre alla polvere, però, il Pride condivide con la geriatrica fiction Rai anche la teologia: lo stesso cristianesimo scemo e zuccheroso, ma rivoltato al contrario. Ovvero, una blasfemia scema e zuccherosa, senza idee, che si riduce ogni volta alle stesse ovvie trovate. Gesù coi tacchi, insomma, e altri imbarazzi del genere.

Veniamo da due secoli di straordinaria, potente blasfemia, abbiamo letto Nietzsche proclamarsi l’unico Dio e tutti gli altri dèi nei biglietti della follia, possiamo ubriacarci di Bataille fino al vomito, e anche da noi almeno un superficiale Inno a Satana o uno sforzato Totò che visse due volte si trovano. Ma Gesù coi tacchi no, e soprattutto non da giustificare col solito glitterato catechismo LGBT+.

Mettiamo le cose in chiaro: Cristo non sfilerebbe affatto al Pride, ma non perché ci sono gli omosessuali. Perché il Pride, per quando legittimo in certe sue rivendicazioni, non è una battaglia per i deboli, per gli ultimi. Ce lo raccontano ancora, ma è falso da un pezzo: tra le sex worker unico lascito formativo dell’Erasmus ad Amsterdam e le prostitute di Galilea c’è un abisso sociologico – forse non esistenziale, ma adesso stiamo facendo politica.

E c’è anche fra i gay di Stonewall e i gay di oggi. In mezzo alla spaghettata di assi di oppressione che l’intersezionalità ci offre, quello che attraversa l’orientamento sessuale nell’Occidente contemporaneo sembra sottilissimo di fronte a povertà ed esclusione sociale.

Brutalmente: fra i manifestanti del Pride c’è tanta gente che sta benissimo; gli operai che scioperavano davanti al Lidl di Biandrate, invece, stavano tutti male. Cristo crocifisso accanto a Adil Belakhdim, il sindacalista ucciso, avrebbe avuto senso. Cristo arcobaleno no.

Ma questa pretesa vittimistica assomiglia, dopotutto, a quella di certi cristiani da combattimento, stile Adinolfi, che di mestiere annunciano la fine dei tempi, laddove famiglia e religione stanno mutando, come sempre, in nuove forme di normalità borghese. Due squadre speculari di privilegiati mediatici intenti a scambiarsi volée di chiacchiere – ma Dio non gioca a dadi e nemmeno a tennis.

D’altra parte, non è che ci si possa indignare davvero se qualcuno deride ancora l’uomo della Croce: è un elemento fondamentale della sua narrativa, dai tempi del ladrone miscredente – la scala dei santi si sale fra gloria e scherno, scrive T.S. Eliot.

Quindi la riflessione si riduce alla perplessità: se la blasfemia non sensibilizza nessuno, non offende nessuno, non fa arte, allora a che serve? Serve, come tutto l’attivismo progressista, a vantarsi in pubblico. E basta. Qualche early millennial può ancora ricordare l’epoca in cui dichiararsi anticlericali a scuola suonava vagamente trasgressivo – atei per assenza d’opinioni in merito, invece, lo erano già tutti.

Figure bonariamente caratteristiche, letterarie alla maniera di Stefano Benni, si presentavano con la maglietta di Marilyn Manson o equivalente e ciarlavano di come la religione avesse provocato tutti i mali del mondo. Altri, invece, andavano in palestra per farsi gli addominali, altri ancora derapavano senza casco col motorino.

L’anticlericalismo, però, ha il vantaggio di valere come posizione politica prêt-à-porter, venduta in pratici kit del depensante da associazioni che hanno già pensato al posto degli iscritti, UAAR su tutte.

Insomma, quando c’è da scegliere un mulino contro cui sprecare la propria esistenza, la Chiesa è un’opzione invitante. Innanzitutto perché concettualmente, alla buona, è nemica della scienza (falso), e la scienza piace alla gente che piace.

Poi perché sembra un’istituzione potente, se si ignora l’ininterrotto tracollo dal Rinascimento in poi. Quel relativo poco di potere che resta è oltremondano, ma non nel senso delle chiavi di Pietro. Piuttosto, come i dinosauri di Magrelli: “orfani del futuro, tristi animali da congedo, belve della malinconia”.

La struggente dolcezza di questa lunga estinzione dovrebbe emergere molto più che i lagnosi dibattiti sull’IMU e le scuole paritarie: ma i progressisti, si sa, non hanno senso estetico. In effetti, quando Fedez chiede di abolire il Concordato non si tratta tanto di una persona stupida che esprime un’opinione stupida, quanto di una cosa brutta perché ammuffita: fa un po’ schifo e un po’ ridere questo anticlericalismo coi baffi a manubrio, pre-breccia di Porta Pia, è fastidiosa questa tendenza a invocare lo stato laico come soluzione, quando invece è l’inizio di un problema fondamentale.

Il problema della teologia politica, misteriosamente perso per strada: “tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”, dice Carl Schmitt.

Facciamola breve, però: l’intervento della Chiesa è stato legittimo e inutile, ugualmente legittime – effetti collaterali della libertà di espressione – e inutili le fanfare di tutti questi bersaglieri in ritardo.

Dunque non ci arrischiamo a rispondere alle domande complesse che emergono, quali per esempio: può uno stato essere davvero laico, senza fondare il potere sovrano sulla metamorfosi del sacro? No; oppure: il ddl Zan andrebbe approvato? Nemmeno.

Sul fondo del Pride, la questione è un’altra: bestemmiare, oggi, non serve a niente come non serve a niente pregare, credenti a parti ovviamente. Ecco i due fuochi nell’ellisse del nichilismo: la morte dell’uomo e la morte di Dio.

Ma tanti supergiovani opinionisti non hanno ancora ammesso la fine dell’essere umano, decostruito dal post-strutturalismo, divenuto incidente della storia.

Ci credono ancora, come le vecchie vedove che parlano alla foto del marito, e fra le conseguenze del delirio c’è la feroce caccia al prete di questi giorni.

La sinistra progressista è tale solo rispetto all’età vittoriana, calendario fisso al 1901 e da lì la retorica apocalittica, che non cambia mai: i gay sono sempre a un passo dal triangolo rosa, l’Italia dalla sovversione fascista e i liberi pensatori dai processi del Santo Uffizio.

Verrebbe da dire che, se siamo ancora ridotti così, potevano risparmiarsi un secolo di fatica. Ma non è vero, perché ci sono state battaglie necessarie, una volta.

Adesso sono finite, ed è cambiato anche il concetto di battaglia politica: i gay non sono discriminati, ma il mondo moderno li inchioda all’ipervisibilità, li totemizza come animali araldici della democrazia; il razzismo è diventato l’influenza coloniale del mercato sulle culture marginali; la religione è ridotta al cratere del Cristianesimo e all’incomunicabilità con l’Islam.

Avremmo bisogno di una sinistra che non viva di rendita, se fosse possibile. Almeno, avremmo bisogno che i ribelli sbattezzati non fossero così anacronistici. Perché, ricorda Sergio Quinzio, “il nichilismo l’abbiamo già alle spalle, di fronte abbiamo il nulla”.

 

Claudio Chianese

13 meravigliose opere d’arte che raccontano la Natività

Concentriamoci sulla bellezza. Con cui, nella storia dell’arte è stata raccontata la nascita di Gesù. 1 Giotto ha rappresentato la Natività di Gesù fra il 1303 e il 1305, sulla parete dell’incantevole Cappella degli Scrovegni a Padova. L’opera fa parte delle Storie di Gesù del registro centrale superiore e commuove per la sua delicata semplicità. Maria è distesa su un declivio roccioso, coperto da una struttura lignea, e adagia Gesù nella mangiatoia con delicatezza materna. Giuseppe sta accovacciato in basso, dormiente, mentre un angelo istruisce due pastori sull’incredibile fatto di cui sono testimoni.

 

2. Il dipinto di Gentile da Fabriano, pur essendo tecnicamente una Adorazione dei Magi (perciò più legato all’Epifania) rappresenta un lavoro incredibile, sia per la ricchezza dei materiali, sia per la quantità di personaggi, sia per dettagli e ambienti coinvolti nel racconto. Fu commissionato nel 1420 da Palla Strozzi, l’uomo più facoltoso di Firenze, e la ricchezza è documentata, oltre che dal dipinto, anche dal conto pagato all’artista: 150 fiorini d’oro. In realtà le “bassezze” economiche nulla tolgono alla meraviglia che la pala di Gentile suscita in chi l’ammira. Un turbinio, una folla preziosa di persone e animali che si accalca dietro i magi mentre questi porgono i loro doni alla madonna e al nuovo Re.

3. Qualche decennio dopo, nel 1481, i monaci di San Donato a Scopeto commissionano a Leonardo da Vinci un’Adorazione dei Magi da completare nel giro di due anni. Quel quadro non viene mai terminato ma nell’incipit all’opera che il genio toscano lasciò ai posteri si possono scorgere tutti i tratti di una rivoluzione del tema, dall’iconografia all’impostazione compositiva. L’artista pone al centro la figura di Maria con il Bambino che, alzando la mano, benedice i magi e rivela la sua natura divina agli astanti quale portatore di Salvezza secondo il significato originario del termine “epifania” (“manifestazione”). A questo gesto risponde la reazione dei presenti, che si muovono stupiti e paiono mormorare e agitarsi, abbandonando il composto corteo che aveva caratterizzato le rappresentazioni del genere fino a quel momento.

 

4. Lorenzo Lotto dipinge nel 1523 una piccola tavola (appena 46×36 cm) raffigurante la Natività, conservata alla National Gallery di Washington. Un’immagine classica, che per la prima volta mostra Giuseppe non in disparte, né assonnato, ma realmente emozionato dal suo essere padre. La Sacra Famiglia a cui pensa Lotto è unita nella felicità del momento, seppur il crocefisso sulla parete a sinistra preannunci il doloroso futuro del Bambino.

 

5. Anche Caravaggio, sempre in fuga, dipinse una natività, che al suo tempo, diventò un mito. Si tratta dell’opera Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi che fu trafugata la notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969 dall’Oratorio di San Lorenzo a Palermo e non fu mai più recuperato. Si pensa che il furto sia stato commissionato dalla Mafia siciliana, anche per le numerose e infruttuose testimonianze rese dai pentiti che, a ondate alterne, ne hanno dichiarato la distruzione per cause davvero poco realistiche. Così, rimane solo la fotografia di questo bellissimo dipinto, che è uno dei più ricercati al mondo, in cui ogni personaggio è colto in un atteggiamento spontaneo, mentre la scena è carica di una tensione luminosa. San Giuseppe è molto più giovane rispetto all’iconografia tradizionale, presentato di spalle e avvolto in uno strano manto verde. La Madonna ha le sembianze di una donna comune e un aspetto estremamente malinconico; sembra già consapevole che questo figlio dovrà presto allontanarsi da lei.

 

6. C’è tutta la poesia del giorno di Natale e della notte in cui si attende il Salvatore nell’opera dell’artista bolognese Guido Reni. La sua scena è letteralmente illuminata da questo Bambino, la cui luce calda e avvolgente rischiara tutti i coloro che si sono riuniti attorno alla piccola culla improvvisata per rendergli omaggio. L’incanto delicato dei colori, la serena gioia dei volti e la scelta compositiva che ci pone a osservare la scena leggermente dall’alto, come se fossimo noi uno degli angeli presenti, fa sì che quest’opera diventi un modello iconografico per le rappresentazioni più moderne.

 

7. La Natività è un’opera realizzata agli inizi del secolo scorso da Marc Chagall, un artista nato nel 1887 in Bielorussia (allora inclusa nell’Impero Russo), in una famiglia di cultura e religione ebraica. È a Parigi che Chagall scopre il repertorio di immagini cristiane, che vedeva in gran copia nei musei e nelle chiese. Ed è così che incontra l’“ebreo” Cristo e tutto quello che da lui è derivato. Le sue tele si riempiono, perciò, di simboli attinti con libertà dalla tradizione iconografica narrativa cristiana e da quella simbolista ebraica.

 

8. Forse l’opera più importante che omaggia la nascita di Gesù, e la nuova famiglia di Giuseppe e Maria, è il Tempio Espiatorio della Sacra Famiglia o più semplicemente Sagrada Família, a Barcellona. La Basilica è stata progettata dall’architetto catalano Antoni Gaudí e non è ancora terminata. Gaudí le dedicò interamente gli ultimi 15 anni della sua vita e, secondo gli auspici del comitato promotore, l’opera potrebbe essere completata, nella migliore delle ipotesi, per il 2026, a 144 anni dalla posa della prima pietra.

 

9. a Natività mistica è un’opera di difficile interpretazione, poiché esclude ogni elemento dell’iconografia tradizionale. Infatti, esso combina la nascita di Gesù, come narrato nel Nuovo Testamento con una visione della sua seconda venuta come promesso nell’Apocalisse: il ritorno di Gesù Cristo sulla terra, che avrebbe segnato la fine del mondo e la riconciliazione dei cristiani devoti con Dio.
La promessa di amore e pace incarnata nell’Avvento, è evocata dal pittore in evidente rapporto con i “torbidi” di cui parla la criptica iscrizione in greco sul bordo superiore del dipinto. Infatti, la Natività appare carica delle inquietudini del momento storico in cui fu eseguita, i “torbidi d’Italia” a cui allude l’artista nell’epigrafe:
la morte di Lorenzo il Magnifico, nel 1492, aveva scatenato a Firenze un’aspra lotta per il potere e l’ascesa di Girolamo Savonarola (1452 – 1498);
le campagne militari di Cesare Borgia (1475 – 1507), luogotenente del re di Francia, Luigi XII (1462 – 1515), contro Rimini, Ravenna, Cervia, Faenza e Pesaro (1500 – 1502), che assediando Faenza (1501), minacciava direttamente anche la Toscana;
l’espansione turca. (Da Wikipedia)

10. Il dipinto Natività con i santi Elisabetta e Giovannino risente fortemente dell’influenza di Leonardo da Vinci, dal quale il Correggio riprese non soltanto la tecnica dello sfumato, applicata soprattutto sui personaggi, ma anche la prospettiva aerea che qui si risolve in un’aria fresca e sottile che fa stormire le fronde degli alberi (le vediamo muoversi sullo sfondo) e riempie il cielo di nubi sottili, mentre in lontananza già si vedono i bagliori dell’alba. Il fatto che san Giuseppe stia dormendo appoggiato a una sella è un riferimento alla fuga in Egitto: secondo il racconto evangelico, infatti, sarebbe stato avvisato da un angelo in sogno, che gli avrebbe raccomandato di recarsi in Egitto per far sì che Gesù sfuggisse alla strage degli innocenti. Lo scorcio del Bambino invece potrebbe richiamare (anche a livello simbolico) il Cristo morto del Mantegna, principale punto di riferimento del Correggio in età giovanile.

 

11. Sull’opera Natività Allendale, o Adorazione Beaumont, o L’adorazione dei pastori, è un dipinto autografo del Giorgione, realizzato con tecnica ad olio su tavola, presumibilmente intorno al 1505, misura 89 x 111,5 cm. ed è custodito nella National Gallery di Washington.
Anche in questa tavola i personaggi della tradizione evangelica sono raffigurati all’esterno (qui, dinnanzi ad una grotta naturale) in una paesaggistica prettamente “veneta”, dove non mancano armoniosi effetti luministici del tipo crepuscolare. Alcune piccole figure si intravedono nel fondo, come quella assisa dinnanzi alla grande entrata di un edificio con un caratteristico tetto, o quella di un fanciullo che si diverte aggrappandosi al tronco dell’albero ubicato al centro, alle spalle del pastore in piedi.
Gli studiosi moderni di Storia dell’arte tendono ad identificare l’opera in esame nella “Notte” (“Nocte” di casa Beccare), citata da T. Albano in una missiva, del 7 novembre 1510, inviata ad Isabella Gonzaga, nella quale rispondeva alle richieste della marchesa circa la “Nocte” di un pittore morto da poco tempo, confermandone la morte.

 

12. L’Altare Paumgartner è un dipinto a olio su tavola di legno di tiglio di Albrecht Dürer, databile al 1496-1504 circa e conservato nell’Alte Pinakothek di Monaco di Baviera. È la più grande pala d’altare dell’artista. Il pannello centrale mostra l’Adorazione del Bambino, affiancata con due pannelli di santi cavalieri a tutta figura: a sinistra San Giorgio, col vessillo crociato e con il drago dalla testa mozza, a destra Sant’Eustachio, nella cui bandiera si vede la miracolosa apparizione a cui assistette durante una caccia, un crocifisso tra le corna di un cervo. Siccome le tavole laterali erano chiudibili, secondo la tradizione nordica, il pittore fece anche due rappresentazioni a monocromo sul resto degli sportelli laterali, di cui però resta oggi solo una Vergine annunciata; l’Angelo annunciante, che completava un’Annunciazione, è perduto. Esistevano inoltre altri scomparti fissi con le immagini di Santa Barbara e Santa Caterina, perduti. Il suggerimento dei committenti dovette contribuire in modo determinante a creare quel disequilibrio formale che l’altare ha quando le ali sono aperte, essendo le due figure di santi dipinte a grandezza quasi naturale e non proporzionate alle figure della tavola centrale che sono in scala più ridotta.

 

13. Adorazione dei pastori di Mantegna. La scena è ambientata all’aperto, con la Madonna al centro che adora il Bambino inginocchiata su un gradino di pietra, mentre a sinistra san Giuseppe dorme e a sinistra due pastori si inarcano in preghiera. Il sonno di san Giuseppe rappresentato in disparte, ricorda la sua funzione esclusivamente di custode della Vergine e del Bambino. Il colloquio tra Vergine e Bambino, circondati da angioletti che solennizzano l’evento, è caratterizzato da una notevole intimità. Gesù è sapientemente raffigurato di scorcio, un tipo di veduta virtuosistica che ricorre nella produzione di Mantegna.
All’estremità sinistra si trova un giardino recintato (riferimento all’hortus conclusus che simboleggia la verginità di Maria), da cui si affaccia il bue, e alcune assi che fanno immaginare la capanna dove è avvenuta la natività. A destra è protagonista l’ampio paesaggio, che si apre in profondità, incorniciato da due montagne fatte di rocce a picco. In lontananza, a destra, si vedono altri pastori (uno sta accorrendo a rendere omaggio al Bambino) e un grande albero che sembra ricordare la forma della Croce del Calvario, presagendo la Passione di Cristo.

 

 

 

Fonti:

http://www.bergamopost.it/da-vedere/quadri-raccontano-nascita-gesu-bambino/

Riflessioni: Il Natale religioso e laico, tra Moravia e il Vangelo di Luca

Qual è il vero significato del Natale? Probabilmente per molti non ha alcun significato, per gli atei e gli agnostici, anche se alcuni di loro considerano importante e rivoluzionaria la figura di Gesù in quanto personaggio storico, umano, non divino, alla stregua di Buddha o di un qualsiasi guru New Age, ma si potrebbe provare a fare un discorso laico riguardo al Natale cercando di liberarlo delle incrostazioni consumistiche e festaiole.

Nel portare avanti un discorso di questo tipo ci viene in soccorso l’incipit di un articolo sul Natale di Alberto Moravia, che non è stato di certo un fervente cattolico, e he a qualcuno potrebbe suonare troppo moralistico:

Il Natale odierno mi fa pensare a quelle anfore romane che ogni tanto i pescatori tirano fuori dal mare con le reti, tutte ricoperte di conchiglie e di incrostazioni marine, che le rendono irriconoscibili. Per ritrovarne la forma, bisogna togliere tutte le incrostazioni. Così il Natale. Per ritrovarne il significato autentico bisognerebbe liberarlo da tutte le incrostazioni consumistiche, festaiole, abitudinarie, cerimoniose.

A queste parole aggiungiamo quelle di un cardinale e uomo di grande cultura, Monsignor Gianfranco Ravasi, biblista, ebraista e teologo, presidente della “Casa di Dante in Roma”, riportate qualche anno fa su verdementablog, ma che sono sempre valide, per ogni Natale che ci accingiamo a trascorrere:

Certo, il rituale laico di questa festa cristiana è spesso analogo ai cine-panettoni e ha come emblema luci al neon e vetrine colme. Tuttavia non si può ignorare che ora molta gente fatica persino ad allestire un pranzo natalizio degno di questo titolo. E allora l’omelia potrebbe continuare lasciando la parola a un vero predicatore, papa Francesco, con l’incisività delle sue parabole sulla povertà. È lui, infatti, più di tanti politici, a far risuonare il ruggito della fame del mondo, a scrivere nel suo ultimo testo Evangelii gaudium  pagine roventi sulla necessità dell’inclusione sociale dei poveri e sulla pace e il dialogo sociale, a scendere fino a Lampedusa per incontrare le nuove famiglie di Betlemme profughe come quella del neonato Gesù e a invitare tutti noi a trasferirci dai centro-città festosamente illuminati alle squallide periferie. A proposito di periferie, continuerei allora la mia predica più o meno laica  con una testimonianza personale. Quand’ero giovane prete, studente a Roma, mi recavo a visitare gli infermi di una parrocchia di Torpignattara. C’era un anziano che mi accoglieva sempre con gioia, mi preparava il caffè, mi tratteneva il più possibile. Quando dovetti salutarlo per l’ultima volta perché rientravo a Milano, mi disse sconsolato: <<Lei non sa cosa vuol dire non attendere più nessuno>>. Quante persone nel giorno di Natale sono come lui, sole, dimenticate, davanti a un telefono che non squilla perché non c’è più nessuno che si ricorda di loro e al massimo possono parlare solo coi loro cari morti.

Del resto Voltaire diceva che le prediche sono come la spada di Carlo Magno, lunghe e piatte, perché i predicatori quello che non sanno darti in profondità ti danno in lunghezza. Monsignor Ravasi conclude con una provocazione:

Anche quest’anno il Natale ha nel mondo la solita presenza di Erodi e di innocenti sgozzati. Lascerò ai lettori di riflettere su un aneddoto che mi ha raccontato l’ambasciatore di Israele presso la Santa Sede e che può essere sia una rappresentazione della storia umana sia un amaro esame di coscienza collettivo. Anni fa, in visita allo zoo biblico di Gerusalemme fu condotto Henry Kissinger, Segretario di Stato di Nixon. Egli rimase stupefatto di fronte a un leone accovacciato davanti a un agnello che brucava pacificamente. Si era forse avverata la profezia messianica di Isaia secondo la quale il leone si sdraierà accanto all’agnello in perfetta armonia? «No replicò il direttore dello zoo in verità noi sostituiamo ogni giorno un nuovo agnello…!».

 

Il Natale cristiano non è una stucchevole favoletta

Ma tornando al Natale religioso, cristiano, come è possibile cercare trasmettere a tutti, cattolici compresi, lo spirito genuino del Natale di Gesù bambino? In primis spogliandolo dei rivestimenti retorici e fantasiosi che lo rendono una favola mielosa e stucchevole, adatta solo a costruire presepi.

Partiamo da un dato topografico, come ci suggerisce Mons. Ravasi. La tradizione cristiana, sostenuta da San Girolamo che vivrà per decenni a Betlemme, parlerà di una grotta simile a quelle adiacenti alle povere case di allora. Giovanni era nato nella casa sacerdotale del padre, Cristo nasce nell’emarginazione, privo di un guanciale. Eppure nel racconto di Luca c’è un particolare sottolineato con tenerezza: Maria «avvolse il bambino in fasce e lo depose nella mangiatoia» (v. 7). Del Battista si dice soltanto: «Per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio» (1,57).

Il secondo dato da considerare è quello “temporale”. Esso è scandito dalle ore dell’imperatore Ottaviano Augusto (31 a.C.-14 d.C.) ed è precisato da Luca con l’indicazione del famoso “primo censimento”, ordinato dal legato di Siria Quirinio. Non è il caso ora di entrare nel merito della secolare discussione su questa informazione che apparentemente sembra errata, essendo documentato solo un censimento di Quirinio del 6 d.C., quando Gesù aveva ormai dodici anni. È probabile che si tratti di una “prima” operazione censuale, ordinata durante un incarico straordinario ricoperto da Quirinio prima di essere formalmente nominato legato di Siria. Vogliamo solo ricordare che con questi dati appare nitidamente il valore dell’incarnazione, cioè dell’ingresso di Dio negli eventi e nel tempo umano. Efrem il Siro unirà i due estremi del parto da Maria e della morte in croce per esaltare l’incarnazione nella sua realtà: <<La sua morte in croce attesta la sua nascita dalla donna. Infatti se un uomo muore, dev’essere pure nato>> Perciò la concezione umana di Gesù è dimostrata dalla sua morte in croce. Il censimento romano, segno di schiavitù, ci ricorda che Cristo nasce da un popolo oppresso e in mezzo a quei poveri che i potenti considerano pedine insignificanti sullo scacchiere dei loro giochi politici. Esattamente come oggi, basti pensare a chi giovano le guerre, i flussi migratori, la povertà, la fame, le malattie.

Il Natale nel vangelo di Luca senza retorica e sentimentalismi

Prendiamo allora nel dettaglio i versetti del Vangelo di Luca relativi alla nascita di Gesù (2,1-14) per comprendere il vero significato di quello che vuol dire l’evangelista, che ci trasmette una verità teologica:

In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio. C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: «Nontemete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».

Mentre il potere si divinizza per sottomettere gli uomini, Dio si umanizza per salvarli: questo  il  messaggio della notte di Natale che la chiesa ha scelto con il vangelo di Luca.

A quel tempo un decreto di Cesare Augusto”, (si tratta di Ottaviano che è il primo che ha assunto come appellativo “Augusto”,  cioè  “degno  di  venerazione), ordinò  che  si  facesse un censimento di tutto l’Impero, per riscuotere le tasse. Il censimento, nella Bibbia, veniva sempre visto come un attentato contro Dio, perché Dio era il Signore della terra e degli uomini. Dunque Luca vuole trasmettere non tanto una verità storica, quanto una verità di fede. C’è dunque un’usurpazione e il movimento degli zeloti è nato come resistenza a queste forme di censimento. In questo contesto Luca scrive che “Dalla Galilea, dalla città di Nazaret, salì in Giudea alla città di Davide”, e che “La città di Davide è chiamata Betlemme”, ciò meraviglia perché nella Bibbia la città di Davide è sempre stata Gerusalemme, non Betlemme, dove Davide era pastore, a Gerusalemme era re; dunque Luca vuol far comprendere che colui che sta  pernascere  non  avrà  i  tratti  del  monarca, ma i tratti del pastore. Ma ecco un’altra sorpresa: “Giuseppe doveva farsi censire insieme a Maria sua sposa”. Il matrimonio ebraico si divideva in due parti: la prima, lo sposalizio, e la seconda, le nozze. Qui abbiamo una coppia rimasta alla prima fase del matrimonio, il termine sposa destava grande scandalo nella comunità cristiana primitiva, che nel IV secolo venne  sostituito con “moglie”, perché altrimenti sembrava una coppia irregolare. Maria e Giuseppe erano dunque una coppia di fatto. Da evidenziare anche un’altra novità: lo stesso nome Maria nell’Antico Testamento era un nome maledetto da Dio, mentre Dio nel Nuovo Testamento si rivolge proprio ad una donna (nell’A.T. la donna era un essere impuro, inferiore persino al bestiame, nonché una disgrazie per la famiglia) di nome Maria.“Mentre si trovavano in quel luogo si compirono per lei i giorni del parto”: purtroppo la tradizione ha un po’ travisato il messaggio dell’evangelista. Il percorso da Nazaret a  Betlemme veniva fatto a piedi e una donna gravida non poteva certo percorrere quel tragitto. Quindi sono arrivati quando Maria ancora poteva permettersi tutto quel viaggio. “Diede alla luce il suo figlio primogenito”: il primogenito” è il figlio maschio primogenito che va consacrato secondo quanto prescrive un libro dell’Esodo; dunque Gesù è sacro al Signore.

“Lo avvolse in fasce”, il  dettaglio delle fasce è un richiamo al libro della Sapienza per indicare che Gesù nasce come tutti. “E lo pose in una mangiatoia”, anche la mangiatoia è un richiamo al profeta Isaia, il quale dice che “il bue riconosce il suo proprietario e l’asino la mangiatoia del suo padrone, ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende”. Attraverso questi richiami Luca vuol far capire che Gesù, come venne tra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto, non l’hanno riconosciuto. “Perché per loro non c’era posto …”.  Anche su questo verso si commettono errori: in passato l’errata traduzione del termine greco con “albergo”, diede origine alla storia di Maria e Giuseppe che non trovavano posto. “Non c’era posto nell’alloggio”. L’abitazione palestinese era fatta in questa maniera: c’era una parte scavata nella roccia che è la parte più  sana, più sicura, più pulita, dove venivano conservati i generi alimentari e dove c’era la mangiatoia, poi una parte in muratura, un’unica stanza, dove avveniva tutta la vita della famiglia. Quando  però una donna partorisce, secondo il libro del Levitico, è impura, quindi tutto quello che tocca,  o le persone che avvicina, diventano impure e non può stare lì. Ecco perché non c’è posto per lei lì nell’alloggio e deve andare nella parte interiore. “C’erano in quella regione alcuni pastori”. Quando l’evangelista ci presenta i pastori, non intende raffigurarci i bei personaggi del nostro presepe. A quell’epoca, prescrive il Talmud, nessuna condizione al mondo è disprezzata come quella del pastore. I pastori, lontani dalla società civile, non erano pagati, vivevano di furti, non avevano diritti civili. Non potendo andare in sinagoga o al tempio per purificarsi, erano l’emblema, l’immagine del peccatore impuro. Per loro non c’era salvezza. Ebbene, quando verrà il messia, questi pastori, insieme ai pubblicani, saranno i primi della lista ad essere eliminati.

Scrive l’evangelista che “Un angelo del Signore”, è  la terza volta che compare questo personaggio. Per “angelo del Signore” non si intende mai un angelo inviato dal Signore, ma è Dio stesso quando comunica con gli uomini. Quindi la formula “angelo del Signore”, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, indica sempre il Signore quando entra in relazione con gli uomini; è la terza volta che appare, e sempre in relazione alla vita. La prima volta per annunziare la vita di Giovanni al padre, a Zaccaria; la seconda per annunziare la vita di Gesù a Maria e adesso il Salvatore ai pastori. “Si presentò a loro”. Questo angelo del Signore veniva rappresentato, nell’Antico Testamento, con la spada sguainata, pronto a castigare i peccatori. Ebbene, quando Dio si presenta di fronte ai peccatori, non li minaccia, non li castiga, non li fulmina, ma, ecco la novità, è la Buona Notizia di Gesù, “La gloria del Signore li avvolse di luce”. Luca smentisce tutta la teologia preesistente, di un Dio che giudica, che minaccia o che castiga. Quando Dio si incontra con i peccatori non fa altro che avvolgerli con la sua luce, la luce del suo amore. Ma i pastori non lo sanno, e infatti, scrive l’evangelista “sono presi da grande timore”, perché sapevano quello che li aspettava. Ma l’angelo disse loro: “Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia”; la grande gioia della Buona Notizia scaccia il grande timore. E qual è la grande gioia? Che nella città di Davide è nato per voi non un castigamatti, ma il Salvatore.

Solo i Vangeli di Matteo e Luca trattano la nascita di Gesù, in maniera differente ma comunicando le stesse verità teologiche. Ripartiamo da qui e dalle riflessioni di Moravia e di Mons. Ravasi, se si vuol vivere un Natale autentico, all’insegna della condivisione, perché no, del relax, del sano divertimento, senza farsi inghiottire dall’atmosfera festaiola e dal vortice del consumismo e senza dimenticare quello che accade intorno a noi.

 

 

 

 

 

 

“La Buona Novella”: Il Vangelo secondo De Andrè

Dal Vangelo secondo Fabrizio De André, “La Buona novella”.Si potrebbe affermare senza paura di essere smentiti, che, per complessità del tema trattato, per la profondità delle parole usate e per la bellezza delle musiche composte, siamo di fronte all’album più bello ed importante della storia della musica italiana. “La Buona Novella”, datato 1970, è un’allegoria, un concept-album difficile, ambizioso, maestoso ma anche incredibilmente poetico e commovente. D’altronde non è mai facile parlare di Dio ( altri artisti come Mick Jegger, Renato Zero, Franco Battiato, Francesco Guccini, I Nomadi ne hanno parlato nelle loro canzoni), di fede e di religione senza scadere nella banalità, nel cattivo gusto o peggio, nell’offendere qualcuno. Per ovviare a questo spinoso problema Fabrizio De Andrè sceglie un punto di vista atipico, singolare. Sceglie di mostrare il lato umano di figure da sempre dotate di una forte carica spirituale quali il Cristo, la Vergine Maria, San Giuseppe e i due ladroni. Ma il lato umano di tali personaggi non è certo rintracciabile nei quattro Vangeli Canonici, va cercato altrove ed il buon Faber lo trova nei testi “maledetti” dalla Chiesa, nei libri messi “all’Indice”, nel lato oscuro della cristianità, i cosiddetti Vangeli Apocrifi. Molti di voi si chiederanno cosa sono i Vangeli Apocrifi. Sono, molto semplicemente, quei testi risalenti all’epoca di Cristo che non sono riconosciuti dal Vaticano perché tendenti a descrivere eventi quali la Natività, la Passione e la Resurrezione in maniera molto più “terrena” e molto meno “divina”. Lo stesso De André ha ammesso:

« Quando scrissi “La buona novella” era il 1969. Si era quindi in piena rivolta studentesca; e le persone meno attente – che poi sono sempre la maggioranza di noi -: compagni, amici, coetanei, consideravano quel disco come anacronistico. Mi dicevano: “cosa stai a raccontare della predicazione di Cristo, che noi stiamo sbattendoci perché non ci buttino il libretto nelle gambe con scritto sopra sedici; noi facciamo a botte per cercare di difenderci dall’autoritarismo del potere, dagli abusi, dai soprusi.” …. Non avevano capito – almeno la parte meno attenta di loro, la maggioranza – che La Buona Novella è un’allegoria. Paragonavo le istanze migliori e più ragionevoli del movimento sessantottino, cui io stesso ho partecipato, con quelle, molto più vaste spiritualmente, di un uomo di 1968 anni prima, che proprio per contrastare gli abusi del potere, i soprusi dell’autorità si era fatto inchiodare su una croce, in nome di una fratellanza e di un egualitarismo universali. »

In dieci magnifiche canzoni, introdotte da una maestosa Laudate Dominum, si snoda la vicenda della vita di Gesù dalla nascita fino alla morte sul Golgota. Si parte dall’Infanzia di Maria, il cui titolo dice tutto, ed attraverso il Ritorno di Giuseppe fino alla poeticissima il Sogno di Maria si affronta il tema dell’Annunciazione, del matrimonio combinato e della gravidanza inaspettata (in fondo Maria è una ragazza/madre). La Natività vera e propria è affidata alla splendida e pseudo/femminista (specie nel verso “Femmine un giorno e poi madri per sempre/ Nella stagione che stagioni non sente”) Ave Maria in cui la poetica di De Andrè tocca vertici incredibili legandosi a meraviglia con le note concepite da Giampiero Reverberi. Il lato B tratta della Passione e si apre con la terribile Maria nella bottega del falegname, dove, attraverso un struttura in forma di domanda/risposta, Maria apprende la terribile notizia della condanna a morte del figlio. Via della croce, ovvero l’ascesa al patibolo di Gesù e la straziante Tre Madri, introducono quel capolavoro assoluto che è Il Testamento di Tito, ovvero i Dieci Comandamenti in musica (incredibile!), in cui il ladrone “buono”, Tito appunto, confessa in punto di morte di aver violato, una ad una, le leggi donate dal Signore a Mosè ma di provare pietà per quell’uomo che muore con lui da innocente e di aver finalmente compreso, grazie a quel gesto finale, il vero significato della parola Amore. La chiusura è affidata a Laudate Hominem, una ripresa vera è propria del pezzo di apertura del disco, in cui, grazie al cambio di titolo, si vuole sottolineare la natura prettamente umana del Cristo. Arrangiato superbamente da Giampiero Reverberi ed inciso con l’ausilio dei musicisti della PFM (Premiata Forneria Marconi), La Buona Novella è un album quasi incredibile perché nessuno, né prima né dopo, ha mai “osato” affrontare e, perché no, mettere in discussione uno dei movimenti religiosi più diffusi del mondo. Il rivoluzionario cantautore ligure ha saputo coniugare etica ed estetica. Ma si sa, De André è De André e con quella sua classe, con quel suo tocco, con quel suo genio poteva dire e fare praticamente qualsiasi cosa.

La spiritualità espressa meravigliosamente da De André in questo album, in realtà è sempre stata presente nella lirica del cantautore, molte volte intrecciata con motivi sociali e anarchici come dimostrano La città vecchia del 1965 e Preghiera in gennaio del 1967. De André riesce a rendere anche quel fascinoso alone di mistero che accompagnava  la figura di Gesù (rappresentato come un uomo “vestito di sabbia e di bianco”).

La Buona Novella è una rilettura del Vangelo e del suo messaggio cristiano, insistendo sulla denominazione di Figlio dell’uomo e non di Figlio di  Dio che in verità non è lontana da quella dei Vangeli canonici. De André si dimostra un poeta (come non considerare pura poesia un’opera simile) innamorato dell’essere umano e nemico del potere come lo è  stato Gesù, non di certo un esempio di pio cristiano ma sicuramente un uomo profondo lontano dalla sterile estetica della fede praticata da molti cattolici.

Una visione riduttiva e in un certo senso comoda per chi è laicamente nemico del potere e vicino ai più deboli? (In realtà vi sono molte persone non credenti che sono inconsapevolmente portatori del messaggio cristiano, e ciò farebbe pensare ad un Dio immanente non trascendente) Certamente qualcuno potrebbe pensarlo, chiedendosi perché del Vangelo si prendono solamente gli aspetti che fanno più comodo. Tuttavia nell’ascoltare queste poesie ci si rende conto di come un approccio di questo tipo possa risultare producente e avvinicare la gente alla se non alla fede alla spiritualità. De André, da perfetto autore del ‘900, è uomo degli interrogativi, dei dubbi, non delle risposte, di crisi non di certezza, tranne, forse, una che rappresenta la strada che ci conduce a Dio che può essere percorsa, secondo il cantautore, guardando ai nostri simili, agli altri e quindi all’ uomo Gesù che nel Vangelo secondo Giovanni, 14,1-14 dice :<<Chi ha visto me, ha visto il Padre>>.

Il pensiero di Faber non è poi così lontano da quello di alcuni  teologi come Von Balthasar il quale, facendo da eco a De André, si chiede e risponde: “Chi è il cristiano? Uno che impegna la propria vita per i fratelli, perché egli stesso è debitore della vita al Crocifisso. Ma che cosa può dare seriamente ai fratelli? Non soltanto cose visibili: il suo dono – ciò che è stato dato a lui stesso – affonda nelle cose invisibili di Dio”.

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