Il ‘cuore di tenebra’ del Congo, tra Conrad, Conan Doyle e Gide

La morte dell’Ambasciatore Attanasio svela il dramma del Congo, terra martoriata, un incubo lì da oltre un secolo. Ne hanno scritto, con varia intensità, in tanti: da Conrad a Conan Doyle, da Gide a Pietro Savorgnan di Brazzà, il fondatore di Brazzaville.

Il simbolo del Congo è l’Arcade du Cinquantenaire a Bruxelles. Commissionato da Leopoldo II nel 1880 per onorare i cinquant’anni dalla rivoluzione belga, fu realizzato nel 1905: trionfale è l’epiteto che gli calza a pennello. Che il simbolo dell’emancipazione del Belgio dal Regno Unito dei Paesi Bassi sia realizzato soggiogando uno dei paesi più ricchi dell’Africa oscura, è un paradosso crudele ed esemplare. “I profitti del Congo vennero usati per lanciare una grandiosa politica di opere pubbliche e di riqualificazione urbana. In Belgio, naturalmente. La magnifica Arcade du Cinquantenaire a Bruxelles, il famoso museo Tervuren, ampliamenti del palazzo reale, lavori pubblici a Ostenda, vari piani urbanistici: tutto fu finanziato dallo Stato libero del Congo” (John Reader, Africa. Biografia di un continente, Mondadori, 2001).

Se oggi in Congo si scava il coltan, allora era necessario per la gomma. Furono gli pneumatici a fare la fortuna di Leopoldo II, che si gettò in Congo con la fame dei re storditi dal tedio occidentale; razzia sistematica, ratificata dalla Conferenza di Berlino del 1884 nel sistema della laida spartizione europea del ‘continente nero’. Prima per le biciclette, poi per le automobili, gli pneumatici – brevettati da Edouard Michelin, maneggiati da John Dunlop, prodotti industrialmente da Charles Goodyear – mutarono la locomozione europea, le fortune di Leopoldo e i destini dello Stato Libero del Congo. Il lattice da cui si realizzava la gomma proveniva da alberi diffusi nelle foreste equatoriali: lo sfruttamento fu miliare, millimetrico, letale. Il Belgio cominciò a vendere concessioni, incassando; i civili furono cooptati in massa, violati, massacrati.

Il giornalista britannico Edmond Morel documentò come avveniva la ricerca degli alberi per la gomma. A chi non ricavava materiale sufficiente, venivano tagliate le mani. “Fa gelare il sangue vedere i soldati tornare con le mani degli uccisi, e trovare le mani di bambini piccoli fra quelle più grandi, prova della loro tracotanza… La gomma che viene da questo distretto è costata centinaia di vite e le scene cui ho assistito, senza poter far nulla per aiutare gli oppressi, sono state tali da farmi quasi desiderare di essere morto. Il traffico della gomma gronda sangue”, scrive Morel al “Times”.

Nel 1890, l’anno in cui scoppia il boom della gomma e Leopoldo II comincia a fare cassa, Joseph Conrad, a 32 anni, viene ingaggiato come capitano del “Roi des Belges”, un vaporetto che viaggia sul fiume Congo. Conrad era ormai un uomo fuori dal tempo, elegantemente inquieto: nel 1888 aveva compiuto l’ultimo grande viaggio tra Singapore, Australia, Mauritius; capitano di velieri, l’era dei grossi piroscafi lo tagliava fuori dagli ingaggi importanti. Tuttavia, voleva chiudere con l’Africa, che ancora manca nel suo giro del mondo in barca, che sogna. Nel frattempo, appunta Almayer’s Folly, il primo romanzo, che sarà pubblicato nel 1895. A smuovere la palude quotidiana sono i buoni uffici di Marguerite Poradowska, antica parente di Conrad, che abita a Bruxelles. La signora, da poco vedova, brillante, con il gusto per la scrittura, comincia a mobilitare il gran gala delle sue conoscenze: il 7 maggio del 1890 Conrad firma un contratto con la Société Anonyme Belge pour le Commerce de Haut-Congo; il 12 giugno parte da Bordeaux per Boma, il 2 agosto è a Kinshasa. Conrad deve sostituire, alla guida del vaporetto, sul magnetico Congo, un capitano belga, Johannes Freiesleben, ammazzato dagli indigeni. Si parla di una uccisione rituale, sviscerate le interiora, divorate le parti nobili, vitali.

Il viaggio non va secondo i piani di Conrad: dopo due mesi di comando del battello, tornato a Kinshasa, è affiancato e infine sostituito da un altro comandante, Alexandre Delcommune, belga. L’obbiettivo di Delcommune è svelato: invadere la regione del Katanga – che diventerà dominio belga nel 1891 –, strategica per i giacimenti minerari, prima che vi mettano piede i britannici. La presenza di Conrad, capitano con passaporto britannico, è di troppo.

È Conrad, più che altro, a capire di essere durato troppo: abbandona la nave, arma una canoa, rientra a Kinshasa, e da lì, dopo essersi preso la malaria, il 4 dicembre del 1890, rientra in Europa. Che Dag Hammarskjöld, segretario generale delle Nazioni Unite, sia morto in un misterioso incidente aereo il 18 settembre del 1961 proprio mentre si dirigeva in Katanga illividisce i segni, conferisce un ulteriore simbolismo al Congo, il cuore oscuro dell’uomo, il luogo in cui convergono enigmi, massacri, ruberie; l’inferno dell’Occidente in Africa, dove nessuno può dirsi innocente.

Intenso, audace, enigmatico, provocatorio, famoso – molti anni prima ha pubblicato L’immoralista e I sotterranei del Vaticano – André Gide fa un tour nell’Africa equatoriale francese nel 1925, da cui trae un libro, Voyage au Congo, edito da Gallimard due anni dopo. Gli avevano fatto credere di avere un incarico ministeriale, lo scrittore aveva 55 anni e passa parte del libro, in forma di diario, a raccontare la bellezza selvatica, aliena, primordiale dell’Africa. “Cielo indicibilmente puro. Mi pare che mai, in nessun luogo, ha potuto esserci un tempo più splendido. Mattinata molto fresca; si potrebbe credere di essere in Scozia”; “Ho raccolto sulla strada un minuscolo camaleonte e l’ho portato con me nella capanna dove sono rimasto a osservarlo per quasi un’ora. È veramente uno dei più straordinari animali della creazione”.

Il libro ha un fascino arcano: pare che Gide ripercorra a ritroso i primi giorni del mondo. L’esteta, tuttavia, non dimentica il polemista: l’estasi per gli indigeni (“Quel che non posso descrivere è la bellezza degli sguardi di questi indigeni… vicino a questi negri, quanti bianchi hanno l’aria di cafoni!”) non si tramuta in una secca condanna per il colonialismo, ma lo scrittore non si fa scrupoli – quando rientra dalla sua stregoneria retorica – nel descrivere le vessazioni, le ingiurie, gli sfruttamenti (che riguardano, però, ricorda, anche le tribù locali, in lotta per soggiogarsi a vicenda). Il libro – oggi candido e quasi pagano – fece rumore e i politici di Francia lo presero come un gesto antipatriottico, una sfida.

La prima tappa di Gide è a Brazzaville, che è ancora la capitale della Repubblica del Congo. “Strano paese dove si ha meno caldo di quanto si sudi. Andando a caccia di insetti sconosciuti, ritrovo felicità infantile”, scrive lo scrittore, futuro Nobel per la letteratura. Pietro Savorgnan di Brazzà, nato a Castel Gandolfo da nobili friulani, cresciuto nel Collegio romano retto dai gesuiti, cittadino francese dal 1874, aveva fondato Brazzaville dopo aver ottenuto la concessione di un vasto territorio da Makoko, capo temuto delle tribù locali. Non andava a caccia di insetti sconosciuti, non rimpiangeva l’infanzia, alla letteratura preferiva l’azione. In una celebre fotografia di Nadar, Savorgnan di Brazzà, eletto Commissario dell’Africa occidentale francese, indossa abiti locali, un vasto turbante mette in evidenza la barba scura e gli occhi, penetranti. È bellissimo; la profezia di Lawrence d’Arabia. In Congo si distinse per intraprendenza e compassione: gli indigeni apprezzavano i suoi modi, e per un po’ fu amato anche dai governatori di Francia. Nel 1879 rifiutò di prestare i suoi servigi a Leopoldo II; fu ostile a Henry Morton Stanley, foraggiato dal re del Belgio, rude nei modi. Amava l’Africa; molto meno le corti e i cortigiani in Parlamento.

Il grumo è tutto lì, in quella zolla di terra che dell’uomo riassume le violenze e i dolori, l’agonizzante, l’efferatezza, la vita ‘selvatica’, il sonnambulismo della ferocia, l’eccitazione politica. Una stregoneria mutila il Congo: dal massacro di Kindu del novembre 1961, in cui furono trucidati tredici aviatori italiani che lavoravano per le Nazioni Unite, all’assassinio dell’Ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere che lo proteggeva, è la stessa scia di follia scura, emblema del Congo-Idra depredato da troppi, dove mercenari e imprenditori, faccendieri, militari organizzati e avventurieri d’occasione si fondono nel crogiolo ideologico – islamici, maoisti, marxisti, sovietici, filoamericani, filocinesi, tutti sono passati di lì, sono ancora lì, in una guerriglia mai divenuta nostalgia. Tra l’omicidio di Patrice Lumumba – Primo ministro della Repubblica del Congo, vicino all’Urss – nel 1961, ritenuto un tassello della Guerra Fredda in Africa, a “The Rumble in The Jungle”, il leggendario incontro del 30 ottobre 1974 tra George Foreman e Muhammad Ali a Kinshasa, nell’allora Zaire di Mobutu, la storia è sempre la stessa, benché mutino registri e riflettori (in quel caso, da avanspettacolo all’americana, appropriato al mito, da divulgare in film). È sempre, cioè, la tattica coloniale condotta con altri mezzi ma con i medesimi scopi, elaborata tramite militari del luogo con supporto occidentale e spartizione, tra pochissimi, di vastissime risorse.

Durante il disastroso viaggio in Congo, Joseph Conrad appuntò un diario – scarno, pieno d’informazioni marinare, e di accenni ai soprusi lì osservati – che gli servì come schema per scrivere Cuore di tenebra.  Nonostante la reazione di Chinua Achebe, che nel 1975 scrive un saggio al veleno, An Image of Africa: Racism in Conrad’s Heart of Darkness, quel breve romanzo pubblicato sul “Blackwood’s Magazine” nel 1899, spina scura che ancora ci lacera l’iride, è la metafora perfetta del Congo. Semplicemente, Chinua Achebe è uno scrittore nigeriano che esordisce nel 1958, mentre Conrad è un uomo intriso di XIX secolo. Non è tanto per la polemica coloniale che va letto Cuore di tenebra – che pure balugina, nella milizia anonima di schiavi sfruttati dagli agenti occidentali avidi d’avorio:

“File di neri polverosi e dai piedi piatti arrivavano e partivano, un flusso di merci lavorate, cotonate di scarto, conterie, e filo di ottone andava a finire nelle profondità di quelle tenebre e in cambio ne tornava un prezioso gocciolio d’avorio” – ma per la visione disincantata, trasognata, torbida sull’essere umano, che setaccia gli spazi più disparati del mondo come fossero porzioni smangiate di uno stesso, demoniaco incubo. Sapeva, lo scrittore, di essere sceso nel “cuore delle tenebre”, in una catabasi geografica ed esistenziale, per fare speleologia nel cuore oscuro dell’uomo.

“La conquista della terra, che soprattutto significa toglierla a chi ha una carnagione diversa o un naso un po’ più schiacciato del nostro, non è una gran bella cosa… Ciò che la redime è soltanto l’idea… e una fede disinteressata a quell’idea – qualcosa che si possa innalzare e davanti alla quale ci si possa inchinare e alla quale offrire sacrifici…”, dice Marlow, raccontando il delirante viaggio in Congo, tra uomini tetragoni al feticcio del successo, di una libertà che procede ammazzando. Sembra di ascoltare Dostoevskij: tutta Europa inchinata al Baal del denaro, alla famelica avidità di fama, di sopruso, quasi che l’uomo si realizzasse soltanto soggiogando l’uomo. Del Congo, per altro, Conrad raccontò il magnetismo, il desiderio – anche questo ci strugge – di una vita ferina, improntata al selvatico, all’autentico. “Credetemi, nessuno ha mai pagato più caro di me le righe che ha scritto… Non sapevo che io godessi della crudeltà né che lo spargimento di sangue fosse la mia ossessione. Il fatto è che sono una persona assai più semplice”, scrive Conrad ad Arthur Symons, nel 1908.

E il Congo è lì, come il cuore oscuro estratto dal corpo di un dio, e fa luce, sinistra. Una leggenda Bantu, tramandata dai Bena Lulua, che abitano l’attuale Repubblica Democratica del Congo, fa dire a Fidi Mukullu, l’essere supremo:

“Io faccio gli uomini. Gli uomini fanno incantesimi, malattie, il coltello, il dardo, la guerra. Senza incantesimi, malattie, il coltello, il dardo, la guerra, la morte, senza tutto ciò la vita non è che mangiare, bere, dormire, digerire. La vita non è bella senza la morte”.

 

L’intellettuale dissidente

La libertà secondo André Gide e quella mancata della nostra società: ‘L’immoralista’ e ‘La porta stretta’ a confronto

I due romanzi dell’autore francese André Gide hanno la forza simbolica di un manifesto sulla (mancata) libertà di essere se stessi, nonostante i falsi miti propagandati dalle società d’ogni tempo.

L’immoralista (1902) e La porta stretta (1909) di André Gide sono due romanzi gemelli che vanno letti insieme per essere compresi singolarmente. La loro gemellarità emerge solo nella ossatura delle storie: in entrambe il protagonista tenta di realizzarsi abbracciando un percorso di purificazione. Ne L’Immoralista, Michel, colto parigino, dopo essere guarito da una malattia abbastanza puritana (o comunque conservatrice) come la tisi, sente dentro di sé il germe dell’immoralismo e comincia ad assecondarlo. Questo tra le altre cose lo spingerà a rifiutare la sua vita precedente, ad abiurare l’amore per la storia e per l’accademia che rappresentano ai suoi occhi delle trappole per il vero sentire. Il percorso di “purificazione” di sapore Nietzschiano porterà Michel fin nella palude della pedofilia; tutto questo immoralismo alla fine non sarà stato gratuito: la giovane moglie Marceline, della quale il libro racconta l’itinerante viaggio di nozze con Michel, si spegnerà lentamente all’ombra dell’egocentrismo del marito.

La porta stretta invece è qualcosa di più che una composita metafora di moralismo religioso: in esso vegetano emozioni che vengono cannibalizzate dai sentimenti religioni, ma in definitiva è uno straordinario romanzo d’amore. “La porta stretta” è quella che il vangelo di Luca indica come la difficile strada da seguire per giungere a Dio. Jerome, l’io narrante, che ricorda il giovane André, è un adolescente innamorato della cugina Alissa, di poco più grande di lui, che ricambia totalmente. Tuttavia per alcune dolorose circostanze familiari, Alissa sceglie di prendere la strada della porta stretta e quindi vorrà privarsi dell’amore di Jerome per permettere a quest’ultimo di arrivare a Dio senza che venga distratto da un amore carnale. Questa strada sarà talmente stretta che alla fine Alissa vi rimarrà stritolata in mezzo, morendo da sola e lasciando un diario che farà capire al povero Jerome il senso di quella assurda rinuncia.

Se il primo romanzo è forse più efficace per espiantarne un modello di immoralismo, il secondo è di gran lunga più coinvolgente. Ci si immerge nella storia di Alissa e se ne esce affannati, rattristati; difficile comunque non amarla. Al di là del motivo religioso comunemente inteso, per Alissa, si intuisce che Dio è la felicità differita: per questo in qualche modo il non voler concretizzare l’amore con Jerome, non è un tradimento verso il cugino, ma la massima fedeltà alla perfezione di quella storia, fatta di sguardi, epistole e tanta fertile distanza. Forse a coinvolgere il lettore e a rendere i sentimenti così macroscopici è proprio il fatto che nella storia tutto sia potenziale: a un attimo dalla felicità con l’ostinata volontà di non toccarla mai.

Il vero filo conduttore tra le due storie, saggiamente unite nel volumetto Garzanti, è nel concetto che così è riassunto dallo stesso Gide: “Sapersi liberare non è niente: il difficile è saper essere liberi” come a voler dire che la liberazione da un modo di vivere non per forza dà accesso a una libertà. L’immoralista non si libera dopo aver rifiutato la vita contraffatta dal decoro e dalla cultura, ma semplicemente diventa assertore di un’altra dottrina come fa notare l’autore per bocca di Marceline: “comprendo appieno la tua dottrina, perché ormai si tratta di una dottrina. È bella, ma sopprime i deboli”. Allo stesso modo Alissa segue la santità come se fosse ipnotizzata perché, come nel caso di Michel, “ognuno desidera assomigliare il meno possibile a se stesso; ognuno si costruisce un modello, poi lo imita; (…) si ricorre all’imitazione, pretendendo così di amare la vita”.

Questi due racconti sono un sottile manifesto sulla libertà di essere, un manifesto che non professa nulla, che non proscrive avversari e che men che mai offre soluzioni, in ultima analisi sono un manifesto neutrale al limite dell’indecisione. Gide, come tutti coloro che si imbattono nei problemi della libertà con intelligenza, non vuole dimostrare nulla, come avverte nella prefazione: “Offro questo libro per quello che vale. È un frutto pieno di cenere amara, simile alle coloquintidi del deserto che crescono in luoghi arroventati dal sole e fanno sentire a chi ha sete un’arsura più atroce, ma che sulla sabbia d’oro non sono prive di bellezza”.

 

Fonte http://webcache.googleusercontent.com/search?q=cache:http://www.lintellettualedissidente.it/letteratura-2/la-liberta-secondo-andre-gide/&gws_rd=cr&dcr=0&ei=SyYcWvbfLMemU8WTjuAD

Amore e religione: il dramma di Gide in “Sinfonia Pastorale”

Da molti definito solo un “esercizio di stile”, la Sinfonia pastorale di André Gide probabilmente non ha mai goduto di una grande eco: trascurare un’opera del genere sarebbe però un grave errore. Scritto nel 1919, è la storia, raccontata in forma di diario, del rapporto tra un pastore protestante e una giovane ragazza non vedente. Tra le pieghe di questo diario-confessione, è facile scorgere l’intimo dell’autore: il suo travaglio religioso, la sua vita, le sue battaglie interiori che lo hanno contraddistinto.

Mi avete spesso detto che le leggi di Dio erano le stesse dell’amore”

L’amore che qui parla non è più quello che si chiama anche carità.

E per carità voi mi amate?

Sinfonia pastorale è un diario di conversioni, di amore, di pulsioni: da quando il pastore accoglierà nella sua abitazione la giovane ragazza non vedente, rimasta orfana, la sua vita non sarà più  la stessa. Gertrude è il nome che le assegneranno, visto che fino a prima aveva vissuto sola con una vecchia che non parlava e che l’ aveva sempre abbandonata nel suo abbrutimento. Ma ora Gertrude vive: il pastore le insegna a riconoscere il canto degli uccelli, le descrive paesaggi e visioni, le legge passi della Bibbia e del Vangelo. Gertrude ne rimane affascinata: “Ma la terra è davvero cosi bella come il canto degli uccelli?”.

Impara anche a suonare l’organo: la sinfonia pastorale è il componimento che le riesce meglio e che la ispira di più. Pretesto per il titolo dell’opera, si potrebbe pensare. In realtà non vuole essere cosi: le descrizioni che il pastore fa a Gertrude dipingono i paesaggi e visioni quasi bucoliche, idilliche, armoniose, che si uniscono in sinfonie. Questa sinfonia però non è destinata a durare: il figlio Jacques la frequenta nascostamente durante le lezioni di organo in chiesa. La ama, vuole sposarla, ma il pastore non può accettare la compromissione della castità di Gertrude: non sopporta che su di lei Jacques faccia pensieri impuri. Ma non è facile fermare un amore, anzi, sarà impossibile. Jacques è cristiano, tra le altre cose: da questo confronto, nell’animo del caparbio pastore protestante, si insinueranno tarli inaspettati, derivati proprio dalle letture del Vangelo e dalle discussioni con il figlio.

Jacques è sconfitto: costretto dal padre ad allontanarsi dalla figlia, è spedito lontano,mentre  Gertrude tornerà ad essere solo del pastore. Riprendono quindi le lunghe camminate, le lunghe descrizioni: ma ora Gertrude è cambiata. Vuole sapere se Jacques la amava davvero, se voleva sposarla: e con grande sorpresa, arriva a confessare il proprio amore per lo stesso pastore che la aveva presa in consegna: “Ci sono molte cose tristi, sicuramente, che non posso vedere, e che voi non mi raccontate. Preferisco sapere piuttosto che essere felice”. Ma non è solo questo che turba profondamente l’animo del pastore: “Gertrude, pensi che il tuo amore sia colpevole?” –  Risponde la donna: “Che il nostro amore, dico a me stessa che dovrei pensarlo: non ci si può amare al di fuori del matrimonio, i dettami religiosi sono chiari”.

Il calvario del pastore, tra pulsioni umane e sentimenti divini, va avanti, fino a far confondere le acque: “Signore, a volte mi pare di aver bisogno del suo amore per amarti”– dice il pastore,  interpretando in un certo senso il mistero della comunione d’amore tra l’uomo e Dio, l’amore tra uomo e donna come riflesso e partecipazione all’amore di Dio, quando Getrude si opera agli occhi. Le tornerà la vista: sarà ancora innamorata di lui? Non regge questo peso, soffoca, non trova risposte.

Il giorno del giudizio arriva. Gertrude vede e capisce che ama Jacques, al primo loro incontro: confessa al pastore che la prima cosa che ha visto, entrando in casa, è stato invece il peccato, il peccato di quell’ amore colpevole che aveva sbagliato a nutrire. Ora il buio si è dischiarato: vuole Jacques, vuole sposarlo.

Getrude comprende anche che lei è la causa del dolore di quelle due persone: non ne sopporta il peso. Si getta nelle acque di un vicino fiume, sarà poi ritrovata al vicino mulino. Getrude confessa al suo pastore, prima di morire, che il suo getto è stato voluto: ma prima di morire fa anche una altra azione. Insieme a Jacques decidono di convertirsi, di essere uniti in Dio per l’eternità: il padre-pastore capisce solo ora il male che le ha fatto, tendendola lontana dal suo vero amore, mentendole. Ora Getrude può  essere unita a Jacques per l’eternità, quando in vita non le è stato concesso.

Amore, carità cristiana, desideri, passioni, menzogne, c’è tutto questo in Sinfonia pastorale, c’è tutto questo nella vita di Gide, ci sono le proibizioni, il rigido costume puritano, le rigide regole da rispettare. Il cuore arido del pastore, incapace di piangere per la morte di Gertrude, è il fantasma che lo scrittore francese cerca di allontanare dalla sua coscienza.

 

 

André Gide, tra coraggio e prudenza

La vita di André Gide è lo specchio delle sue opere e del suo percorso di scrittore: cosa non scontata per molti suoi colleghi. Gide nasce a nel 1869 e vince il premio nobel nel 1947: pilastro della letteratura francese, la sua vita è stata caratterizzata da forti travagli interiori. Il suo percorso esistenziale è stato difficile, lungo, fatto di profonde cadute: “Gli spiriti non sottomessi sono il sale della terra e i responsabili di Dio”: queste sue parole sono forse quelle che più spiegano la sua complessità, complessità che ha donato interrogativi essenziali per chiunque legga le sue opere.

Sartre ne riconosceva il ruolo di protagonista, scrivendo a proposito di Gide:

“Coraggio e prudenza: quest’insieme ben dosato spiega l’interna tensione della sua opera. L’arte di Gide vuol creare un compromesso tra il rischio e la norma: in lui si equilibrano la legge protestante e l’anticonformismo dell’omosessuale, l’individualismo orgoglioso del grande borghese e il gusto puritano  del rispetto sociale”.

L’omosessualità di Gide tarderà moltissimo a uscire fuori: educato in una famiglia borghese e considerata da tutti austera, il giovane scrittore incontra ben presto problemi di relazione. La morale puritana della famiglia lo soffoca: un segno chiaro lo sono i continui richiami a quello che è il “vizio solitario”, ovvero la masturbazione. Nel suo caso il vizio non è tanto solitario, infatti sarà allontanato dalla scuola che frequenta proprio per questo motivo: il percorso formativo di Gide è difficile. La madre pensa di fargli da maestra, con delle lezioni private, per poi iscriverlo alla scuola di musica, dove studia pianoforte.

Frequenta anche corsi di filosofia, ma incorrendo in varie delusioni scolastiche. Una prima svolta della sua vita si registra quando si innamora della cugina Madeleine, se ne invaghisce quando la giovane parigina vive un momento difficile: trova l’amore perfetto quando ha solo 13 anni, come poi scriverà, o meglio, farà dire al suo alter ego nel suo primo romanzo Les cahiers d’André Walter. Romanzo che per lui “non è l’esordio, ma una summa”, una summa di sentimenti già a 21 anni, li mette nero su bianco traslando su carta il suo travaglio interiore con Madeleine. Amore spirituale e amore carnale, puritanesimo e carnalità: sono gli anni dei grandi travagli per Gide, sempre troppo in bilico tra stati d’animo opposti.

Reinterpreta il mito di Narcisso in Le traité du Narcisse: “Ogni cosa possiede, virtuale, l’intima armonia del suo essere. Il poeta è colui che guarda. E cosa vede? Il Paradiso”, scrive in questo “trattato”, dopo un incontro con Valéry. Decifrare i simboli per essere strumento di rivelazione, questo è il poeta per Gide.

Gide e Wilde

Nel 1891, a 22 anni, Gide incontra Oscar Wilde, ed è un incontro devastante. Scriverà a Valéry: “Wilde si impegna a uccidere ciò che mi resta dell’anima, sostiene che per conoscere un’essenza bisogna distruggerla: vuole che mi penta della mia anima”. Il fascino di Oscar Wilde spaventa il giovane Gide, gli fa affiorare pulsioni che soltanto molto dopo ammetterà a se stesso: il tema della sessualità distruttiva è affrontato dallo scrittore  in Le voyage d’urien, con moderni argonauti che incontrano in mare miraggi orientali, che diventano voluttuosi, ma sarà anche “il viaggio del nulla”. È questo il primo guitto di ribellione verso la sua educazione puritana, lanciarsi verso un mare sconosciuto, verso la libertà.

Il viaggio in Africa è un altro punto fondamentale per la sua vita: paesaggi, genti, nuove frontiere rinverdiscono un’anima troppo ripiegata tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. In questo periodo scrive L’Africa e Paludes con richiami al mondo latino.
Quando muore la madre, Gide è pervaso da un vero senso di libertà e può finlamente liberare il sogno della sua adolescenza: sposare la cugina Madeleine. Con Les norritures terrestres supera la morale puritana e la logica del conflitto in virtù di spazi di “autonomia esistenziali”. Insomma Gide è cresciuto e ne è consapevole.

Si dedica anche a testi teatrali, come Saul, Philoctete, e ad un’opera sperimentale, Les Prométhée mal enchaine: una trasposizione del mito del Prometeo, un Prometeo che confessa che ora che ha liberato gli uomini, ama solo ciò che li ha divorati, cioè quella grossa aquila. Capovolgere il mito, dissacrare, è questo quello a cui è arrivata la sfrenata libertà di Gide.

Nell’ estate del 1900 scrive L’Immoraliste, una nuova tappa auto biografica: “Un giovane e distinto pederasta (sissignore!) prende coscienza della sua vocazione in seguito a una malattia”; basterebbe questo per far intuire le vette raggiunte da questo uomo, ormai, che si è deciso ad affrontare situazioni dissacranti e scabrose, rinnegando tutto quello che è stata la sua educazione puritana. Qui Gide si dichiara omosessuale, forse ama Oscar Wilde? Non è dato saperlo, ma dedicherà all oscrittore inglese, nel 1904 Oscar Wilde. In memoriam. Da qui inizia la crisi di Gide: i moralisti fanno capolino, lo stroncano, lui non regge. Si ferma, non scrive più, ma riesce a portare avanti la sua attività di critico letterario.

Lo scrittore francese riemerge con La porte étroite, in cui rievoca i difficili periodi che ha vissuto, richiamandosi al Vangelo di Luca, perché “passate dalla porta stretta, perché è ampia la porta che conduce alla distruzione, e molti ci entreranno, ma stretta è la porta che porta alla vita, e pochi ci entreranno”.
Seguiranno esericizi narrativi, volti all’impersonalità e a esplorare altri confini letterari e linguistici, come Isabelle e Les Caveus du Vatican.

L’avvicinamento al comunismo sovietico

Ma è nel 1917, a 48 anni, che Gide vede una svolta nella sua vita: si innamora del giovane diciassettenne Marc Alegret: questo gli costerà ovviamente il matrimonio con Madeleine; ne possiamo leggere traccia ne La symphonie pastorale. Il diritto all’esistenza autentica, è questo che Gide vuole manifestare al mondo. Ora Gide, soprattutto insieme a quelli che saranno i surrealisti francesi, è visto come un pericoloso eversore della morale: alle accuse, lo scrittore rivendica sempre una fiera schiettezza d’animo.
Il suo capolavoro più apprezzato ( tutte le sue precedenti opere sono andate incontro a insuccessi editoriali) è Les Faux-monnayers: un romanzo complesso, strutturato, con molti personaggi, è chiara una altissima consapevolezza letteraria e stilistica.

Con Voyage in Congo e Le retour de Chad, scritti durante il suo ritorno in Africa, Gide esprime le sue preoccupazioni per le tematiche sociali inerenti alla colonizzazione.
Gide poi si avvicina al comunismo sovietico, siamo  negli anni più caldi per l’Europa,partecipa a molte manifestazioni comuniste, va in Russia, si spende per la liberazione di prigionieri politici, ma poi rimane deluso dalla stessa ideologia che avea sposato. In Russia si rende conto che le condizioni di vita non sono come esattamente l’ideologia propugnava: allora scrive Retour de l’URSS, in cui prende le distanze dal comuniscmo e susciterà grande scalpore. Ma c’ è hi si chiede: “Gide è mai stato comunista?”

Durante la seconda guerra mondiale, Gide si tiene in disparte, è a Tunisi, occupata dai tedeschi, e poi ad Algeri. La sua ultima opera, Thesée, suona come un testamento:

“Mi è dolce pensare che dopo di me gli uomini si riconosceranno più felici. Per il bene dell’umanità futura, ho compiuto la mia opera. Ho vissuto”.

Nel 1947 riceve il premio Nobel per la letteratura e subito dopo, instancabile, parte per un nuovo viaggio in Africa, la terra che lo ha stregato per tutta la sua vita: morirà però nel 1951, in Marocco, a causa di una congestione polmonare.

 

 

‘I Quaderni’ di Paul Valéry: la poesia come meditazione su ciò che ci accade e come festa dell’intelletto

Discepolo di Mallarmè, Paul Valéry (Sète, 30 Ottobre 1871- Parigi, 20 Luglio 1945), è considerato uno dei maggiori esponenti della poesia simbolista. Dopo aver studiato a Montpellier, si reca a Parigi dove entra a far parte di alcuni importanti circoli letterari. La poesia è per Valéry meditazione su ciò che ci accade, su eventi puramente mentali; ed è per questo che sceglie di dedicarsi intensamente a quest’attività, per non lasciar dubbi irrisolti e conti in sospeso con se stesso. Annoveriamo tra le sue opere più celebri, l‘Introduzione al Metodo di Leonardo da Vinci che riassume, per Valery, l’ideale dell’uomo completo di spirito, figura in cui vengono conciliate alla perfezione arte e scienza. Dopo una crisi intellettuale ed esistenziale, conosciuta come la notte di Genova, ritorna a scrivere grazie ad uno dei suoi più cari amici, Gide e scrive, nel 1896, la Serata con il signor Teste, testo in cui l’attenzione è rivolta, questa volta, all’uomo-intellettuale. In seguito, indirizza i suoi studi anche alle matematiche e alle discipline astratte per tornare ad occuparsi nuovamente di poesia con l’opera la Giovane Parca, seguita dal famoso poema Il cimitero marino. Quest’opera è stata letta come un esercizio spirituale, che gli garantirà, inoltre, un enorme successo come letterato; scriverà, in seguito, Album d’antichi versi in cui racconta la sua giovinezza e Charmes, considerata la sua opera più “inquieta”.
Nel 1925 è membro dell’Accademia Francese e, da questo momento in poi, non smetterà mai di impegnarsi nel suo lavoro di “uomo di lettere”, continuando a scrivere (e lo fa per circa cinquant’anni) quasi ogni giorno, durante le prime ore del mattino, i suoi Cahiers (Quaderni), testimonianza fondamentale per la comprensione della sua poetica. Quaderni che sono preziosi strumenti d’osservazione:

Gli altri fanno libri, io faccio la mia mente

Valéry antepone l’intelletto astratto (”una poesia deve essere una festa dell’intelletto”) ed il dominio delle emozioni al sentimento incontrollato e alla passione e potremmo dire che “il signor Teste” celebra proprio questi aspetti della condizione umana, essendo protagonista-emblema della sua poetica. Il poeta francese tende a governare le leggi dello spirito, attraverso momenti di riconciliazione con il proprio sé, studiandone gli immediati riscontri nella realtà.

Si tratta sicuramente di un’ambizione molto alta che rende, di conseguenza, ambiziosa la poesia e la svincola da tutto ciò che non viene considerato puro ed essenziale. Valéry confesserà, a questo proposito, che l’inconveniente che presenta il termine “poesia pura” è di far pensare ad una purezza morale che non è qui in causa, poiché l’idea di una poesia pura è al contrario per me un’idea essenzialmente analitica. La poesia pura è insomma una finzione dedotta dall’osservazione, che deve servirci a precisare l’idea della poesia in generale e guidarci allo studio così difficile e così importante delle relazioni diverse e multiformi tra linguaggio e gli effetti che produce sugli uomini. Meglio forse in luogo di “poesia pura”…dire ..”poesia assoluta”.

Desumiamo che la poetica di Valéry potrebbe articolarsi in due pensieri: il significato razionale e critico e lo studio attento e scientifico del linguaggio. Linguaggio che è senz’ombra di dubbio critico ed elitario, perché si rivolge ad un pubblico ben preciso e serve a ristabilire l’ordine, quell’ordine che necessita della parola, l’unica in grado di essere e farsi saggia ed universale.
 
La poesia è il tentativo di rappresentare o restituire attraverso il linguaggio articolato queste cose o questa cosa che oscuramente tentano di esprimere le grida, le lacrime, le carezze, i baci, i sospiri. (Paul Valery)

 

‘I falsari’ di Gide: un viaggio nell’anima

I falsari è il romanzo che lo stesso autore Gide definisce “il suo primo e completo”: lo scrive nel 1925 e non è un semplice romanzo. Gide ci mette dentro tutte quelle che sono le sue tematiche che sente più vicine, più pressanti da proporre al pubblico: molta della critica lo definisce “un romanzo nel romanzo”.

In effetti il romanzo si caratterizza per il fatto di contenere più storie nella storia: anche il titolo del romanzo in realtà, come si scoprirà tra le pagine, assume significati diversi e multiformi. I falsari man mano si popola di vari personaggi che si susseguono con le loro caratteristiche e le loro storie: tutta via le figure principali sono poche. Edouard, lo scrittore, che protegge Olivier salvandolo dall’influenza ambigua e morbosa  del conte di Passavant, un ricco borghese interessato non soltanto a gestire riviste letterarie: si vedrà  nel corso del romanzo infatti che  la promessa della pubblicazione degli scritti di Olivier è solo un modo per avvicinare l’ingenuo giovane. Tattica che il conte poi userà anche con altri personaggi. Bernand Profitendieu è il personaggio più complesso della storia: naturale alter ego di Olivier, è animato da uno spirito di ribellione. Scopre infatti di non essere il figlio di colui che riteneva essere suo padre: per questo motivo scapperà di casa, per poi però tornarci, essendo legato comunque alla figura di suo “padre”: la serie di avventure che passa Bernard servirà a renderlo una persona, forse non più un adolescente, come Gide nel romanzo ce ne darà modo di capire.

Nello spazio delle vicende di questi due personaggi, che a loro volte ne tirano dentro altri due, Gide inserisce le storie di altri personaggi: ritenerli secondari forse non rende giustizia al romanzo per cosi come Gide lo ha concepito. Tra questi troviamo Vincent, il fratello di Olivier, che per vari vicissitudini si troverà in Africa ad uccidere Lilian, la donna che ama.

Nel romanzo, Gide dà molto spazio a quelle che sono le pulsioni irrazionali che dominano le menti e influenzano i comportamenti. Olivier verrà preso da una scatenata gelosia nei confronti di Bernarnd, quando questi inizierà a lavorare con suo zio. Bernarnd , dal canto suo, verrà sempre più assalito dai suoi demoni, che non lo lasceranno neanche dormire: una notte infatti egli si ritrova a “combattere” contro un angelo, dal cui scontro nessuno sarà vincitore.
Molte storie si intersecano, in questo romanzo che non ha una vera trama principale. Storie di corruzione e di falsità con se stessi: quella che lascia maggiormente il segno è quella che vede coinvolti gli ragazzi. Gherisandol, Boris, Gerogers, Philippe: il male che si annida e che “falsa” le loro anime qui si palese in tutta la sua crudezza. Per un ridicolo gioco, una prova di coraggio, Boris deve puntarsi una pistola al centro dell’aula dove studiano: solo Gherisandol sa che in realtà la pistola dello zio La Perouse ha in realtà l’ultimo colpo in canna. Ma non lo dice agli altri. Boris, così voglioso di entrare nel gruppo di amici e di farsi accettare per il suo coraggio, accetta la sfida, la dimostrazione. Ma la storia finisce male: Boris muore, è un suicida, quando in realtà non è affatto così. La verità non verrà mai fuori.

I falsari è solo il titolo del romanzo che Edouard sta scrivendo: ma in realtà il titolo sottende tutto un mondo e un modo di intendere la vita, di approcciare a quelle che sono le sfide della vita da parte di un gruppo di giovani adolescenti. Molti comportamenti, inspiegabili, dettati da pulsioni irrazionali, alla fine del romanzo si trova il modo di renderli comprensibili grazie a quella incredibile e intersecata plurivocità che caratterizza il romanzo. Un romanzo di “distruzione”, più che di formazione.

 

 

Exit mobile version