‘Tonya’, la commedia cinica ed insolente di Gillespie che ricostruisce l’identikit di una campionessa di pattinaggio sul ghiaccio votata alla lotta continua

Buoni sentimenti assenti. Nessun messaggio edificante. Di eroi neppure l’ombra. Carezze al pubblico inibite. La pasta di cui è fatto Tonya, uno dei migliori film dell’anno, è quella di un’incontenibile energia che fa saltare gli argini tra finzione e realismo infiltrandosi in tutte le pieghe di una commedia divertente e a tratti farsesca ma sempre cinica e insolente. La tendenza agiografica del genere biopic viene, infatti, fatta a pezzi dal film dell’australiano Gillespie che ricostruisce a colpi di virtuosismi tecnici e stilistici il sorprendente identikit di una campionessa di pattinaggio artistico sul ghiaccio votata alla lotta continua contro l’indigenza, la madre, il marito, il proprio sport, l’America e soprattutto se stessa. Iniziando a mixare i toni sin dal primo fotogramma, il regista e lo sceneggiatore Rogers adoperano la tecnica dello pseudo documentario o mockumentary per dettagliare le tappe del calvario che Tonya Harding, nata e malcresciuta in una delle squallide periferie abitate dal proletariato bianco, è costretta ad affrontare sin da bambina nel segno della propria e altrui ossessione per la vittoria, i primati, la fama e i soldi. Tocca, appunto, alle finte interviste inserite nell’impianto drammaturgico riannodare i fili dell’episodio di cronaca nera che nel gennaio del ‘94 fece scalpore in tutto il mondo, ma soprattutto scosse ed esacerbò l’opinione pubblica statunitense.

Seppure penalizzata dal suo rustico glamour, l’atleta plasmata dalla perfida genitrice (interpretata da Allison Janney giustamente insignita dell’Oscar per la migliore non protagonista) riesce con strenua determinazione a entrare nell’élite olimpica, ma poi diventa complice (forse) inconsapevole del delirante progetto del manesco marito allenatore mirato a liberarla dalla concorrenza dell’emergente connazionale Nancy Kerrigan. Costeggiando il gusto per il “verosimile assurdo” copyright fratelli Coen e pompando ritmo nelle immagini grazie a una fantastica playlist rockettara, il regista non pretende di ristabilire l’ininfluente verità dei fatti, bensì di scolpire senza ricorrere a palliativi o moralismi il ritratto di un’atleta incapace di sottrarsi ai propri drammatici handicap sociali e familiari. Passata alla storia per essere stata la prima americana a eseguire in gara la mirabolante figura denominata triplo Axel, ma poi gettata per sempre nella pattumiera mediatica, la protagonista svetta grazie alla performance di Margot Robbie ottimamente doppiata in Italia da Domitilla D’Amico: una volta involgarita col trucco la propria bellezza nonché usufruito degli effetti digitali per farsi sostituire il corpo nelle evoluzioni in pista, l’attrice lanciata da Scorsese in The Wolf of Wall Street s’afferma come una delle più indecifrabili icone di bad girl tramandate dallo schermo.

 

Fonte:

Tonya

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